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L'alba del sacrificio
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L'alba del sacrificio

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About this ebook

Sardegna, Sulcis, 719 a. C. Con macabra puntualità, all’alba dell'Equinozio di primavera, sotto lo sguardo impassibile e arcigno di un Volto di pietra sgretolato dal tempo, si svolge un sanguinario rituale millenario tramandato di generazione in generazione dagli Iniziati. Un sacrificio ciclico che non può essere interrotto...
Sulcis, Carbonia, 1991 d. C. Tommaso Cannas, un giovane avvocato sconvolto per la recente morte del padre, è tormentato ogni notte dallo stesso enigmatico incubo: un susseguirsi di urla strazianti, suoni angoscianti, immagini inquietanti ed emozioni opprimenti, terminante con la visione di un bambino misterioso che lo implora di essere liberato. In seguito ad un tragico evento, avvenuto a Villa Massidda, una solitaria dimora sperduta tra desolate campagne e brulle colline, Tommaso si accorge che il suo strano incubo è in qualche modo collegato a un inspiegabile episodio vissuto in passato dal padre...
Sulcis, Solus, 1952 d. C. Michele Cannas, infermiere generico alle prime armi, riceve dai suoi superiori un insolito incarico: assistere a domicilio, coprendo il famigerato turno di notte, la moglie schizofrenica del ricco e potente architetto Raffaele Massidda. Durante la prima drammatica veglia, in preda ad una violenta crisi nervosa, la donna gli confida un terribile segreto...
LanguageItaliano
Release dateOct 18, 2013
ISBN9788866901600
L'alba del sacrificio

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    L'alba del sacrificio - Giancarlo Ibba

    Giancarlo Ibba

    L’alba del sacrificio

    EEE-book

    Giancarlo Ibba, L’alba del sacrificio

    © Giancarlo Ibba

    Prima edizione: ottobre 2013

    Edizioni Esordienti E-book

    ISBN: 9788866901600

    Tutti i diritti riservati, per tutti i Paesi.

    Questa è un’opera di assoluta fantasia.

    Tutti i nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono frutto dell’immaginazione dell’autore o sono usati in modo fittizio. Ogni somiglianza a eventi o luoghi reali o a persone realmente esistite o esistenti è casuale.

    Per Antonella,

    che mi ha detto provaci ancora

    quando io dicevo no, basta.

    Ci spiegò i segreti delle stelle. Era un mattino di primavera. Dall’alto di un colle vedevamo, nella pianura lontana, sorgere il sole là dove all’orizzonte ancora brillava una luminosa costellazione. Passano le costellazioni, disse Gesù, dopo l’Ariete i Pesci. E poi verrà l’Acquario. Allora l’uomo scoprirà che i morti sono vivi e che la morte non esiste.

    Dal Vangelo secondo Tommaso, (Rotoli del Mar Morto)

    Prologo

    Sulcis, Sardegna, 719 a. C.

    L’Alba del Sacrificio era vicina.

    La lunga processione di torce uscì dall’intricata boscaglia di querce da sughero e si snodò nel sentiero sabbioso tra le colline, un percorso tracciato dal continuo viavai di pellegrini. Le scabre alture di trachite, sommerse dall’umida foschia notturna, erano disseminate di anfratti. Cespugli di mirto, lentisco, rosmarino e ginestra ricoprivano i pendii rocciosi. Il profumo aromatico della vegetazione mediterranea si mescolava con quello solforoso della palude. Proveniente dal golfo, un gelido maestrale staffilava le lingue di fuoco delle primitive fiaccole. Luce e ombra guizzavano.

    Giunto in una radura isolata ai piedi di un oscuro dirupo, dal corteo di uomini e donne s’innalzò una monotona litania. Tutti puntarono lo sguardo su un grosso macigno alla base della collina. In tempi perduti vi era stato scolpito un Volto. I suoi lineamenti erano deformati da millenni di vento, sole, pioggia. Tuttavia, nella sua espressione arcigna persisteva una traccia di ieratica solennità.

    Il canto aumentò d’intensità.

    L’uomo alla testa della processione si allontanò dal resto del gruppo. Indossava una tunica e un mantello di lana grezza. Il suo aspetto, anche in quella tenebrosa atmosfera, non aveva niente di speciale. Tarchiato, gambe robuste, sporchi capelli grigi arricciati sulle ampie spalle. L’unica cosa che lo distingueva dal resto dei partecipanti alla cerimonia era che non stringesse tra le mani una torcia impregnata di grasso animale, ma una cesta di giunchi.

    Nella radura, una depressione a forma di ferro di cavallo con la cavità rivolta a oriente, i seguaci salmodianti si disposero intorno all’uomo con il mantello. Le pulsanti lingue di fuoco sprigionate dalle torce rischiaravano le orbite vuote del Volto nella roccia. Sciami di scintille, disperse dal vento, si smarrivano nel limpido firmamento. In cima alla collina retrostante, stagliato contro il disco butterato della luna, lo scuro profilo a tronco di cono di un nuraghe. Era diverso da tutti gli altri dell’Isola. Questo era stato costruito con pesanti blocchi di roccia nera, levigati e sgrossati, sovrapposti uno sull’altro con maestria. A causa della colorazione uniforme delle sue pietre, era denominato "su Nuraxi Nieddu": il Nuraghe Nero. Nella tradizione orale tramandata dagli abitanti dei villaggi circostanti, la memoria della sua primitiva funzione, come quella del Volto, si era persa nella notte dei tempi. Ciononostante, il periodico rituale a essi collegato proseguiva nei modi previsti dagli Iniziati e dalle Tavole. Interrompere un’usanza che andava avanti dall’inizio del tempo era un sacrilegio e fonte di sventura.

    L’uomo con il mantello sollevò la cesta, tenendola in equilibrio precario sulle palme callose e mormorò alcune formule segrete nel linguaggio dei suoi avi, che avevano dominato l’isola prima della Grande Onda. Subito dopo, la depositò sul terreno ciottoloso.

    Al suo interno c’era un neonato addormentato. La pelle nuda, violacea, avvizzita e ancora imbrattata di placenta, esalava vapore. Nonostante il gelo pungente della notte era caldissimo. Per tenerlo calmo, era stato drogato con l’infuso di un’erba che cresceva solo in quel luogo. Per gli adulti era un potente allucinogeno capace di provocare terribili visioni e un’incontenibile risata nevrotica.

    L’uomo estrasse il bimbo dalla cesta e lo mostrò ai seguaci.

    Il canto cessò.

    Una folata di vento s’incuneò nella conca e sferzò le torce.

    Ignorando quel turbine, dopo aver esposto il neonato, l’Iniziato si girò verso l’effigie sgretolata cesellata sulla pietra. Ai piedi del Volto c’era un altare, una specie di dolmen in miniatura, fatto con la stessa pietra del nuraghe. L’uomo depositò con cura il neonato, supino, in corrispondenza di un apposito incavo. Sul margine esterno della solida lastra, correva una scanalatura in pendenza che terminava in due fori circolari in ambedue i pilastri dell’altare.

    Lo sbocco sotterraneo di quei condotti era sconosciuto.

    A quel punto, come rispondendo a un segnale, l’uomo con il mantello e i suoi fedeli indossarono grezze maschere di legno che fino a quel momento avevano tenuto nascoste sotto le tuniche. Le maschere riproducevano le fattezze del viso scolpito sul macigno.

    Senza solennità, l’uomo con il mantello estrasse dalla semplice cintura di cuoio che gli serrava la tunica un aguzzo pugnale di ossidiana. Le scheggiature riflettevano il bagliore delle torce. Circondato da un improvviso silenzio, l’uomo lo impugnò con entrambe le mani e lo elevò al cielo. Poi restò immobile, in attesa del momento esatto. Il rito richiedeva precisione assoluta.

    Con il viso celato dalle bieche maschere, silenti e immobili, le persone alle sue spalle parvero trattenere il fiato per tutto il tempo, mentre le torce si esaurivano, sfrigolando nelle raffiche di vento.

    Al primo tenue raggio di sole dell’alba, che s’infilò dritto nella conca, insinuandosi tra le frastagliate colline all’orizzonte, l’uomo strillò una parola e calò il pugnale nel cuore del bambino assopito.

    La parola, pronunciabile solo in quell’occasione, era: Cik-al!

    Il sangue sgorgò nell’incavo dell’altare, lo riempì e defluì lungo la scanalatura. Poi sgocciolò, lento e denso, nel buio dei due fori perfetti scavati nei pilastri.

    Al termine del sacrificio rituale, l’uomo con il mantello infilò il pugnale nella cintura e sollevò il cadavere dissanguato dall’altare. Con il neonato che gli si freddava tra le braccia, quasi cullandolo, si diresse verso l’uscita della radura. La folla che lo circondava si aprì al suo passaggio, sussurrando timide invocazioni e spegnendo quel che restava delle fiaccole sui sassi ancora bagnati di brina.

    Dopo un cammino di cinquanta passi, nel luminoso fulgore del giorno nascente, l’uomo si fermò davanti a un profondo pozzo preistorico, racchiuso da una cornice di massi squadrati, incrostati da licheni rossi, marroni e ocra. Dal fondo, esalava una nebbia che odorava di salgemma e muschio. Intorno, neanche un filo d’erba.

    In quella quiete, l’uomo con il mantello allungò le braccia e sospese il corpicino sopra l’apertura, senza mai guardare dentro.

    Era proibito.

    Come molti altri Iniziati avevano fatto prima di lui, per secoli e secoli, l’uomo lasciò precipitare il cadavere nelle umide tenebre della voragine. La caduta non provocò nessuno sciabordio liquido.

    Subito dopo, l’uomo diede le spalle al pozzo e si girò verso i seguaci. Rivolse uno stanco sorriso al sole nascente e proclamò la conclusione della cerimonia. Tutti levarono le maschere di legno e le riposero sotto le tuniche. L’uomo era prostrato. L’età avanzava. Presto, molto presto, avrebbe dovuto lasciare in eredità il fardello dei suoi terribili segreti. Trovare un discepolo adeguato non era facile. Il rituale necessitava di autocontrollo, spietatezza e spirito di abnegazione assoluto. Un consanguineo era il candidato ideale.

    Rimuginando su questa e altre questioni, con gli occhi che gli si chiudevano per la stanchezza, l’uomo con il mantello si rifugiò nella sua tana, una grotta scavata sul fianco orientale della collina.

    "Sull’orlo dell’Abisso,

    nell’ora della disfatta del demonio

    ecco che io giungo quale trionfatore..."

    Libro dei Morti, capitolo 64

    PARTE PRIMA - Frammenti di Terrore

    1. L’incubo

    All’inizio, nel buio, ci sono solo le urla.

    Poi, in sottofondo, come una malinconica colonna sonora, emergono le note elettroniche di un carillon che riproduce la sonata Al Chiaro di Luna di Beethoven. Passi riecheggiano nell’oscurità. Corridoi. Lampi. Tuoni. Gelo. La canna di una pistola. Una rampa di scale. L’ululato del maestrale. Raffiche di pioggia. II cadavere deturpato di una ragazza. Lampadari di cristallo oscillanti. Una porta chiusa. Una chiave. Una donna, stravolta, si contorce su un letto matrimoniale. Una biblioteca illuminata dal bagliore arancione di un fuoco. La sagoma di un uomo immerso nella penombra. Il luccichio delle sue pupille.

    Angoscia. Silenzio. Buio.

    Qualcosa affiora dall’oscurità.

    Un bambino?

    Capelli corti, neri e lisci. Vestito antiquato. Gracile. Fissa il nulla con infelici occhi castani. Il sorriso è sottile. Si avvicina, rischiarando le tenebre con la sua arcana luminescenza. Con un apatico movimento, il bambino protende il braccio destro, come per indicare qualcosa. Il suo pugno sembra una macchia di latte in un lago d’inchiostro. L’indice, immobile come quello di una scultura, esibisce un’unghia sudicia e smangiucchiata. Nell’altra mano, avvolta come una frusta, stringe una vecchia corda per saltare. I manici di legno sono verniciati di rosso.

    Il carillon si ferma e cede il posto a un silenzio sepolcrale.

    Il bambino parla. Le sue labbra, tuttavia, non si muovono.

    Una disperata supplica riecheggia nel vuoto.

    Liberami.

    Un instante dopo...

    L’incubo finisce.

    2. Strani risvegli

    Carbonia, 19 marzo 1991, ore 07:25

    "Liberami..." bisbigliò Tommaso Cannas, nel sonno, con la voce di un bambino spaventato, contorcendosi nel letto sfatto.

    La sua stanza, nonostante il riscaldamento fosse acceso, era fredda. I termosifoni disperdevano calore nell’aria, ma questo si dileguava chissà dove, senza mitigare il gelo. Lame di luce filtravano dalle tapparelle, bucherellate dagli enormi chicchi di una recente grandinata, disegnando strisce bianche e nere sulle pareti. Durante la notte, rigirandosi, Tommaso era riuscito ad arrotolarsi lenzuola e coperte intorno ai piedi. Gran parte della trapunta giaceva sul pavimento. La radiosveglia sul comodino lampeggiava impazzita le 00:00, a causa dell’ormai consueto blackout notturno. Le cifre verdi del display illuminavano il volto gonfio e arrossato. Una profonda increspatura solcava la fronte del ragazzo. Una chiazza di saliva inumidiva il guanciale.

    Toc! Toc!

    Tommaso? Sei sveglio?

    Francesca Farci (in Cannas), settantatré anni, vedova da sei mesi, tentennò dietro alla porta chiusa a chiave della camera di suo figlio. Non sopportava quella nuova, strana e angosciosa ossessione di barricarsi del suo secondogenito. Era inquieta.

    Bussò ancora.

    Tommaso! Sono le sette e mezzo! Alzati! Farai tardi!

    Un brontolio scocciato al di là del legno sottile. Cigolio di molle scariche. Strisciare affievolito di pantofole. La porta si aprì verso l’interno ruotando sui cardini. Tommaso comparve sulla soglia, scarmigliato, stropicciandosi gli occhi arrossati.

    La colazione è già pronta? esordì.

    Non diceva mai buongiorno, mamma.

    In questo e in parecchio altro, assomigliava a suo padre. Michele, da giovane, era fantasioso, distratto e spontaneo. Francesca non mancò di constatarlo, per l’ennesima volta dal funerale. Il dolore della sua perdita era ancora insopportabile.

    È pronta. La tua sveglia non ha suonato, stamattina?

    "Come al solito..., commentò Tommaso, grattandosi la testa arruffata. Pazienza. Dopo una nottata del genere ho bisogno di una overdose di zuccheri, carboidrati e vitamine assortite."

    Perché? domandò subito Francesca, preoccupata, anche se conosceva la risposta a quella domanda. Non hai dormito?

    Tommaso glissò. Macché. Il solito incubo. Sono a pezzi.

    Ciabattando lungo il corridoio, il ragazzo si avviò verso le scale, massaggiandosi il collo rigido e sbadigliando. Il pigiama spiegazzato gli pendeva sulle spalle come su una stampella. Nelle ultime due settimane, era dimagrito di almeno dieci chili.

    Francesca attribuiva al lutto il deperimento del figlio.

    Per Tommaso era stato atroce trovare il padre, quel brutto mattino del 23 settembre 1990, riverso dietro la sua scrivania ingombra di fotocopie. Quell’immagine indelebile era impressa nella sua memoria. Il tavolo, su cui spiccavano un fermacarte di granito a forma di piramide e una lampada da lettura, occupava buona parte del bugigattolo che la madre definiva il suo antro. Era il suo rifugio. Nessuno era autorizzato a utilizzarlo. Tre pareti su quattro erano tappezzate di scaffali colmi di libri. Altri volumi erano accatastati, come torri, in ogni angolo disponibile. L’aria profumava di legno vecchio, carta e colla. L’unica apertura era una minuscola finestra a ghigliottina sopra la porta d’ingresso. Sulla parte interna di quest’ultima, visibile soltanto quando era chiusa, chissà per quale ragione, il padre aveva attaccato con delle puntine colorate la bella riproduzione di un enigmatico dipinto di Nicolas Poussin intitolato: I pastori in Arcadia.

    Michele giaceva, irrigidito, sul pavimento. La mano sinistra contratta ad artiglio sul petto. La destra stretta intorno a una matita spezzata. Le pagine di quello che stava scrivendo, la notte prima di morire, erano sparpagliate sul suo corpo. I suoi occhi, rimasti aperti, erano congelati in un’ultima espressione di orrore, dolore e stupore. Come se, negli estremi istanti della sua vita terrena, avesse colto qualcosa che fino a quel momento gli era sfuggita. Stroncato da un improvviso infarto fulminante, dichiarò, contrito, il medico di famiglia. Da quel giorno, Tommaso non era più entrato in quella stanza. Il misterioso manoscritto, della cui segreta stesura notturna Michele non aveva informato neanche la moglie, era stato raccolto in tutta fretta e infilato in una semplice cartella di plastica. Nessuno lo aveva mai letto.

    Era finito in un cassetto.

    L’antro, da allora, diventò zona off limits.

    Ma almeno sei riuscito a riposare un pochino? s’informò Francesca, seguendolo sugli scalini, attaccata al corrimano.

    Un paio d’ore.

    Non pensi che, forse... azzardò l’anziana donna, allarmata per la sua salute. Aveva un pessimo presentimento.

    Lasciami in pace, mamma... ribatté Tommaso, spazientito. "Sono un po’ stressato. Devo soltanto riabituarmi a dormire nella mia vecchia stanza. Non ho bisogno dello psichiatra."

    Fine della discussione.

    Quindici minuti dopo, in una cucina ordinata, profumata e scintillante anche troppo da quando Michele non interferiva più con il suo disordine quotidiano Tommaso travasò le solite tre zollette di zucchero nel suo caffè macchiato, poi cominciò a mescolarlo con la fronte corrucciata. Per un intero minuto il cucchiaino sbatté contro l’orlo della tazzina producendo uno sgradevole tintinnio. La vecchia radio a transistor, posata in cima al vibrante frigorifero, era sintonizzata su RadioTre. In quel momento diffondeva una nostalgica melodia jazz-blues.

    Francesca spalmò burro e marmellata di fragole su cinque fette biscottate del Mulino Bianco. Conclusa l’operazione, le ripose in un piattino e lo spinse premurosa verso il figlio.

    Mangia.

    Tommaso sollevò appena lo sguardo. Grazie.

    Calò il silenzio.

    Con la usuale voracità, rumoroso come al solito, Tommaso ingollò fette e caffè. A dispetto dell’evidente dimagrimento, mangiava come un disperato. Francesca, talvolta, aveva quasi l’impressione che le sue energie vitali venissero risucchiate all’esterno del suo corpo. Era un’idea assurda, naturalmente.

    Un sintomo della demenza senile galoppante? Probabile.

    Finito di ingozzarsi, Tommaso si sollevò di scatto dalla sedia per andare al bagno. L’espressione del suo viso era pensierosa. Mentre usciva dalla cucina si voltò verso la madre e le sorrise.

    Non preoccuparti per me... disse, serio. Ho fatto soltanto dei brutti sogni. Prima o poi, questa sciocca insonnia passerà.

    Poco convinta, Francesca socchiuse le palpebre e lo fissò.

    Ha a che fare con la morte di tuo padre? domandò.

    Lui esitò.

    Trascorse un secondo di silenziosa attesa.

    No... rispose alla fine, scrollando le spalle magre.

    Tommaso scosse il capo, sorrise senza convinzione e uscì.

    Rimasta sola, Francesca scoppiò in lacrime.

    Mezz’ora dopo, Tommaso depositò la sua ventiquattrore di cuoio sul pavimento dell’ingresso e staccò il cappotto pesante dall’attaccapanni. Lo indossò e controllò il contenuto delle tasche. Fuori l’attendeva un clima piuttosto insolito, almeno per il normale standard di Carbonia. Le temperature minime erano molto sotto la media stagionale. Probabile che, come dicevano gli esperti alla televisione, tutto fosse dovuto a una corrente d’aria fredda proveniente dal Circolo Artico. Qualcosa del genere. La meteorologia non era sua materia preferita a scuola.

    Raccolse la valigetta e si voltò verso la cucina.

    Gridò: Ciao mamma! Sto uscendo!

    Francesca rispose, quasi subito, con voce roca: Ciao.

    Come sempre, prima di uscire di casa, Tommaso lanciò uno sguardo affettuoso e commosso alla fotografia del padre, posata su una mensola nell’ingresso. La cornice era listata a lutto. Un cero funebre acceso si rifletteva sul vetro lucido, illuminando l’immagine color seppia di Michele. Quando era stata scattata quella foto, lui aveva la sua stessa età. Sorrideva all’obiettivo, ignaro del futuro, felice di avere trovato un lavoro all’ospedale.

    Tommaso aprì il portone, osservò il cielo nebbioso e indugiò qualche attimo sullo zerbino, meditabondo. La mamma aveva pianto. Piangeva, senza farsi vedere, ogni giorno e ogni notte. Tommaso temeva che potesse avere un infarto anche lei. Era irrazionale, lo sapeva perfettamente, tuttavia non poteva farci nulla. Certe volte non si può proprio fare a meno di avere brutti pensieri. Era insito nella natura umana farsi del male gratis.

    Con queste meste considerazioni nella testa, si incamminò verso la sua Vespa, parcheggiata nel vialetto davanti alla casa, sotto l’ombra frusciante di un salice. Era il suo unico mezzo.

    L’aria del mattino era pungente, la luce del sole smorzata dal compatto strato di nuvole che offuscava il cielo. Il vicinato era desolato e silenzioso, come succedeva tutti i giorni lavorativi.

    Prima di mettere in moto, immerso in quel gelo tonificante, Tommaso pensò: che senso ha la vita? Era un interrogativo che si poneva spesso, quando si svegliava di malumore. In pratica, quasi ogni giorno del calendario. La sua risposta era desolante.

    Nessuno.

    Ecco la cruda realtà dei fatti.

    Tommaso sospirò, montò sulla Vespa e andò al lavoro.

    3. La telefonata

    Carbonia, 19 marzo 1991, ore 10:00

    Contraddicendo le previsioni meteo, il cielo si era rasserenato e dalla finestra entravano dolci barbagli di luce dorata. La radio era spenta. Il frigo ronzava. Francesca lavò le stoviglie, le asciugò e le ripose con cura nella credenza. Rimuginava sul brutto sogno di Tommaso e quell’assurdo infarto che aveva ammazzato il marito.

    Un circolo vizioso di riflessioni. Pensava, sospirava e piangeva.

    Calde lacrime gocciolavano nel lavello pieno di schiuma. Non poteva proseguire così, doveva farsi coraggio e tirare avanti... La vita continuava. In un modo o nell’altro. Certo. Facile a dirsi.

    Tuttavia, Francesca non riusciva a farsene una ragione.

    No! Non è giusto! Non me lo merito, cosa ho fatto di male?

    Infilò la destra nella schiuma e cercò il tappo di plastica che chiudeva il lavello. L’afferrò e tirò con rabbia. L’acqua sporca mulinò dentro lo scarico. Francesca osservò pensosa quel gorgo spumoso fino a che l’ultima goccia non venne inghiottita con un gorgoglio che le ricordò uno stomaco vuoto. La similitudine le strappò un fiacco e falso sorriso. Aprì il rubinetto dell’acqua fredda e pulì il lavello dai batuffoli di schiuma. Infine, tolse gli appariscenti guanti di plastica giallo vivo e li gettò sul ripiano.

    Chiuse il rubinetto.

    In quel momento, in salotto, squillò il telefono.

    Francesca andò a rispondere, camminando lungo il corridoio dove non penetrava quasi mai la luce diretta del sole. Pensò: tranquilla, non è successo nulla. Il telefono non squilla solo per comunicare disgrazie... È Tommaso che chiama per dirti che stasera farà tardi in ufficio. Non tormentarti, vecchia sciocca.

    Il salotto era immerso in una piacevole ombra, creata dalle tende fatte a mano che coprivano le due finestre. Una guardava verso l’orticello posteriore, l’altra su uno stretto passaggio che confinava con il giardino della vicina. Il telefono era collocato su un basso tavolino quadrato, davanti a due comode poltrone. La parete sulla destra era occupata da una libreria componibile dall’equilibrio precario. Accoglieva tutti i romanzi, tascabili ed edizioni economiche, che il marito non era riuscito a stipare nel suo antro. Per montarla aveva impiegato una intera settimana.

    Con un nodo in gola, sollevò la cornetta al terzo squillo.

    Pronto? disse, cercando di mantenere un tono neutro.

    Sono sempre pronto, mamma.

    Marco! Sollievo immediato. Come stai?

    Abbastanza bene. Tu?

    Pausa. Sì, anch’io sto bene.

    Tommaso?

    Non so. È strambo in questi giorni. Dice di avere fatto dei brutti sogni. Non mi ha detto altro. Tu cosa ne pensi?

    Sai com’è fatto. Ha sognato papà?

    Non credo.

    Magari è solo cattiva digestione. Quel musone non è mai stato famoso per la sua dieta. Adora patatine fritte e wurstel!

    Ha preso tutto da suo padre... La voce le s’incrinò.

    Scusa, mamma. Vorrei esserti vicino, ma sai... il lavoro.

    Non preoccuparti. C’è Tommaso con me. È stato molto gentile a mollare il suo appartamento e venire qui per farmi compagnia. Convivere con una mamma vedova e scorbutica non è il massimo della vita per un ragazzo... Francesca tirò su con il naso e si tamponò gli occhi con il dorso della mano. La solita piagnucolona. Doveva smetterla. Come sta tua moglie?

    Sta bene. Proprio questa mattina ha un colloquio. Cercano una commessa per il nuovo centro commerciale che apriranno a Sassari. Personalmente non sopporto quell’ambiente, vorrei che cambiasse lavoro, però lei non sente ragioni. E poi abbiamo bisogno di soldi extra per affittare una casa più grande...

    Più grande? Perché?

    Ops! Non te l’ho detto? Stai per diventare nonna.

    Il cuore di Francesca saltò un battito. Oh, io... Marco, sono sbalordita... felicemente sbalordita! Ma ti pare questo il modo per annunciarmi il lieto evento?! Gesù, aspetta che lo dica a tuo fratello! Un nipotino tutto da coccolare! Quando? E... Gianna? Immagino sarà al settimo cielo! Devo chiamarla al più presto!

    "Tranquilla, nonna, mancano ancora otto mesi. Hai tutto il tempo che occorre per confezionare quei ridicoli calzini di lana, cuffiette e copertine. Tutti quanti unisex, mi raccomando."

    Quindi non sapete ancora se...

    "Noi non vogliamo saperlo. Anche se questa è la moda del momento. Siamo preistorici: preferiamo goderci la sorpresa."

    Non riesco a crederci, Marco. Sono rimasta senza parole.

    Evento straordinario. Oh, scusa un momento... Sì, sì, ora arrivo. Devo lasciarti, mamma. Hanno bisogno urgente di me in cantiere. Quei maledetti ingegneri! Ti richiamo io, ok? Ciao.

    Aspetta un attimo. Marco! Marco?

    Il segnale intermittente della linea interrotta la informò che il figlio maggiore, Marco Cannas, aveva riagganciato. Sempre di corsa e indaffarato quel ragazzo. Fin da piccolo faceva tutte le cose a precipizio, desideroso di intraprendere sempre nuove avventure, coinvolgendo spesso l’introverso fratellino nelle sue scorribande. La vitalità di Marco era contagiosa. Bastava la sua semplice presenza in una festa per ridare verve alle serate più noiose. A differenza dell’irrequieto marito, invece, Gianna era la calma incarnata. Proprio vero che gli opposti si attraggono.

    Muovendosi come in un sogno, Francesca abbassò la cornetta bollente e si lasciò cadere nella poltrona prediletta da suo marito. Accarezzò il tessuto dei braccioli, sovrappensiero, assaporandone la morbida familiarità. Non si accorse di aver smesso di piangere.

    I suoi due figli erano bravi ragazzi e ne era davvero orgogliosa.

    Tra non molto avrebbe avuto anche un bellissimo, o bellissima, nipote da viziare e riempire di regali. L’idea di diventare nonna la riempiva di una strana, euforica e inaspettata voglia di vivere.

    C’è ancora speranza per me? si domandò.

    4. Il compleanno

    Solus, 19 marzo 1991, ore 12:20

    A pochi chilometri in linea d’aria da Carbonia, circondata da un alto muro di cinta, sorgeva una solitaria villa dall’aspetto imponente e misterioso. Era stata costruita nella conca alla base di una desolata collinetta. Una delle tante che punteggiavano le squallide campagne di Solus. L’edificio, sproporzionato in quel contesto, era contraddistinto da uno stile architettonico unico in Sardegna: elementi caratteristici tipici del gotico, neoromanico, liberty e barocco, erano amalgamati senza logica costruttiva o estetica. Il tutto immerso in un oscuro paesaggio composto da stentata macchia mediterranea e scabri affioramenti rocciosi.

    La gente del luogo, da secoli, la chiamava Villa Massidda.

    Nell’enorme salone delle feste la lunga tavolata era allestita con il servizio migliore. Stoviglie di pregiata porcellana cinese, posate d’oro e argento lucido, bicchieri di cristallo sfavillante. Decorazioni originali, fiori freschi e frutta esotica a profusione.

    Ogni particolare era perfetto.

    Giovanni Massidda, l’uomo accigliato seduto a capotavola, discendente di una antica casata in decadenza, in contrasto con tutta quella fastosità, spiccava come un bruco tra le farfalle.

    Negli ultimi giorni era parecchio smagrito. Pallido, occhiaie profonde, guance incavate. Sgocciolante di sudore. Poco prima di mettersi a tavola, aveva regolato il climatizzatore a 18 gradi, nonostante il freddo esterno. Eppure continuava a sentire caldo. Gli sembrava di essere imprigionato dentro una serra tropicale. Era insopportabile. Vistose chiazze umide ornavano le ascelle della sua camicia di cotone leggero. Si sentiva quasi soffocare.

    Un bel modo di passare il giorno del suo compleanno.

    Insofferente, Giovanni rimboccò le maniche e sbuffò.

    Stai male, caro? domandò, preoccupata, la donna seduta all’altra estremità del massiccio tavolo di quercia. Cosa hai?

    Era la moglie di Giovanni: Katia, trentadue anni, bellezza statuaria di prima categoria e cervello di seconda. In compenso, era una madre premurosa, spendacciona, abile organizzatrice di tornei di scopone scientifico, feste di beneficenza e ricevimenti. Una first lady fatta e finita.

    Giovanni abbozzò un mezzo sorriso, ma gli venne fuori un brutto sogghigno storto. Il suo viso era refrattario all’allegria.

    "Vuoi saperlo? Le Voci sono tornate..." sibilò a denti stretti.

    Katia sgranò i suoi occhioni azzurri, stupita. Eh?

    Sto cercando di non ascoltarle... aggiunse lui. Credimi.

    In quel momento, sfrecciarono attraverso l’ingresso ad arco del salone delle feste due dei tre figli di Giovanni: Matteo e Samuele. Tredici e undici anni. L’altro figlio, Giuseppe, aveva appena sei mesi. Il piccolo dormiva tranquillo e sazio nella sua culla, al secondo piano, in un angolo della camera dei genitori.

    Dopo una puntata veloce al bagno di servizio per lavarsi le mani, Matteo e Samuele appesero i giubbotti agli alti schienali delle loro sedie e presero posto. Per tutta la mattinata avevano giocherellato, riempiendo di grida e schiamazzi il silenzio, nell’inselvatichito parco di querce da sughero che attorniava la villa. I due ragazzini quel giorno non si trovavano a scuola poiché le medie di Solus erano chiuse, a causa del riscaldamento guasto.

    Una buona scusa per festeggiare e pranzare tutti insieme.

    Allora, mà, si mangia? esclamò Matteo, volgendosi verso la madre, ancora perplessa, con un sorriso allegro stampato sulla faccia arrossata dal sole e dallo sport. Era un ragazzino in perenne equilibrio instabile tra il vivace e il rompipalle.

    Katia assentì, ricambiando il sorriso del figlio senza alcuna convinzione. Matteo si era spezzato un incisivo cadendo dalle scale, la sera precedente. Per giustificarsi, sosteneva di essere stato sgambettato da qualcuno. In ogni caso, l’atteggiamento e l’aspetto trasandato del marito l’avevano messa di pessimo umore. Negli ultimi tempi, Giovanni era stato più scontroso, taciturno e sprezzante del normale. Dopo tutta la fatica che lei aveva fatto per farsi preparare quel pranzo di compleanno.

    Era quello il modo migliore di ringraziarla? No di certo.

    Sbrighiamoci! intervenne Samuele, prendendo in mano forchetta e coltello. Portava ancora il berretto da baseball, unto di sudore. "La

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