IL RIFIUTO e altri racconti
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Il racconto “Il rifiuto”, che dà il titolo a questa breve raccolta, è stato scritto all’indomani della caduta delle Torri gemelle: l’ episodio è presente in filigrana, si potrebbe trattare di qualsiasi altra situazione di guerra e di violenza a cui, purtroppo, la cronaca ci sta abituando, ma che le persone non possono accettare, perché la normalità non è la morte, la violenza, il massacro, che invece, come ribadisce anche il racconto “Guerra”, fanno perdere alle persone ogni punto di riferimento.
In un mondo assurdo, dove l’unico parametro di valutazione è l’efficienza lavorativa (si veda la denuncia ironica di questo disvalore ne “Lo zoo” e “Il nuovo direttore generale”), forse non tutto è perduto: esistono ancora storie d’amore e di gelosia (“Annalisa”), l’istinto naturale arriva ancora a prevalere sulla nostra volontà razionale (“Il salto”), le persone si cercano e cercano di costruire rapporti nuovi, di trovare formule nuove per amarsi e vivere insieme: sono le storie raccontate ne “Lo straniero”, che presenta la difficoltà, ma anche la bellezza, di un rapporto tra persone di nazionalità e cultura molto diverse come un italiano e una somala, o ancora “Sulla sponda del letto”, che descrive la formazione di una famiglia diversa da quella che siamo abituati a considerare, con la vita in comune di marito, moglie, amante di lui e i due figli che l’uomo ha avuto con le due donne.
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IL RIFIUTO e altri racconti - Andrea Benigni
dell’Autore/Editore.
Il Salto
Ero stato un pazzo a farle entrare in casa.
Da allora mi maledicevo, e mi chiedevo cos’è che ci spinge a sconvolgere la nostra tranquillità quotidiana, il nostro equilibrio conquistato anno dopo anno, con tanta fatica. Guardavo allo specchio il mio volto pallido, scavato. Una nuova inquietudine mi rendeva insopportabile il mio aspetto rassegnato e trasandato.
Era a causa di quelle due.
La serenità, recuperata a fatica e solo in parte dopo il fattaccio, era ormai persa. Vagavo per casa, in preda all’ansia, e quando il giorno si spegneva sentivo il loro richiamo:
«Dai, forza, salta giù, è solo un saltino, un piccolo saltino.»
I miei occhi si spalancavano e le guardavo con orrore e con rabbia. Me le ero portate in casa io. Folle! Ero stato un folle.
Le fissavo, e tremavo. Se ne stavano lì, immobili, in attesa. Sapevo che sarebbero state capaci di aspettarmi per anni. Due gemelline infernali.
Nessun frastuono placava la loro vocina insistente e ammaliante.
«Dai, salta giù! Dai, è un istante.»
Allora mi voltavo e pretendevo «Lasciatemi in pace! Non salto giù, no! Non posso. Non potrò mai.»
«Dai, tanto prima o poi salterai. Fallo ora.» Mi esortavano, mi volevano.
Le mani premevano sulle orecchie, per non sentirle. Strizzavo gli occhi per non vederle. E urlavo no.
Le loro parole indebolivano le mie convinzioni. Ero confuso. Quale istinto perverso distrugge la stabilità conquistata al prezzo di tante rinunce?
Il furore, a lungo represso, mi prese per il collo e mi fece saltare. Le braccia raccolsero tutte le energie del mio corpo e, come due molle, mi scaraventarono giù dalla sedia a rotelle. Caddi brutalmente sul pavimento.
Le due scarpe erano lì, a pochi passi da me. Le raggiunsi strisciando e me le infilai ai piedi.
Il rifiuto
–– 1 ––
Spalanco gli occhi. Un’altra notte di veglia e di orrore. Nella penombra fisso il soffitto, per assicurarmi che esista ancora. Che io esisto ancora: come tutte le mattine, il primo pensiero va al fatto che sono ancora vivo. Allontano dalla fronte, con il dorso della mano, alcune gocce di sudore. Mi siedo sulla sponda del letto, i piedi premuti al pavimento: cerco punti d’appoggio.
Oggi non è giorno di spesa: non dovrò guidare il furgone per le strade dissestate, pregando di non saltare in aria a causa di una mina; non dovrò, impacciato dal giubbino antiproiettile, caricare le sacche dei viveri incassando la testa tra le spalle, per proteggerla dalle pallottole vaganti dei cecchini. E non sarà il peso dei pacchi a gonfiarmi il ginocchio ancora debole dopo l’attentato, ma stare in piedi per ore a operare: oggi resterò in ospedale tutto il giorno, e parte della notte, dipende dalla quantità di carne maciullata che faranno le granate del nemico. E tornerò a casa più o meno impregnato dall’odore dolciastro di cadavere, a seconda dell’efficacia delle cure ai feriti, nei giorni passati.
Quasi un rituale religioso, la mia mano si avvicina all’interruttore e prova a accendere la luce. C’è luce. C’è ancora corrente elettrica: gli strumenti dell’ospedale saranno utilizzabili, e le medicine, le poche rimaste, si potranno conservare.
–– 2 ––
Cammino zoppicando sul piazzale dell’ospedale. Mi fermo un momento per riposare, e vedo il mio assistente agitarsi, mentre parla al cellulare. Lo raggiungo sulla porta, appoggiandomi alle stampelle. Lui chiude la telefonata e mi guarda facendo no con la testa.
«Che altre belle notizie ci sono?» gli chiedo.
«Un disastro. Hanno fatto un disastro, hanno attaccato da terra e dal cielo, hai visto la televisione? Hanno colpito anche l’ospedale, stanno portando tutti i feriti qua da noi. Che facciamo ora? Se li prendiamo tutti non riusciremo a evitare un’epidemia.»
«Mantieni la calma.» Osservo dall’ingresso la quantità folle di lettini e di feriti accatastati fin nel corridoio per sfruttare ogni angolo. Mi vengono in mente le immagini degli schiavi ammassati nelle navi uno sopra l’altro. Il fetore mi respinge come pugni nello stomaco. È odore di pustole marcescenti, di carne guasta, dove banchettano mosche e batteri.
«Dei morti, nelle zone dove hanno bombardato, si sa niente?» chiedo, pensando ai miei parenti che vivono nella città dove ieri notte è arrivata l’ondata di fuoco. Il nemico ha distrutto i ripetitori dei cellulari, le linee telefoniche, quelle internet. È impossibile riuscire a contattarli per sapere come stanno.
«Si sa niente? In che senso si sa niente?»
«I nomi dei morti, la lista, l’hanno già fatta?»
«I morti? La lista dei morti?» mi guarda inebetito come dire a che cazzo stai pensando. «Non saranno ancora riusciti a raffreddare le macerie e a tirarli fuori, i cadaveri. Come