Oreste
By Euripide
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Book preview
Oreste - Euripide
ORESTE
Εὐριπίδης, Ορέστησ
Originally published in Greek
ISBN 978-88-674-4227-0
Collana: AD ALTIORA
© 2014 KITABU S.r.l.s.
Via Cesare Cesariano 7 - 20154 Milano
Ti ringraziamo per aver scelto di leggere un libro Kitabu.
Ti auguriamo una buona lettura.
Progetto e realizzazione grafica: Rino Ruscio
ORESTE
PERSONAGGI:
ORESTE (figlio di Agamennone e Clitemnestra, fratello di Elèttra)
ELÈTTRA (figlia di Agamennone e Clitemnestra, sorella di Oreste)
ELENA (moglie di Menelào, sorella di Clitemnestra)
MENELÀO (fratello di Agamennone)
TÍNDARO (padre di Elena e Clitemnestra)
PÍLADE (cugino e fidato amico di Oreste)
ERMIÓNE (figlia di Menelao e Elena)
APOLLO (dio delle arti e della medicina)
ARALDO
SCHIAVO FRIGIO
CORO DI DONNE ARGIVE
AMBIENTAZIONE:
L'azione si svolge dinanzi alla reggia d'Argo.
ELÈTTRA:
Niuna parola v'è tanto terribile,
nessuna traversía, nessuna doglia
suscitata dai Numi, onde non debba
reggere il peso la natura umana.
Tantalo infatti, il fortunato - oltraggio
non faccio al suo tristo destino - il figlio,
come dicon, di Giove, in aria sta
sempre sospeso, e temer deve il sasso
che gli pende sul capo, e questa pena
sconta, dicon, perché della celeste
mensa, ei mortale, ebbe l'onore, e freno
alla lingua non pose: vizio turpe
quanto altro mai. Costui generò Pèlope,
e da Pèlope Atreo nacque, per cui
la Parca, quando gli tessea lo stame,
la discordia filò, ché con Tieste
venisse a lotta, col fratello suo.
Ma che vo' questi orrori enumerando?
Gli uccise i figli, e a banchettare Atrèo
l'invitò. Poi d'Atrèo - quanto seguí
non dico - nacque il celebre Agamènnone,
se celebre esso è pur, Menelào nacque:
èrope la cretese a lor fu madre.
E Menelào sposò la donna, invisa
ai Numi, Elena; e il principe Agamènnone,
di Clitemnèstra il talamo, famoso
fra gli Ellèni, salí: qui tre fanciulle,
Ifigenía, Crisòtemi, ed Elèttra,
che sono io stessa, ed un fanciullo, Oreste,
nacquero a lui da quella sposa empissima,
che nei lacci di rete inestricabile
poi lo cinse e l'uccise; e per qual causa,
dire a fanciulla non conviene: oscuro
lascio tal punto, ad altri che l'indaghino.
Or, d'ingiustizia incriminare Febo
lecito è forse? A uccidere la madre
onde pur nacque, Oreste egli convinse:
opra a cui tutti dar lode non possono.
Pure al Nume ubbidí, morte le inflisse.
Ed io partecipai, quanto una donna
potea, la strage; e Pílade con noi
compié lo scempio. Ma dal morbo oppresso
Oreste ora è, consunto; e sopra il letto
piombato, giace: e della madre il sangue
col delirio lo incalza: il nome esprimere
delle Dive benigne onde atterrato
fu nella lotta, non ardisco. Il sesto
giorno questo è, da che la madre spenta
purificata fu sul fuoco; e cibo
non passò per le sue fauci, lavacro
il corpo suo piú non toccò. Ravvolto
nel suo mantello, allor che tregua ha il male,
in senno torna, e piange, e dalle coltri
talor s'avventa, in furïosi giri,
come puledro libero dal giogo.
Ed Argo, dove siamo, ha decretato
che niuno in casa sua, che niuno all'are
noi matricidi accolga, o ci favelli.
E il giorno è questo designato, in cui
Argo dovrà deliberar se spenti
cader dovremo sotto i sassi, o infiggerci
di nostra mano l'affilata spada
dentro la gola. Un'unica speranza
di non morir ci resta: è giunto in questa
terra, da Troia, Menelào: nel porto
di Nauplia venne la sua flotta, approdo
fece a quei lidi, dopo un lungo errare
per i flutti del mare. E mandò Elena
calamitosa, in casa nostra, l'ore
della notte cogliendo, affinché i figli
di quei che cadder sotto Ilio, vedendola
per via di giorno, non la lapidassero.
Ed in casa ora ella è, che la sorella
e la sciagura della stirpe lagrima.
Eppur, qualche sollievo ha dei suoi mali,
ché la fanciulla che lasciò, quand'ella
a Troia s'involò, che Menelào
da Sparta ad Argo addusse, e l'affidò,
per educarla, alla mia madre, Ermíone,
l'ha qui trovata, e se ne allegra, e i mali
pone in oblio. Verso ogni strada or guardo,
cerco se giunge Menelào: ché deboli
le nostre forze son troppo, qualora
ei non ci salvi. Manca ad una casa
colpita da sciagura, ogni sostegno.
(Dalla reggia esce Elena)
ELENA:
Figlia di Clitemnèstra e d'Agamènnone,
tu che da tanto sei fanciulla, Elèttra,
come, o infelice, matricida Oreste
sciagurato con te divenne? Macchia
se teco io parlo, non mi tocca, quando
spetta la colpa a Febo. E intanto, piango
di Clitemnestra, della suora mia
la trista sorte: ch'io, dal dí che a Troia
navigai, come navigai, sospinta
da celeste follía, piú non la vidi,
e, privata di lei, piango il suo fato.
ELÈTTRA:
Elena, a che dovrei pur dirti quello
che da te vedi, in che sciagure sono
d'Agamènnone i figli? Io seggo qui,
custode insonne a questo morto misero:
ché morto e già, tanto n'è lieve l'alito:
non dico i mali suoi: sarebbe oltraggio.
Ma tu felice, il tuo sposo felice
giungete a noi, fra tanti mali immersi.
ELENA:
Da quanto tempo esso nel letto giace?
ELÈTTRA:
Da quando il sangue materno versò.
ELENA:
Misero! E madre misera! Che morte!
ELÈTTRA:
è tanto grave il mal, ch'io ne dispero.
ELENA:
Vuoi seguire in un punto il mio consiglio?
ELÈTTRA:
Quando il conceda questa mia custodia.
ELENA:
Gir vuoi per me di mia sorella al tumulo?
ELÈTTRA:
Di mia madre, tu dici? Ed a qual fine?
ELENA:
Le mie chiome a recare, i miei libami.
ELÈTTRA:
Chi ti vieta alla tomba ir dei tuoi cari?
ELENA:
Agli Argivi mostrarmi, io n'ho vergogna.
ELÈTTRA:
Tardi assenni: a disdoro un dí fuggisti.
ELENA:
Saggio parlare è il tuo, ma non benevolo.
ELÈTTRA:
E che vergogna hai tu dei Micenèi?
ELENA:
Temo i padri di quei che ad Ilio caddero.
ELÈTTRA:
Terribilmente in Argo a te s'impreca.
ELENA:
Va' tu per me: dal timore affrancami.
ELÈTTRA:
Mirar potrei della mia madre il tumulo?
ELENA:
Pur non conviene a servi un tale ufficio.
ELÈTTRA:
Perché non mandi la tua figlia Ermíone?
ELENA:
Tra la folla sconvien muovere a vergini.
ELÈTTRA:
Renderebbe mercede a chi la crebbe.
ELENA:
Tu dici bene, e il tuo consiglio io seguo:
mia figlia manderò: tu dici bene. -
Esci di casa, o mia figliuola, o Ermíone.
(Esce la fanciulla Ermióne)
Questi libami e queste ciocche prendi
dalle mie mani, ed alla tomba récati
di Clitemnèstra, e latte a miel commisto
versaci, e spuma di purpureo vino,
e del tumulo stando in su la vetta
parla cosí: «Questi libami t'offre
Elena, tua sorella: al tuo sepolcro
non venne, per temer l'argive turbe».
E a me benigna, e a te volga la mente,
dille, e al mio sposo, e a questi due, che, miseri,
tolse un Nume di senno; e quanti doni
funebri a mia sorella offrire io devo,
fa' di tutti promessa. O figlia, in fretta
muovi, i libami su la tomba effondi,
e súbito al ritorno abbi pensiero.
(Ermióne si allontana. Elena rientra nella reggia)
ELÈTTRA:
O istinto, che gran mal sei tu per gli uomini,
e che ben, quando retto sei! Vedete
come recise ha le sue chiome agli apici,
per conservar la sua bellezza? è sempre
la stessa donna. I Numi t'aborriscano,
ché tu sei stata la rovina mia,
e di costui,