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Oreste
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Ebook219 pages1 hour

Oreste

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About this ebook

Il testo in italiano tradotto da Ettore Romagnoli e la versione originale in greco della tragedia di Euripide con protagonisti i fratelli Oreste e Elettra, condannati dagli Argivi a suicidarsi per aver ucciso la madre Clitemnestra. Dopo un tentativo di vendetta contro Menelao aiutati dall'amico Pilade, solo l'intervento di Apollo riuscirà a risolvere la questione mediante le nozze di Oreste con Ermione e di Pilade con Elettra.
LanguageItaliano
PublisherKitabu
Release dateOct 30, 2013
ISBN9788867442270
Oreste

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    Oreste - Euripide

    ORESTE

    Εὐριπίδης, Ορέστησ

    Originally published in Greek

    ISBN 978-88-674-4227-0

    Collana: AD ALTIORA

    © 2014 KITABU S.r.l.s.

    Via Cesare Cesariano 7 - 20154 Milano

    Ti ringraziamo per aver scelto di leggere un libro Kitabu.

    Ti auguriamo una buona lettura.

    Progetto e realizzazione grafica: Rino Ruscio

    ORESTE

    PERSONAGGI:

    ORESTE (figlio di Agamennone e Clitemnestra, fratello di Elèttra)

    ELÈTTRA (figlia di Agamennone e Clitemnestra, sorella di Oreste)

    ELENA (moglie di Menelào, sorella di Clitemnestra)

    MENELÀO (fratello di Agamennone)

    TÍNDARO (padre di Elena e Clitemnestra)

    PÍLADE (cugino e fidato amico di Oreste)

    ERMIÓNE (figlia di Menelao e Elena)

    APOLLO (dio delle arti e della medicina)

    ARALDO

    SCHIAVO FRIGIO

    CORO DI DONNE ARGIVE

    AMBIENTAZIONE:

    L'azione si svolge dinanzi alla reggia d'Argo.

    ELÈTTRA:

    Niuna parola v'è tanto terribile,

    nessuna traversía, nessuna doglia

    suscitata dai Numi, onde non debba

    reggere il peso la natura umana.

    Tantalo infatti, il fortunato - oltraggio

    non faccio al suo tristo destino - il figlio,

    come dicon, di Giove, in aria sta

    sempre sospeso, e temer deve il sasso

    che gli pende sul capo, e questa pena

    sconta, dicon, perché della celeste

    mensa, ei mortale, ebbe l'onore, e freno

    alla lingua non pose: vizio turpe

    quanto altro mai. Costui generò Pèlope,

    e da Pèlope Atreo nacque, per cui

    la Parca, quando gli tessea lo stame,

    la discordia filò, ché con Tieste

    venisse a lotta, col fratello suo.

    Ma che vo' questi orrori enumerando?

    Gli uccise i figli, e a banchettare Atrèo

    l'invitò. Poi d'Atrèo - quanto seguí

    non dico - nacque il celebre Agamènnone,

    se celebre esso è pur, Menelào nacque:

    èrope la cretese a lor fu madre.

    E Menelào sposò la donna, invisa

    ai Numi, Elena; e il principe Agamènnone,

    di Clitemnèstra il talamo, famoso

    fra gli Ellèni, salí: qui tre fanciulle,

    Ifigenía, Crisòtemi, ed Elèttra,

    che sono io stessa, ed un fanciullo, Oreste,

    nacquero a lui da quella sposa empissima,

    che nei lacci di rete inestricabile

    poi lo cinse e l'uccise; e per qual causa,

    dire a fanciulla non conviene: oscuro

    lascio tal punto, ad altri che l'indaghino.

    Or, d'ingiustizia incriminare Febo

    lecito è forse? A uccidere la madre

    onde pur nacque, Oreste egli convinse:

    opra a cui tutti dar lode non possono.

    Pure al Nume ubbidí, morte le inflisse.

    Ed io partecipai, quanto una donna

    potea, la strage; e Pílade con noi

    compié lo scempio. Ma dal morbo oppresso

    Oreste ora è, consunto; e sopra il letto

    piombato, giace: e della madre il sangue

    col delirio lo incalza: il nome esprimere

    delle Dive benigne onde atterrato

    fu nella lotta, non ardisco. Il sesto

    giorno questo è, da che la madre spenta

    purificata fu sul fuoco; e cibo

    non passò per le sue fauci, lavacro

    il corpo suo piú non toccò. Ravvolto

    nel suo mantello, allor che tregua ha il male,

    in senno torna, e piange, e dalle coltri

    talor s'avventa, in furïosi giri,

    come puledro libero dal giogo.

    Ed Argo, dove siamo, ha decretato

    che niuno in casa sua, che niuno all'are

    noi matricidi accolga, o ci favelli.

    E il giorno è questo designato, in cui

    Argo dovrà deliberar se spenti

    cader dovremo sotto i sassi, o infiggerci

    di nostra mano l'affilata spada

    dentro la gola. Un'unica speranza

    di non morir ci resta: è giunto in questa

    terra, da Troia, Menelào: nel porto

    di Nauplia venne la sua flotta, approdo

    fece a quei lidi, dopo un lungo errare

    per i flutti del mare. E mandò Elena

    calamitosa, in casa nostra, l'ore

    della notte cogliendo, affinché i figli

    di quei che cadder sotto Ilio, vedendola

    per via di giorno, non la lapidassero.

    Ed in casa ora ella è, che la sorella

    e la sciagura della stirpe lagrima.

    Eppur, qualche sollievo ha dei suoi mali,

    ché la fanciulla che lasciò, quand'ella

    a Troia s'involò, che Menelào

    da Sparta ad Argo addusse, e l'affidò,

    per educarla, alla mia madre, Ermíone,

    l'ha qui trovata, e se ne allegra, e i mali

    pone in oblio. Verso ogni strada or guardo,

    cerco se giunge Menelào: ché deboli

    le nostre forze son troppo, qualora

    ei non ci salvi. Manca ad una casa

    colpita da sciagura, ogni sostegno.

    (Dalla reggia esce Elena)

    ELENA:

    Figlia di Clitemnèstra e d'Agamènnone,

    tu che da tanto sei fanciulla, Elèttra,

    come, o infelice, matricida Oreste

    sciagurato con te divenne? Macchia

    se teco io parlo, non mi tocca, quando

    spetta la colpa a Febo. E intanto, piango

    di Clitemnestra, della suora mia

    la trista sorte: ch'io, dal dí che a Troia

    navigai, come navigai, sospinta

    da celeste follía, piú non la vidi,

    e, privata di lei, piango il suo fato.

    ELÈTTRA:

    Elena, a che dovrei pur dirti quello

    che da te vedi, in che sciagure sono

    d'Agamènnone i figli? Io seggo qui,

    custode insonne a questo morto misero:

    ché morto e già, tanto n'è lieve l'alito:

    non dico i mali suoi: sarebbe oltraggio.

    Ma tu felice, il tuo sposo felice

    giungete a noi, fra tanti mali immersi.

    ELENA:

    Da quanto tempo esso nel letto giace?

    ELÈTTRA:

    Da quando il sangue materno versò.

    ELENA:

    Misero! E madre misera! Che morte!

    ELÈTTRA:

    è tanto grave il mal, ch'io ne dispero.

    ELENA:

    Vuoi seguire in un punto il mio consiglio?

    ELÈTTRA:

    Quando il conceda questa mia custodia.

    ELENA:

    Gir vuoi per me di mia sorella al tumulo?

    ELÈTTRA:

    Di mia madre, tu dici? Ed a qual fine?

    ELENA:

    Le mie chiome a recare, i miei libami.

    ELÈTTRA:

    Chi ti vieta alla tomba ir dei tuoi cari?

    ELENA:

    Agli Argivi mostrarmi, io n'ho vergogna.

    ELÈTTRA:

    Tardi assenni: a disdoro un dí fuggisti.

    ELENA:

    Saggio parlare è il tuo, ma non benevolo.

    ELÈTTRA:

    E che vergogna hai tu dei Micenèi?

    ELENA:

    Temo i padri di quei che ad Ilio caddero.

    ELÈTTRA:

    Terribilmente in Argo a te s'impreca.

    ELENA:

    Va' tu per me: dal timore affrancami.

    ELÈTTRA:

    Mirar potrei della mia madre il tumulo?

    ELENA:

    Pur non conviene a servi un tale ufficio.

    ELÈTTRA:

    Perché non mandi la tua figlia Ermíone?

    ELENA:

    Tra la folla sconvien muovere a vergini.

    ELÈTTRA:

    Renderebbe mercede a chi la crebbe.

    ELENA:

    Tu dici bene, e il tuo consiglio io seguo:

    mia figlia manderò: tu dici bene. -

    Esci di casa, o mia figliuola, o Ermíone.

    (Esce la fanciulla Ermióne)

    Questi libami e queste ciocche prendi

    dalle mie mani, ed alla tomba récati

    di Clitemnèstra, e latte a miel commisto

    versaci, e spuma di purpureo vino,

    e del tumulo stando in su la vetta

    parla cosí: «Questi libami t'offre

    Elena, tua sorella: al tuo sepolcro

    non venne, per temer l'argive turbe».

    E a me benigna, e a te volga la mente,

    dille, e al mio sposo, e a questi due, che, miseri,

    tolse un Nume di senno; e quanti doni

    funebri a mia sorella offrire io devo,

    fa' di tutti promessa. O figlia, in fretta

    muovi, i libami su la tomba effondi,

    e súbito al ritorno abbi pensiero.

    (Ermióne si allontana. Elena rientra nella reggia)

    ELÈTTRA:

    O istinto, che gran mal sei tu per gli uomini,

    e che ben, quando retto sei! Vedete

    come recise ha le sue chiome agli apici,

    per conservar la sua bellezza? è sempre

    la stessa donna. I Numi t'aborriscano,

    ché tu sei stata la rovina mia,

    e di costui,

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