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Romanzo di formazione, viaggio in una precarietà economica e affettiva molto attuale, corsa travolgente nelle emozioni e sensazioni di una ragazza come tante ma diversa da tante: tutto questo, e probabilmente qualcosa di più è "On off", uno spartito sulla vita ordinaria di Valentina, giovane che trova dentro di sé la forza per affrontare l'esistenza con la purezza e la trasparenza di chi ha sempre dato ascolto al cuore, prima ancora che alla mente. La personalità di una ragazza come Valentina appare talmente caleidoscopica che alcuni dei suoi aspetti, alcune delle sue innumerevoli sfaccettature, emergono a intermittenza in base alle vicissitudini della quotidianità. La lotta di sua madre contro il cancro che la divora, gli amori, le difficoltà occupazionali, ognuno di questi ostacoli tirerà fuori da lei diversi stati d'animo che le faranno scoprire molto di se stessa. La vita è un fatto passionale, sembra volerci dire la protagonista, e per quanto ci si sforzi di essere il più possibile razionali, ciò che davvero governa le azioni di ogni uomo sono le emozioni. Con uno stile incisivo, espressioni irriverenti che sdrammatizzano anche i momenti più duri, questo libro riesce a trasmettere la vera essenza di cui è fatto l'animo umano.
LanguageItaliano
Release dateMar 15, 2015
ISBN9788867931590
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    On Off - Valentina Mannino

    coincidenza.

    1. MODALITÀ COMBATTENTE OFF

    14/10/2006

    Nella vita incontri centinaia di persone, alcune le scegli, altre, volente o nolente, te le ritrovi accanto. E giungi alla conclusione che non esistono persone perfette. Tu in primis non lo sei. La persona che giace dentro quella bara non era una persona perfetta, ma è stata ed è una mamma perfetta. E non lo dico perché curiosamente tendiamo sempre a divinizzare chi ci lascia fisicamente, bensì per il semplice fatto che posso, con assoluta certezza, affermare che nel suo ruolo di mamma non ha sbagliato niente. Voci di corridoio dicono che sia il mestiere più difficile del mondo. Non ho le prove per confermare o smentire questa tesi, ma per mia madre non lo era di certo. Lei è geneticamente mamma. Ha cresciuto me e Alessandro con valori profondissimi, quali il rispetto, la curiosità nei confronti della vita e del mondo, la libertà. Ci ha sempre lasciati liberi di diventare prima ed essere poi gli individui che volevamo essere, permettendoci di tentare, sbagliare, crescere, scegliere. Non si è mai permessa di darci consigli non richiesti, né di negarci niente. Ci ha cresciuti lontani da tabù, cliché e schemi mentali di ogni sorta, preferendo sempre il dialogo costruttivo, il confronto, la battuta ironica e sdrammatizzante.

    Sono una ribelle che non ha mai avuto ragione di mostrarlo. Questo perché con lei ho sempre preferito commentare un libro, contemplare un tramonto, ascoltare la musica, mentre m’insegnava a cucinare... Quante cose mi ha insegnato! A leggere e scrivere quando avevo tre anni, a nuotare, andare in bici, essere autonoma e indipendente. Mi ha insegnato l'importanza del contatto fisico, dei baci, delle carezze, degli abbracci, delle parole dolci, dei gesti teneri, dei nomignoli buffi: la forza dell'Amore. La forza devastante, impetuosa, travolgente dell'amore. Lei è amore. Ha dedicato tutta la sua vita a questo sentimento; amare e amarci è stata la sua missione.

    La cosa buffa è che anche in quest' ultimo dolorosissimo anno, ha insegnato a me e a chi le è stato accanto tantissime cose.

    La forza, la tenacia, la testardaggine, quando, scoperta la malattia, ha iniziato a combatterla.

    Perché lei voleva, doveva averla vinta sul suo male. Non ho mai visto una persona più attaccata alla vita di lei, più vigorosa nei suoi attacchi ripetuti a un cancro che la stava divorando senza pietà. Quando piano piano il fisico ha iniziato ad abbandonarla inesorabilmente, ecco che ci spiazza, ci sorprende, tirando fuori, come neanche il più bravo dei maghi avrebbe saputo fare dal suo cappello a cilindro, il coraggio di soffrire, subire il dolore e non negarti mai un sorriso, non farti pesare mai la sua agonia, disdegnando sempre il compatimento. Infine, quando le sue condizioni si sono definitivamente aggravate, quando la sua lotta non è stata più contro il tumore, ma contro la morte, ha dimostrato la più grande dignità che io abbia mai visto. Ha vissuto tutta la sua vita con dignità e discrezione e non è cambiata per affrontare la morte.

    Per tutti questi motivi e per molti altri che rimarranno intimi segreti tra me e lei, non penserò neanche per un attimo che lei sia morta. Perché vive in ogni mio gesto, in ogni mia scelta, idea, pensiero.

    Perché, come scrive M. Mazzantini: «Chi ti ama c'è sempre, c'è prima di te... prima di conoscerti…»

    Per lo stesso motivo, infine, non mi sentirò mai sfortunata per averla persa, perché immensamente più grande è la fortuna e l'orgoglio di averla avuta come mamma e il privilegio di averla per sempre come mio angelo.

    14/10/2013

    Un ultimo pensiero prima di andare a dormire. I miei occhi, inconsciamente, si sono posati sull'orologio che ha appena indicato l'arrivo del 14/10. Bene. Sette anni fa, questa data mi ha indicato il crash test del cuore, quando te ne sei andata tra le mie braccia in quel letto d'ospedale. Oggi so di aver passato, con immane fatica, quel collaudo. Oggi non mi va di scriverti che mi manchi. Oggi non voglio dirti che tutta la mia vita sarebbe diversa, se tu fossi ancora qua. Oggi me ne vado a dormire serena, perché so che, ovunque tu sia e qualunque forma tu abbia, te la ridi. Per una figlia che si cerca e non si trova mai, per la mia incoerenza, per quella capacità da guinness dei record che ho di non concludere mai un cazzo nella vita. Te la ridi perché, nonostante tutto, sono qui. E ci credo ancora. E, con l'anima rattoppata e il cuore non sempre sintonizzato, combatto. Te la ridi perché, per quanto sbagli o possa averti delusa, continui a riconoscermi. Ridi di gusto nel vedere che la bambina che hai conosciuto vive ancora, si stupisce ancora, sogna sempre ed è libera, come hai voluto tu, come mi hai insegnato tu. 'Notte mam... ehm Rompiballe.

    È strano rileggere, a distanza di sette anni, quello che avevo scritto e letto con la voce tremante e un principio di asma, il giorno del tuo funerale.

    Mi ricordo che, in quel momento, nonostante le decine di mani, guance, lacrime e sorrisi che mi avvolgevano e coccolavano, mi sentivo terribilmente sola.

    Avevo messo la modalità combattente in OFF, modalità che avevo azionato inconsciamente quasi per immunizzarmi nei confronti del mondo, quando un medico, senza troppi giri di parole, mi disse che il tuo mal di pancia, motivo per il quale ci eravamo precipitate al pronto soccorso di Asti, era un tumore al colon in fase terminale.

    E saresti morta nel giro di una settimana.

    E si rifiutavano di operarti, perché sarebbe stata un’inutile sofferenza inflitta al tuo corpo.

    Non potevo dirtelo, però.

    E non potevo disperarmi, non potevo perdere la testa, non potevo distrarmi.

    Dovevo restare lucida e diventare di ferro, io che al massimo sono stata di albumi montati a neve, nella vita.

    E allora via a una di quelle performance all’Arturo Brachetti, in cui ti portavo il cambio, sorridevo, prendevamo in giro il pessimo cibo dell’ospedale e un secondo dopo parlavo al telefono con Edoardo, tuo ex cognato sulla carta, ma fratello nella vita, chirurgo a Catania e stabilivamo come portarti in Sicilia per farti operare dal suo primario.

    E l’attimo dopo, altro giro altra corsa, piangevo, mi fumavo tre sigarette di fila e mi sfogavo con il mio fidanzato dell’epoca.

    Quei giorni li ricordo benissimo e altrettanto bene ricordo i mesi successivi.

    Già, perché a volte ciò che è scientifico non è reale.

    A volte i medici sbagliano, a volte le cure di chi ti ama ti fanno il pieno quando sei in riserva.

    E la tua settimana è durata un anno.

    Anno vissuto nella nostra amata- odiata terra, in braccio a mamma Etna.

    Un anno che tu e io abbiamo vissuto a distanza, come tanti altri prima, poiché sono rimasta in quel Piemonte che mi ha adottata, tra nuovo lavoro, nuove amicizie, nuovo amore e Alessandro, il regalo più bello che mi hai fatto, il fratello più desiderato al mondo.

    2. MODALITÀ EREMITA ON

    Che tempo di merda.

    Guardo ossessivamente fuori dalla finestra e non riesco a darmi pace, per questa sua indecisione in un pomeriggio siciliano qualunque di metà ottobre.

    Detesto il meteo che mi fa il verso, odio sentirmi il suo ventriloquo.

    Sono qui da cinque giorni, in quest’auto-esilio che mi sono inflitta nella casa al mare dei nonni, a poco più di un’ora da Catania, partendo con la solita illusione che, in solitudine, mi sarei guardata dentro, avrei provato ad ascoltarmi, a capirmi, a spronarmi.

    Quante bugie che racconto a me stessa, da 31 anni ormai.

    E lei continua a cascarci. Ma quando lo scoprirà, e lo scoprirà, non credo che sarà disposta a perdonarmi.

    Sono venuta qua in questo momento di stallo della mia vita, in cui non ho un amore, non ho un lavoro, non ho una casa e sono sommersa da una valanga di cose da riordinare e conti in sospeso da chiudere.

    Bell’affare.

    Il punto è che non puoi fare il cambio stagione se sei un’accumulatrice seriale di sogni e per fortuna non esiste un’Equitalia dell’anima, altrimenti sarei a dir poco nella merda.

    La cosa assurda è che lì fuori, oltre quella finestra e quel tempo incerto, ci sono un sacco di persone che credono in me, che si aspettano da me chissà quali vittorie e premi e soddisfazioni.

    Io invece non mi sono mai neanche iscritta alla competizione.

    Vivo sopra una nuvola, piccola a dire il vero, un monolocale ben attrezzato, attentissima a non poggiare mai i piedi per terra, nel mondo perfettamente irreale che ho creato, come se il mio secondo nome fosse Amélie e il terzo Alice e di tanto in tanto mi affaccio e do un’occhiata a ciò che succede sotto, sempre superficiale, senza mai prestare troppa attenzione né sporgermi eccessivamente.

    Il problema è che, in questa nuvola priva di praticità e concretezza, mentre immagino strade di marshmallow e viaggi nel tempo e teletrasporto, mi dedico al montaggio ossessivo di gabbie fatte di paure e insicurezze, come se il mio cognome fosse Ikea.

    Valentina Amélie Alice Ikea quindi, tremo al solo pensiero del codice fiscale.

    A che serve una mente creativa che produce idee, speranze, progetti, se poi la sua titolare la tiene segregata in una soffitta, tra scartoffie, cianfrusaglie e giocattoli rotti?

    È come la storia di Raperonzolo e della strega cattiva che la rinchiude nella torre.

    Ma io sono strega e principessa allo stesso tempo.

    Il punto è che ovviamente all’orizzonte non c’è traccia del principe azzurro.

    E di certo non ho neanche una voce melodiosa che mi permetta di attirarne uno e comunque, quand’anche l’avessi, ho i capelli corti e non avrei nessuna treccia da lanciargli per farlo arrampicare.

    Con questo non voglio dire che, se incontrassi un uomo, magicamente le mie paure svanirebbero e io comincerei a darmi da fare per cercare di realizzare qualcuno dei miei tanti sogni.

    Non ho mai messo la mia vita nelle mani di qualcun altro, non consapevolmente, per quanto, come ogni donna, credo che sia insita in me quella convinzione di dover essere salvata da un uomo.

    E, anche se non lo ammettiamo a noi stesse, cerchiamo il salvatore nel papà, fratello, fidanzato di turno, figlio, amico gay.

    Ma puntualmente:

    - Il papà è possente, ma troppo vecchio e acciaccato per arrampicarsi;

    - Il fidanzato si arrampicherebbe anche, ma non ha ancora capito che noi vogliamo che lui faccia il contrario di ciò che diciamo, quindi un va tutto bene, non rischiare la vita per salvarmi significa in realtà cosa aspetti a salire? Dimostrami quanto mi ami rischiando la vita per me;

    - Sempre il fidanzato, nel caso facesse parte di quello sparuto 1% che si arrampica nonostante i nostri tentativi di depistaggio, sarebbe un orco come Shrek e noi, ovviamente, non siamo Fiona, ma Scarlett Johansson, che, chissà come, è finita nella torre;

    - Il figlio, ovviamente, è impegnato con la di lui compagna, che a sua volta ha innescato il meccanismo perverso da trappola di Jigsaw, che non gli permetterà né di salvarla né tantomeno di salvarsi;

    - L’amico gay è rinchiuso in un’altra torre di un altro castello;

    - Il fratello è gay e sta andando a salvare l’amico.

    A noi non resta che lanciarci dalla finestra, o decidere di aprire la porta alle nostre spalle, scendere le scale e smetterla con questo teatrino.

    Nonostante la consapevolezza di essermi rinchiusa nella torre e di doverne quindi uscire da sola, in realtà è come se la mia prigione fosse anche la mia protezione.

    E’ come se la paura di fallire fosse più grande della mia ambizione.

    Ma per farti sbattere una porta in faccia, devi prima bussare.

    Troppo comodo dire nessuno mi ha aperto, se hai accuratamente evitato di suonare il campanello.

    Comunque, in questi cinque giorni passati lontano dalla civiltà, dagli amici, dal mio vulcano, mi sono resa conto che, per quanto caos possa contenere ogni molecola del mio corpo, è giunto il momento di salire nella soffitta in cui ho rinchiuso la mia mente e trovare il coraggio di lasciare andare: emozioni, paure, blocchi, ricordi.

    Io, buttatrice ossessivo-compulsiva, che non conserva nulla, neanche il biglietto del cinema di un primo appuntamento galante, mi ritrovo nella paradossale situazione di avere paura a fare questo passo.

    Ho paura di aprire la soffitta. Ho paura di quello che potrei trovarci, ma anche di quello che potrei non trovarci. Ho paura di liberare la mente e darle finalmente le possibilità che si merita.

    Il colmo per una che, a detta di tutti, ha un’apertura mentale straordinaria.

    Ho paura di non ritrovare la strada per uscire e al tempo stesso ho il terrore di non voler uscire più da lì, in quest’autocannibalismo esistenziale.

    Quest’ultimo anno e mezzo è stato incredibilmente denso, triste, difficile, rigenerante, imprevedibile, camaleontico, meraviglioso. Un viaggio, un esame, una scommessa. Un inizio. Una fine.

    E, dopo questi fuochi d’artificio, sento il bisogno di fermarmi, di rifiatare, di metabolizzare.

    E allora mi chiedo se, in certi momenti, restare immobili non sia l'unico modo per continuare a camminare.

    Mi chiedo se lasciarsi trascinare dalla corrente per un breve tratto sia un atto di pigrizia, di codardia o di lungimiranza.

    Mi chiedo, infine, se ascoltare il nostro respiro, e assecondarlo, non sia la prima fase di un'apnea consapevole.

    L'unica che può farci superare un limite.

    L'unica che può portarci a un record d’immersione nella vita.

    Prendo la torcia allora e salgo le scale.

    3. MODALITÀ MINESTRA RISCALDATA OFF

    Quando ho accompagnato all’aeroporto di Torino te e Edoardo, mi ricordo che, dalla sedia a rotelle nella quale ti avevano messa, mi lanciasti un’occhiata eloquente più di mille parole e in quel momento capii che avevi capito, che sapevi, che avevi ascoltato il tuo corpo e lui ti aveva dato le stesse riposte per nulla confortanti che il medico dal cuore di pietra mi aveva dato pochi giorni prima.

    Mi guardasti consapevole e al tempo stesso mi sorridesti, cercando di rassicurarmi.

    Probabilmente invece io, di tutta risposta, ti stavo trasmettendo angoscia, terrore, immaturità.

    E’ che tu sei sempre stata brava a tenerti tutto dentro, a metterti quella maschera zen mentre dentro eri dilaniata, ad apparecchiare la tavola del Mulino Bianco, quando in realtà in dispensa c’era la mensa della Caritas.

    Io invece lo sai come sono, sempre estrema, plateale, esagerata in ogni manifestazione di qualsiasi impercettibile sensazione ed emozione che sto provando, senza filtri, senza censure, senza giudizio.

    Mi chiedo se non sia stato questo tuo modo eccessivamente altruistico di preservare i tuoi figli e in generale tutte le persone che ti circondavano, di non coinvolgerli nel tuo dolore e nel tuo malessere, a farti ammalare.

    Mi domando se tutto questo trattenere, tutto questo non piangere, non parlare, lasciare solo intuire, non farsi mai consolare e trasformare al tempo stesso tutta la merda in zucchero filato buonissimo, di cui per anni sono stata ghiotta, non ti abbia uccisa.

    Che poi domando, mi e t’interrogo, ma in realtà la risposta la conosco benissimo.

    Sei morta per amore.

    Che vuoi una statua, novella Anna Karenina?

    Pensi di meritare applausi scroscianti e comprensione assoluta per il tuo sacrificio?

    Scusa. Dico davvero. Mi dispiace. Sono come sempre fuori luogo, inopportuna e sensibile come un cactus sulla Route 66.

    E’ solo che non è facile per me scindere Mariella donna, moglie devota e tradita, amante innamorata, dalla mia mamma.

    So però che c’è stato un punto di rottura ben preciso, un momento in cui hai deciso di licenziarti e lasciare Catania, per trasferirti con Alessandro, allora dodicenne, in Piemonte, da me che vivevo lì già da tre anni.

    Me la ricordo quella telefonata.

    Era il 2004.

    Avevi un tono di voce più basso del solito e non credo fosse la nicotina.

    La sai la novità, Vale? Sei seduta? Sei pronta a ridere?

    Uhm, dimmi. E non caricare sempre di aspettative questi tuoi racconti, che rimango delusa. Penso che mi devi dire, chessò, che hai vinto un concorso di bellezza, e allora sì che ci sarebbe da ridere e invece mi dici che ieri sei andata al karaoke e hai stonato.

    Sei la solita stronza… ma ecco… Avevo appena capito che non eri in vena di scherzi e cambiai tono pure io.

    Dai mamma, ti ascolto.

    Papà aspetta un figlio da cosa, come si chiama, Marina dichiarasti, interrompendoti immediatamente in attesa della mia reazione.

    Cazzo. Ah, comunque è Marianna, non Marina dissi con tono strafottente.

    Eravate separati da anni, ma solo legalmente. E neanche troppi mesi prima lui ti aveva parlato di riprovarci, ricominciare, comprare una casa insieme.

    Poi, aveva conosciuto lei.

    Credo che non bastino tutte le onomatopee utilizzate nei fumetti di Batman per descrivere cosa sia successo dentro di te, un BOOM CRASH CRACK dritto nello stomaco. Pardon, nell’intestino.

    Sì, lo so come si chiama… ma non sembri sorpresa. Tu già lo sapevi.

    Già, me lo ha detto ieri e mi ha fatto promettere di non dirtelo, voleva essere lui a comunicarti la notizia.

    Che pezzo di merda! fu l’incipit di un tuo sfogo-fiume durato più di due ore.

    Mi parlasti di figli di serie A e serie B e di tante altre cose che mai avrei pensato di sentirti dire, come se il cancro si fosse sviluppato in quel preciso momento e avesse cominciato a parlare al tuo posto.

    Eri cattiva, eri cinica, rancorosa. Eri ferita.

    Mi dicesti che volevi cambiare aria, che dopotutto avevi da poco compiuto 40 anni e avevi voglia di rimetterti in gioco, che per una fisioterapista col tuo curriculum non sarebbe stato difficile trovare lavoro al nord e che Alessandro, preadolescente, si sarebbe adattato senza problemi.

    Avevi già pensato a tutto.

    Io, che ai tempi studiavo ancora cinema al D.A.M.S. e facevo il servizio civile in una comunità per minori, avevo appena preso casa a Scurzolengo, una via più che un paese, a venti minuti di macchina da Asti

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