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Le nostre future sinagoghe cristiane
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Le nostre future sinagoghe cristiane

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About this ebook

Il presente contributo traccia delle linee di approccio alla tematica del timore di Dio, così come era vissuto alle origini del cristianesimo dai “credenti in Dio” all’interno e al di fuori della sinagoga.

Partendo dal concetto di sinagoga, intesa sia come luogo di insegnamento del timore di Dio, che come segno tangibile della realizzazione del timore di Dio in Cristo, il lavoro passa ad esaminare, in un primo capitolo, i principali elementi che contraddistinguono i timorati di Dio negli Atti degli Apostoli prima del passaggio della loro fede in Cristo e nell’Antico Testamento, riferendoci in particolare alla tradizione deuteronomistica e a quella sapienziale.

Nel secondo capitolo l’autrice delinea non solo l’identità socio-cultuale e psico-cultuale dei “credenti in Dio” all’interno della sinagoga, ma anche le forme orali e quelle di recezione psico-sociali che permisero a questi di diventare dei veri timorati di Dio in Cristo.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateNov 11, 2014
ISBN9788891162588
Le nostre future sinagoghe cristiane

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    Le nostre future sinagoghe cristiane - Cinzia Randazzo

    Ibidem

    Capitolo primo

    LA SINAGOGA E IL TIMORE DI DIO IN CRISTO

    1. La sinagoga luogo di insegnamento e di guarigione

    1.1. La sinagoga luogo di insegnamento del timore di Dio

      Durante il suo ministero pubblico in Galilea Gesù, dopo aver attraversato il "mare di Galilea, giunse, insieme ai suoi quattro primi discepoli, a Cafarnao ed entrò proprio di sabato nella sinagoga: Andarono a Cafarnao e, entrato proprio di sabato nella sinagoga, Gesù si mise ad insegnare" (Mc 1,21). Gesù entrò proprio di sabato nella sinagoga, perché il giorno di sabato, all'inizio della creazione, fu consacrato da Dio per essere giorno di riposo (Gen 1,1-2,3), mentre nella tradizione ebraica viene ad essere il giorno in cui si commemora la liberazione degli ebrei dalla schiavitù degli egiziani:

    L'osservanza del sabato nella narrazione biblica comincia durante il cammino nel deserto e si collega al dono della manna (Es 16), che non dev'essere raccolta nel settimo giorno: infatti il sesto Dio garantisce una doppia razione. Per questo la celebrazione del sabato porta con sé la memoria della liberazione dall'Egitto e della prova del deserto.

    Il giorno di sabato viene ricordato non solo perché è il giorno di riposo da tutte le cose, ma anche perché Dio ha dato il comandamento di santificarlo:

    La maggiore differenza tra Esodo e Deuteronomio si trova nel motivo del comandamento: da una parte la creazione, dall'altra la liberazione dall'Egitto".⁹ Sia nel primo caso come nel secondo "si tratta ancora di una imitazione di Dio: come Dio ha santificato il settimo giorno, così chi osserva il comandamento.¹⁰

    Sotto questo profilo il sabato "è memoria e imitazione dell'opera di Dio per la salvezza",¹¹ perché da una parte il fedele riposa da tutte le opere mondane rinfrancando lo Spirito e liberando le energie spirituali per onorare il creatore e, dall'altra, per ricordarsi che Dio è amico del suo popolo, in quanto lo ha liberato dagli egiziani. Il sabato quindi per gli ebrei è il giorno in cui si commemorano le gesta salvifiche di Dio; da una parte Dio ha dato la vita alla creazione preservandola dalle tenebre e, dall'altra, Dio ha dato all'ebreo la possibilità di liberarlo dal male, dai nemici.

    A partire da tale quadro l'ebreo imita il riposo di Dio, rivivendo il comandamento dell'amore verso Dio. Egli identifica la Torah col comandamento dell'amore:

    Insieme, le due tavole ci insegnano cosa vuol dire il duplice comandamento dell'amore: ama Dio con tutte le tue forze e ama il prossimo tuo come te stesso.¹²

    L'ebreo ama Dio con tutte le forze per tutto ciò che egli ha creato e per quanto ha fatto per salvarci dalle potenze nemiche. Amando Dio al di sopra di ogni cosa, l'ebreo vive la pratica cultuale del timore di Dio, perché ripone la sua fiducia in lui per tutto quello che ha fatto per la sua salvezza.

    Pertanto Gesù entra proprio di sabato nella sinagoga per onorare il Padre celeste in questo giorno, insegnando le cose che il Padre gli ha comandato di dire. Gesù, secondo la testimonianza di Marco in 1,22, insegna come colui che possiede autorità perché in lui risplende la sapienza del Padre, in quanto compie e dice tutto quello che il Padre gli comanda di dire e di fare, diversamente dagli scribi, la cui sapienza proviene loro non da Dio ma dalle accademie rabbiniche: "Ed erano stupiti del suo insegnamento, perché insegnava loro come uno che ha autorità e non come gli scribi" (Mc 1,22). Di nuovo Gesù

    venuto il sabato, incominciò a insegnare nella sinagoga. E molti ascoltandolo rimanevano stupiti e dicevano: «Donde gli vengono queste cose? E che sapienza è mai questa che gli è stata data? E questi prodigi compiuti dalle sue mani? Non è costui il carpentiere, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non stanno qui da noi?». E si scandalizzavano di lui. Ma Gesù disse loro: "Un profeta non è disprezzato che nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua (Mc 6,1-4).

    La sinagoga è il luogo che accoglie la sapienza del Padre che si manifesta nel Figlio, perché solo al Figlio il Padre ha dato questo privilegio, essendo fin dall'eternità unito al Padre. Egli palesa questa sua filiale forma di attaccamento al Padre nel timore di Dio, dal momento che soltanto lui possedeva la sapienza del Padre ancora prima della creazione, nel sabato primordiale.

    Alla luce di ciò il sabato temporale, cioè il settimo giorno, che corrisponde al periodo in cui Gesù entra nella sinagoga, è tempo in cui diviene tangibile nella storia il vero timore di Dio che si estrinseca nell'insegnamento del Figlio. Il sabato storico è tempo storico del primordiale timore di Dio che il Figlio viveva nei confronti del Padre nel sabato protologico e viceversa.¹³ La dimensione costitutiva che fonda la relazione autentica tra il Figlio e il Padre è proprio il silenzio; nel silenzio del sabato protologico si consuma l'attività condiscendente tra Padre e Figlio e viceversa:

    Il silenzio è origine e fine della parola, è ciò che precede e segue ogni parola, ed essendo limite dà senso e forma a ciò che limita, alla parola: innestare la parola sul silenzio significa renderla cosciente dei propri limiti, della propria non-onnipotenza, del proprio aver bisogno della parola di altri per cercare insieme la verità e costruire insieme un senso. La parola che recupera il rapporto con il silenzio diviene mite e accetta, anzi riconosce di aver bisogno dell'alterità. Il silenzio è spazio per l'altro, è spazio per l'ascolto. E così contribuisce alla riuscita della parola come incontro. Innestare la parola nel silenzio significa dare veridicità alla parola stessa ( ... ). La parola vera, dice Panikkar, è silenzio

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