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Nato su Meiverus
Nato su Meiverus
Nato su Meiverus
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Nato su Meiverus

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About this ebook

Sono passati duecento anni dalla Guerra della Decade quando Lilian, una giovane apprendista dell’Alto Consiglio di Crystal, scopre che i sogni da cui è tormentata fin dai primi anni dell’infanzia sono fatti realmente accaduti in un passato troppo lontano per poterlo ricordare. Ignorando gli avvertimenti di Andros Reinarth, suo mentore e padre adottivo, Lilian parte alla ricerca della misteriosa città di Quabaltha, capitale di un regno caduto in rovina e di un superstite, sopravvissuto a dispetto del tempo per portare a termine un destino da cui dipenderanno le sorti del pianeta. Ma il viaggio di Lilian si dimostrerà tutt’altro che agevole.
LanguageItaliano
Release dateJan 12, 2014
ISBN9788868855802
Nato su Meiverus

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    Book preview

    Nato su Meiverus - Melania Manente

    MELANIA MANENTE

    nato su meiverus

    A Sabrina

    per l'entusiasmo più autentico

    Prologo

    La storia che sto per raccontare ha sfidato i limiti del tempo fin dall’inizio, per restare nella memoria di tutti gli abitati di questo mondo.

    Per lunghe decadi nessuno ne ha più parlato, qui su Meiverus, ma la straordinaria prova di coraggio dei suoi eroi non verrà mai dimenticata.

    Di questa prima vicenda nessuno aveva mai sentito parlare fino a quando, dopo la sparizione del Custode, si venne a sapere che la veggente aveva sempre saputo come sarebbe andata, dove si era perduto e quindi anche come ritrovarlo.

    Qualcuno racconta che dopo la sua vittoria non fosse mai più tornato indietro, altri sanno che è sopravvissuto… molti sono certi che dopo aver terminato il suo compito se ne sia andato a vivere la vita di pace che aveva sempre desiderato.

    Credo che questa fosse la versione più bella del finale, perché venne accolta come la verità, quando il re la divulgò nel suo lungo discorso di commiato ai caduti. E così, nessuno partì mai più per cercarlo.

    Ecco che il cerchio si chiudeva, ai piedi della torre dalla quale era cominciato, con una donna già cieca che poteva vedere tutto, insieme al suo re, amato furfante, che fu sempre disposto a dare molto più che la vita per lei e ad accompagnarla ad ogni passo nel suo lungo cammino.

    E sì… se vi state chiedendo come faccio a sapere tutte queste cose, ha ragione chi dice che la veggente io la conosco di persona.

    Quando Lilian si coricò quella notte, il sogno fu molto più lungo del solito: più vivido, come se fosse successo davvero. Così non poté fare a meno di pensare che qualcosa stesse per accadere…

    Parte 1

    La minaccia sepolta

    1

    Era quasi l’alba quando Jensid raggiunse il ponte. Si fermò un istante, attratto dall'improvviso schiarirsi del cielo: i primi raggi dei due soli si facevano strada oltre l'orizzonte colorando di un rosa pallido le vette degli Artigli dell'Aquila.

    Attraversò il ponte a passi felpati e s’inoltrò nel folto del bosco evitando il sentiero per recuperare tempo.

    Al suo passaggio, uccelli neri spiccarono il volo dai rami degli alberi alle sue spalle. Oltre il bosco, dal pendio che dava sulla valle, si sentivano rimbombare tamburi di guerra.

    Per un momento, Jensid trattenne il respiro: l’esercito era vicino. Avanzava rapidamente verso la capitale, se non fosse riuscito a dare l’allarme Quabaltha e l’intero regno sarebbero stati perduti.

    Strinse le palpebre, mentre un bagliore candido si generava dalle sue dita e lo avvolgeva per intero. La sua mente si fece tutt’uno con l’ambiente circostante, percorse a ritroso la strada che aveva finora seguito: percepì la presenza degli animali, la loro folle corsa verso ovest; le piante e gli arbusti spezzati, il terreno straziato; il passo cadenzato e regolare dei fanti che precedevano la cavalleria e poi… silenzio.

    Spalancò le palpebre, preso da una terribile consapevolezza: Rohenda era stata presa. Ricordò l'accampamento di soldati in cui si era imbattuto la sera prima: solo un brandello dell'immenso esercito che ora avanzava verso la capitale.

    Rohenda caduta…

    Questo significava che gli astriani avevano già preso il controllo sulla strada e sul crocevia: lui era l’unico che poteva ancora salvare Quabaltha!

    Si buttò sulle spalle il mantello argentato scoprendo l’elsa della scimitarra e tese le braccia verso il cielo.

    Il marchio prese forma ai suoi piedi, in solchi luminescenti di potere. In un attimo il suo corpo perse sostanza sino a raggiungere la consistenza di una nuvola di fumo e i suoi occhi iniziarono a brillare di un’intensa luce bianca.

    Qualcosa di molto simile a uno spettro, Jensid si lanciò in una corsa contro il tempo. Nella mente un solo assillante pensiero: devo avvertirli!

    In pochi minuti percorse miglia di foresta intricata, controllò ogni avamposto, ogni punto di frontiera in cui dovevano essere stanziate le armate elfiche, ma non trovò neanche un drappello di soldati amici. Le truppe erano state ritirate! Quabaltha non aveva più alcuna difesa! Piegò a est, si lanciò verso il cancello della capitale Zadra e in un batter d’occhio fu al limite della valle.

    Sulla torre più alta del palazzo reale di Quabaltha, le sentinelle montavano la guardia del tutto ignare di ciò che stava per abbattersi sulla capitale e si preparavano a festeggiare con i propri cari la fine della guerra.

    Jensid schizzò in avanti, passò rapido tra le piante e gli arbusti – un fruscio di foglie simile a un respiro sommesso. Ripeté a memoria il messaggio che aveva intercettato poche settimane prima, a due sole miglia dal passo di Ayron’z Kur, rimproverandosi per essersi lasciato sfuggire uno dei messaggeri. La rabbia gli cresceva dentro come un fiume in piena mentre capiva che l’emissario era giunto a destinazione, con la copia del messaggio:

    "Io sottoscritto, in comune accordo con il rispettabile Consiglio dei Saggi, dichiaro, in nome di tutte le maggiori famiglie aristocratiche astriane, la mia volontà di porre fine al conflitto che finora ha straziato i nostri regni e ha strappato tanti uomini alla vita, tra cui il duca Artur Drogan. Nella speranza di ricominciare una nuova era di pace e giustizia, invito i miei avversari a deporre le armi in favore di una diplomatica alleanza.

    Talad, della casata Drogan."

    Tutta una trappola, pensò, tutta una trappola.

    Rallentò il passo mentre riprendeva la sua forma umana, serrò i pugni nello sforzo di contenere l’ira e guardò davanti a sé: il capitano Naigt pattugliava le mura e il cancello a est.

    Vederlo fu un grande sollievo: Thoumas Naigt era il migliore condottiero dell’armata zadra, il consigliere del re e uno dei suoi migliori amici, dunque anche la persona più adatta cui riferire dell’imminente arrivo dell’esercito nemico.

    Si concesse qualche istante per riprendere fiato: l'incantesimo era stato impegnativo e l'Equilibrio già esigeva il suo pagamento.

    Nel vederlo sopraggiungere, le guardie fecero subito scattare il meccanismo di apertura del portone e il giovane chierico fu accolto calorosamente tra le braccia del capitano Naigt.

    «Ben tornato vecchio mio!», esordi l’uomo stringendogli la mano e abbracciandolo come fosse un fratello.

    «Sei giusto in tempo per i festeggiamenti!», continuò, poi lo allontanò un poco per vederlo meglio.

    «Sono stato troppo a lungo via da casa», rispose Jensid in tono cupo, «E non so come sia la situazione qui».

    «Gli Astra si sono arresi, amico mio! Non abbiamo più nulla da temere. Il re ha dato l’ordine di ritirare le truppe non appena ha ricevuto il messaggio di Talad, per dimostrare il nostro desiderio di pace.», rispose il capitano sorridente.

    «Certo! Ne sono al corrente!», sbottò Jensid amareggiato mentre la rabbia gli cresceva dentro a dismisura.

    «Non si sono arresi affatto! Il messaggio era fasullo! Una trappola, non capisci?! Uno stratagemma per costringerci ad abbassare la guardia… e noi ci siamo fatti raggirare come matricole, dannazione!».

    «Coraggio, Jensid. So quanto hai perso in questa guerra e quanto vorresti vedere la sconfitta degli Astra, ma sii saggio: la pace è ciò che ci aiuterà a superare il dolore e la miseria che la guerra ci ha portato».

    «La pace dici?! Se solo volessero la pace quanto la vogliamo noi, Thoumas! C’è un esercito che avanza da sud-est verso la capitale, in questo momento! È un’armata di enormi dimensioni, non ho mai visto tanti uomini in una volta… », Jensid abbassò lo sguardo e la sua voce si fece distante:

    «Ci distruggeranno. Hanno già raggiunto il ponte, dovremo attingere a tutte le nostre risorse per fermarli».

    Il capitano rimase interdetto. Jensid aveva impresso sul volto tutto il rammarico per non essere riuscito a tornare prima, per non aver potuto scongiurare tutto questo.

    Realizzò la situazione in un lampo:

    «Come sarebbe un esercito marcia da sud-est?! Che vuol dire, hanno già raggiunto il ponte?!», urlò furibondo, «E Rohenda? Non abbiamo ricevuto alcun messaggio d'allerta!».

    «È caduta».

    A quelle parole tra i due piombò il silenzio. Per un attimo, tutto intorno a loro sembrò arrestarsi.

    Thoumas pensò in fretta:

    «Non c’è un minuto da perdere. Tenente Holden! Ordini agli uomini di prepararsi alla battaglia! Agli incantatori di alzare la barriera di protezione intorno al cancello, agli arcieri di incoccare le frecce e tendere gli archi! Presto saremo sotto attacco! Che la città venga evacuata il più in fretta possibile attraverso la rete sotterranea! Io andrò ad allertare il re e invierò una richiesta d'aiuto immediata alle altre province, agli Elfi, ai chierici di Zhoèl! I rinforzi arriveranno in tempo. Si sbrighi!».

    I suoi si misero in azione senza chiedere spiegazioni, gli ufficiali di grado maggiore eseguirono gli ordini come provenissero da un generale, per la personale fiducia nell’uomo e nel soldato che Thoumas Naigt ispirava a ognuno di loro e ben presto la notizia fu diffusa in tutta la città.

    Detto questo, il capitano fece per andarsene ma Jensid l’afferrò per un braccio e lo tirò a sé:

    «Sai che non arriverà nessun aiuto dalle province. E anche tu, come me, sai perché sono venuti».

    Lo guardò dritto negli occhi e vide chiaramente il terrore impossessarsi dell’amico. Ma nessuno dei due aveva intenzione di gettare la spugna: dovevano sperare nella salvezza, non poteva finire così!

    Oggi gli Zadra lottavano per la vita, dopo aver combattuto tanto per la libertà. E avrebbero lottato fino alla fine!

    Un attimo dopo i due correvano, l’uno in direzione della caserma e l’altro verso il palazzo reale.

    Lungo il tragitto Jensid rifletté sulla reazione dell’amico alla notizia dell’imminente arrivo dell’esercito: Thoumas non perdeva mai la calma, sapeva sempre come comportarsi, riusciva a mantenere il controllo anche quando gli altri intorno a lui perdevano la testa. Era sempre stata una sua dote, il comando. Ma ce l'avrebbe fatta ad affrontare ciò che lo attendeva con la razionalità di sempre?

    Per la prima volta Jensid sentì di essere davvero preoccupato per l’amico.

    In breve radunò tutti gli arceri e li fece schierare sulle mura a protezione del cancello, infine prese posizione spalla a spalla con Holden. Si guardò intorno. In così poco tempo i valorosi soldati di Quabaltha si sarebbero schierati per la difesa della capitale, ma avrebbero dovuto resistere da soli contro l'esercito delle Terre Di Cristallo al completo. Non sarebbe stato uno scontro alla pari.

    X

    L’esercito astriano avanzava lento lungo la strada che, attraverso la foresta, conduceva a Quabaltha.

    Talad cavalcava in testa all'armata colmo d’orgoglio per la riuscita del suo piano e la sua cavalcatura, un drago di palude, non lo innalzava da terra quanto avrebbe voluto. Tra poche ore si sarebbe svolta la battaglia decisiva e lui, sicuro della vittoria, pregustava già il ritorno in Patria, nelle Terre Di Cristallo, tra squilli di tromba, urla e applausi scroscianti. Tra poco i ribelli sarebbero stati finalmente sconfitti e l’orgoglio del popolo Astra sarebbe stato sanato dalla profonda ferita infertagli anni prima.

    Ripensò alla sua infanzia, quando già da bambino si immaginava sul trono, con in testa la corona che suo padre non aveva mai ottenuto. Già, suo padre… nient’altro che un fallito, un idealista la cui sola dote innata per la guerriglia l’aveva reso un abile stratega, un uomo di reputazione forse, ma non un re. Artur Drogan non era riuscito ad aggiudicarsi il titolo di monarca perché non aveva imparato che saper combattere non era sufficiente per vincere: c'era una guerra che non si combatteva sul campo, ma al tavolo delle trattative. Alla fine il Consiglio dei Saggi l’aveva schiacciato come un insetto fastidioso. Ma lui, Talad, non era come suo padre. Era più forte, più determinato e non si sarebbe lasciato sopraffare: tolti di mezzo i ribelli, il Consiglio non sarebbe più stato in grado di opporsi alle sue decisioni perché nessuno dei baroni l'avrebbe più appoggiato. Inoltre, alcuni membri del Consiglio erano dalla sua parte e avrebbero convinto i restanti a ritirarsi. Era un piano perfetto e lui era destinato a governare.

    Rise tra sé immaginando tutto ciò che avrebbe fatto una volta salito al trono: durante il suo regno non ci sarebbero state ribellioni! Una volta tanto la storia non si sarebbe ripetuta.

    D’un tratto, mentre camminava fiero in testa alla sua armata, Talad se ne accorse: la nebbia cominciava ad infittirsi rapidamente.

    In pochi istanti il duca si ritrovò solo, separato dal suo esercito e privo di ogni riferimento geografico. Confuso e terrorizzato da una paura forzata che gli riempiva la mente annullando ogni sua volontà, non poteva fare altro che guardarsi intorno cercando di mantenere il sangue freddo. Incapace di parlare, incapace di pensare e persino di rabbrividire, si ritrovò avvolto in un silenzio profondo e impenetrabile che gli riempiva la testa e gli rimbombava nelle orecchie.

    Il drago di palude tentennò e prese a sbuffare dalle narici rifiutandosi di proseguire. All’improvviso un’ombra scura parve prendere forma tra gli alberi. Il duca tentò di proteggersi quando essa si lanciò famelica verso di lui e contemporaneamente la foresta prese a restringersi intorno alla sua persona come una morsa.

    Quando riaprì gli occhi, i cancelli di Quabaltha si ergevano oltre la radura in tutta la loro imponenza e, improvvisamente, la figura del colonnello Baràn era apparsa al suo fianco. L’uomo si voltò verso di lui con uno sguardo in volto che pareva rispecchiare il fuoco dell’inferno e diede l’ordine di attaccare. Ancora costernato, il duca si rovesciò a terra tra le sbuffate del suo drago, mentre in lontananza, nella sua testa, risuonava l’eco degli ordini del colonnello.

    L’orda di nemici sbucò dal riparo del bosco e caricò verso il portone come uno sciame di insetti. Nonostante l’avvertimento di Jensid, gli incantatori non ebbero il tempo di innalzare la barriera di protezione.

    In cima alle mura gli arcieri scoccarono una pioggia di frecce contro gli assedianti e le prime file caddero riverse sul terreno della radura.

    Dietro le file di fanti Baràn incitava i suoi uomini ad attaccare aspettando che il portone rinforzato cedesse per sguinzagliare la cavalleria tra le strade di Quabaltha.

    Riparandosi con gli scudi, gli assedianti avanzarono come enormi tartarughe di ferro, fino a che riuscirono a portarsi abbastanza vicini alle mura. A quel punto alcuni uomini si lanciarono in corsa verso il portone, portando in spalla dei sacchi di pece. Solo un paio di loro riuscirono a raggiungerlo senza cadere sotto la pioggia di frecce degli arcieri di Holden, ma fu sufficiente affinché i sacchi di pece e le frecce infuocate degli assedianti facessero il loro dovere.

    Il portone rinforzato s’incendiò come una torcia verso le ultime ore del pomeriggio e continuò a bruciare per tutta la notte, finché il fuoco consumò del tutto il legno e il metallo che lo rendevano tanto difficile da abbattere. A nulla valsero i tentativi di estinguere l’incendio dei soldati zadra: quel fuoco pareva eterno come le fiamme degli inferi stessi.

    Durante la notte Talad fu straziato da un sonno febbrile che si placò solo quando il fuoco fu domato. E accanto al suo giaciglio il colonnello Baràn si beava del proprio potere.

    I soldati astriani ripresero l’attacco alle prime luci dell’alba: si avventarono su ciò che rimaneva del portone con un ariete da sfondamento e nel frattempo assediarono le mura con robuste scale di legno. I soldati cadevano uno dopo l’altro dalle scale e ai lati dell’ariete ma venivano subito rimpiazzati da altri fanti.

    Jensid si spostò sulle mura centrali salvando il collo a uno dei suoi compagni. Parò il fendente e affondò la scimitarra nel ventre del nemico ributtandolo di sotto, poi tese la mano insanguinata verso il soldato zadra ai suoi piedi. Questo si tirò su da terra ed entrambi ripartirono all’attacco senza badare alla stanchezza. Il giovane chierico si ritrovò così in una buona posizione: senza esitare impugnò l’arco e scagliò un'unica freccia. Il dardo andò a tagliare di netto una delle funi che sorreggevano le scale. La costruzione di legno precipitò al suolo.

    Jensid chiese copertura mentre scendeva nel cortile al fianco dei fanti del capitano Naigt, per dare man forte a chi avrebbe dovuto sostenere l’assedio frontale. Batté la mano sulla schiena dei soldati mentre attendevano che i nemici sfondassero le difese e penetrassero nella breccia.

    «Pronti!», gridò ai fanti.

    D'un tratto si sentì un grido di vittoria sovrastato da un rumore di meccanismo ritorto.

    «Pronti!».

    Subito dopo le cerniere del portone urlarono, cedettero e si squarciarono sotto la pressione dell’esercito nemico. In pochi minuti i soldati astra si riversarono dalle mura nel cortile, ma gli avversari erano pronti a riceverli e con uno sforzo li respinsero impedendo loro di avanzare oltre.

    Quando la mattina lasciò il passo al meriggio Jensid aveva già perso il conto di quanti nemici avesse ucciso o scaraventato oltre il cancello sfondato. Eppure essi continuavano ad attaccare, incalzanti. E ancora non si vedeva l’ombra della cavalleria: all’improvviso Jensid capì che non ce l’avrebbero fatta. Guardò indietro verso il portone, dal quale gli assedianti si riversavano sulla strada, di corsa per guadagnare qualche metro ancora, prima di essere trafitti. Imprecò silenziosamente: ormai era solo questione di tempo, lo sapeva. Quabaltha sarebbe caduta… ma c’era ancora qualcosa di più importante da salvare.

    Parò il nuovo fendente, sbilanciò l'avversario e lo trafisse. Senza perdere altro tempo ordinò a Holden e ai suoi arcieri di sparare a raffica contro la cavalleria per indebolirla in vista della presa del cancello.

    Il tenente, riconoscendo in lui l’amico fidato del suo capitano, eseguì gli ordini senza discutere. Gli arcieri fecero piovere dalle mura dardi infuocati e apportarono gravi perdite ai cavalieri nemici, micidiali nello scontro corpo a corpo ma facili bersagli per tiratori esperti.

    Jensid abbandonò la battaglia e corse a raggiungere il Tempio di Zhoèl, situato al centro della capitale.

    Nel frattempo Thoumas Naigt aveva già informato il re e aveva inviato un messaggero alla provincia del regno più vicina, ma Quabaltha era stata circondata e nessuno, nemmeno il migliore dei suoi battitori sarebbe riuscito ad allontanarsi più di qualche decina di metri oltre le mura. Scagliò un altro fendente.

    All’improvviso la voce del tenente Holden proruppe in un grido d’avvertimento e lo distolse dai suoi pensieri scaraventandolo nella realtà, pronto ad affrontare il pericolo imminente. Si voltò e vide un soldato nemico caricare verso di lui con la spada alzata: scartò di lato e la sua lama trapassò l’avversario da parte a parte. Il soldato cadde al suolo, ma ormai il capitano era già circondato da altri uomini che cercavano di assalirlo. Holden e il capitano si ritrovarono schiena contro schiena:

    «Signore, il cancello est è stato preso e a sud è stata aperta una breccia nelle mura, signore!».

    Naigt parò un affondo diretto al compagno e i due si scambiarono di posto:

    «Dobbiamo resistere!».

    X

    Per la sesta volta, i due soli sparirono dietro la linea dell'orizzonte e la notte calò inesorabile sopra la città. Le tenebre serpeggiavano nelle vie nascondendo i corpi abbandonati sul terreno impregnato di sangue e sudore.

    Gli ultimi civili, per lo più le donne e i bambini che non erano ancora stati uccisi, si erano rifugiati all’interno del Tempio, al centro della città, nascondendosi nei sotterranei in attesa della fine: ormai per le strade rimanevano solamente i soldati e chiunque fosse abbastanza forte da impugnare un’arma.

    Thoumas riprese a camminare, ansimante, costretto a vedere ovunque si girasse i corpi dei suoi compagni d’arme giacere a terra abbandonati. Tra un fendente e l’altro si fece largo tra i nemici allo stesso modo in cui le domande e l’angoscia penetravano nel suo cuore.

    D’ora in poi non si leverà più una spada in difesa di Zhoèl, il popolo zadra sta morendo e con esso anche il suo breve regno… non si udirà pronunciare la formula di un incantesimo, non brillerà più una luce nella valle di Quabaltha.

    Di ciò che era rimarrà soltanto cenere…

    La voce lontana pronunciò quelle parole in un sussurro e la sua risata riecheggiò sbiadita nella mente del soldato. Thoumas continuò ad avanzare imperterrito in direzione del Tempio, anche ora che sentiva le forze defluire lentamente dal suo corpo. Svoltò in direzione della sua casa e da dietro un muro crollato un nemico lo vide. Raccolse le energie ancora una volta e con uno scatto fu al riparo. Quando il soldato fu sulla strada lo colse alle spalle e lo uccise senza un gemito. Niente era più importante: doveva raggiungere sua moglie e suo figlio. Doveva farcela! Perché erano le uniche persone che non avrebbe mai sopportato di perdere.

    «Thoumas! Lode a Zhoèl, sei qui! Sono arrivati! Vogliono il bambino!».

    La voce di Ourie lo raggiunse dal fondo della stanza scacciando in un istante i pensieri più bui del suo cuore. Le rispose subito, cercando di assumere un tono il più possibile rassicurante.

    «Lo so. Là fuori è un inferno. Dobbiamo portare il piccolo fuori della capitale, lontano, dove non possano trovarlo: ormai Baràn è la nostra unica speranza. Vedrai, Ourie, lui non ci abbandonerà. Arriverà, vedrai… ».

    La strinse tra le braccia cercando di infonderle un coraggio che ormai anche lui aveva perduto. Così dolce e fragile, così bella come una notte di luna: le baciò i lunghi capelli scuri come se fosse stata la loro ultima volta insieme.

    Intanto nelle strade si udiva rumore di lame che s'incrociavano, urla di uomini feriti e di tanto intanto il boato di un'esplosione. Il capitano e sua moglie erano bloccati all’interno della casa: non potevano uscire o i soldati li avrebbero catturati, ma non potevano nemmeno indugiare a lungo nell’edificio perché presto qualcuno vi avrebbe appiccato il fuoco. In quegli istanti le loro menti si arrovellavano nel tentativo di ideare un buon piano di fuga, ma senza Baràn era impossibile oltrepassare le linee nemiche… dannazione, perché non arrivava?!

    Quando ormai rimaneva solo la speranza a sorreggere i loro animi, un uomo irruppe nella stanza, ansimante. Era lui: Baràn.

    «Thoumas!», tuonò, «Dobbiamo sbrigarci, dov’è il bambino?!», si avvicinò all’amico, lo prese per un braccio e lo trascinò in strada perché l’aiutasse a liberare la via, mentre Ourie saliva in fretta al piano di sopra.

    In una camera con porte e finestre sbarrate c’era un bambino rannicchiato sotto al letto. Sul suo polso erano tatuati dieci sottili cerchi progressivi che indicavano i cicli completi di stagioni trascorsi dal giorno della sua nascita. Quando la giovane donna entrò nella stanza e chiamò il suo nome, lui non rispose né uscì dal suo nascondiglio. Come gli avevano insegnato, aspettò senza fare il minimo rumore di riconoscere in quella donna il dolce viso della sua mamma.

    «Kiryas?».

    Chiamò di nuovo lei con dolcezza e solo a quel punto vide il suo bambino fare capolino in mezzo alla stanza con un flebile sorriso in volto.

    La fioca luce che filtrava nella stanza dalla porta socchiusa fece risplendere i suoi grandi occhi azzurri come il cielo, limpidi come la prima volta che li aveva guardati. Trattenne le lacrime al pensiero di non poter stare con lui, ma salvarlo era la cosa più importante, anche se questo avrebbe significato restare separati per molto tempo. Aveva sempre saputo, in fondo, che lui non le apparteneva.

    «Vieni tesoro, è ora di andare».

    Aggiunse soltanto, tendendogli la mano.

    Scesero insieme le scale fino a raggiungere la sala al piano terra, che ora appariva deserta.

    Ourie si avvicinò alla soglia della porta tenendo Kiryas per mano. Fuori, non molto distante da loro, il suo amato e Baràn discutevano animatamente sul da farsi.

    Grazie alla presenza di Baràn, che era un colonnello dell’armata astriana, i pochi soldati nei paraggi non li assalivano.

    Ourie tentò un passo in avanti nella loro direzione, ma si fermò subito non appena vide il colonnello voltarsi e fare uno strano cenno con il capo.

    C'era qualcosa in lui…

    In quel momento, un mago astriano ferito si trascinò sulla strada. Si accorse del capitano Naigt ed ebbe paura, puntò il bastone e ne partì un colpo infuocato che scoppiò a pochi passi dal valoroso soldato. L’onda d’urto che ne fu generata alzò una nube di fumo nero e polvere che investì i due amici per qualche minuto. Subito dopo il mago esalò l'ultimo respiro, troppo debole per far fronte al pagamento preteso dall'Equilibrio.

    Baràn non sprecò l’occasione.

    Ourie fu percorsa da un tremito mentre copriva con le mani il volto di Kiryas.

    Scrutò quella direzione per qualche istante ma, non vedendoli ricomparire, ordinò a Kiryas di nascondersi in casa e si precipitò nella nube per assicurarsi che suo marito non fosse ferito.

    Kiryas avrebbe voluto dirle di non lasciarlo, ma il vestito della madre gli scivolò via dalle mani nonostante lui cercasse di afferrarlo.

    Disobbedì. Rimase dove si trovava, scrutando con attenzione il punto in cui la mamma era sparita alla sua vista. Solo pochi istanti… quando il fumo si diradò un poco, gli parve di vedere una figura robusta muoversi rapida nella nebbia.

    Dapprima pensò che fosse suo papà ma abbandonò l’idea quando lo sentì gridare: la voce imponente che chiamava e chiamava era quella di Baràn.

    «Thoumas!», ruggiva, «Thoumas!».

    Subito dopo una nuova sagoma scura si alzò in piedi, vacillante e fece due passi in avanti mentre la spada del colonnello si sfoderava in mezzo al fumo.

    Vi si scagliò contro con furia gelida.

    L'acciaio infierì un solo colpo letale al corpo ferito del capitano, del padre, dell'amico… spezzando la sua vita senza dargli il tempo di capire.

    Comparve allora una terza figura, più esile e minuta, che si muoveva angosciosa confondendosi nella caligine quasi fino dissolversi: si inginocchiò vicino all’ombra inerte del valoroso soldato zadra.

    Kiryas riuscì quasi a scorgere la sua espressione stravolta, il viso rigato di lacrime voltarsi e inorridire alla vista della lama insanguinata che si avvicinava inesorabilmente a lei. Poi fu un attimo, non riuscì a difendersi. Un urlo straziante e cadde a terra anche lei, senza vita, tra la braccia del suo amato.

    Kiryas era immobile. Capiva, ma ancora non era capace di elaborare quanto stava accadendo. Inerme, attese riempiendosi gli occhi di orrore.

    D’un tratto sentì di voler gridare. E gridò, più che poteva e più forte ancora. Si ritrasse, ma non poté muoversi oltre. Avrebbe voluto correre ad aiutarli, ma aveva paura. Paura da morire. Non mosse un muscolo.

    I soldati… potevano trovarli. Potevano trovare lui, ancora vivo.

    Rimase incredulo a fissare sua madre, incapace di reagire, mentre gli occhi gli bruciavano così tanto da costringerlo a chiuderli per il dolore. Non voleva chiuderli, forse ora si sarebbero rialzati… ancora un attimo, forse erano soltanto feriti. Ma il fumo e la polvere incandescente bruciavano la fronte e le guance.

    Perché?!

    La domanda gli tuonò nella testa con lo stesso fragore dell’esplosione che poco prima aveva travolto suo padre, gli rimbombò nelle orecchie tanto forte da fargli male e gli schiacciò il cuore con un peso insostenibile.

    Kiryas incassò il colpo. Non sapeva reagire a quanto stava accandendo. Il suo respiro divenne d’un tratto affannoso e per un momento credette di svenire, ma nell’istante successivo realizzò che non sarebbe accaduto niente. Sentì caldo negli occhi e qualcosa nella testa che si chiedeva perché ora vedeva tutto così appannato, il cuore gli batteva così forte nel petto da sentirlo in ogni membra del corpo e poi… nessun altro pensiero. Niente nella testa, solo loro.

    Quando finalmente chiuse gli occhi per lo sforzo, il buio l'avvolse del tutto e lo scosse.

    La coltre di fumo che lo separava dai suoi genitori non gli aveva impedito di realizzare la verità: la mamma e il papà erano morti. Baràn li aveva uccisi. Erano indifesi, ma lui li aveva aggrediti ugualmente. Erano suoi amici, ma lui li aveva ripagati con il ferro. Aveva visto tutto.

    Strinse forte gli occhi. Le lacrime gli rigarono il volto, quasi bollenti.

    Immaginò ancora di vederli muoversi. Ma quando socchiuse una palpebra, li vide ancora lì, accasciati al suolo.

    Scappare. Scappare, solo scappare!

    Si mosse d’istinto.

    Raggiunse in fretta la porta sul retro, l’aprì e la richiuse subito dopo: altri uomini a terra, come suo padre. E tutto era rosso.

    Baràn stava per entrare in casa con tutta l’intenzione di completare il lavoro.

    Tutta la città era ormai occupata dai soldati astriani, della sua gente non era rimasto più nessuno.

    Intanto qualche soldato aveva appiccato il fuoco alla sua casa e la camera dove fino a poco prima si era rifugiato ora assomigliava più alla fucina di un fabbro.

    Il fumo si fece strada nei polmoni facendolo tossire e costringendolo ad avvicinarsi alla finestra. Quando fu vicino al davanzale una mano spuntò all’improvviso da dietro il muro e tentò di afferrarlo, ma lui si ritrasse appena in tempo. Finì a terra. Si rialzò subito e si nascose dietro la porta.

    Quando l’uomo fu all’interno della stanza, fu preso dal panico e fuggì fuori in un guizzo. Ma Baràn era rimasto vicino alla porta: appena Kiryas si scoprì, si voltò di scatto e tentò nuovamente di afferrarlo. Strinse il pugno intorno al braccio esile del bambino e lo tirò a sé con forza. Non vide il bagliore repentino che attraversò i suoi occhi in quel momento, ma il fuoco che gli bruciò la mano lo fece urlare di collera.

    Anche Kiryas urlava. Si divincolò e uscì all’esterno, di corsa verso la libertà e… verso la solitudine, il dolore, la desolazione.

    Gli bastarono pochi passi oltre la soglia di casa per raggiungere il punto preciso dove poco prima i suoi genitori avevano perso la vita.

    Non poté fare a meno di guardarli, ancora lì, freddi e immobili, pallidi, privi di vita. Gli si gettò addosso e pianse, li scosse, ma non c’era niete da fare.

    Tutto rosso, su di loro, sul terreno e addosso a lui, sopra i vestiti, sulle mani, sulla faccia: tra il rosso, lo sguardo livido di suo padre. Non smetteva di piangere, mentre il respiro ansante si feceva sempre più debole, fino quasi a mancare del tutto. Quell’espressione sconvolta, quegli occhi spenti ma ancora spalancati lo guardavano insistenti, come per accusarlo, per affibbiargli la colpa di ciò che era successo.

    Non è colpa tua Kiryas, non è colpa tua sussurrava a sé stesso nel tentativo di convincersi a reagire, non è colpa tua continuava ad insistere per scacciare le paure che gli attanagliavano il cuore… ma mentiva. Sapeva benissimo che la colpa era soltanto sua: non fosse stato per lui non avrebbero tentato di fuggire dalla città con l’aiuto del loro vecchio amico Baràn.

    Era tutta colpa sua…

    Aveva provato a scappare, li aveva abbandonati. Quante altre volte li aveva abbandonati mentre erano in vita?

    Era tutta colpa sua…

    La risata beffarda riecheggiò lontana nella sua mente per poi svanire nel nulla.

    La voce di quei pensieri che tentavano di rassicurarlo tornò di nuovo, più forte di prima… era dentro di lui quella voce, era dentro di lui la speranza, ma le voltò le spalle, la soffocò dentro di sé e riaprendo gli occhi rivide il volto sfigurato di suo padre che continuava a fissarlo, così freddo. Stavolta resistette con tenacia, finché il dolore non si quietò senza resa, aspettando un momento migliore per colpire.

    Un rumore sospetto alle sue spalle lo portò infine ad occuparsi del pericolo immediato: non era ancora abbastanza lontano dal nemico per potersi considerare al sicuro.

    Vide il colonnello avvicinarsi a passi lenti. Con fare arrogante passò indenne tra le fiamme che divoravano a poco a poco la sua casa, scostare con prepotenza le macerie che ingombravano il suo cammino ed estrarre la spada dal fodero.

    Fu il terrore a bloccarlo di nuovo. E poi il desiderio di riparare, di dimostrare loro che non li avrebbe mai più abbandonati.

    Rimase immobile tra loro e Baràn, a proteggerli ora che era troppo tardi.

    Quando Baràn fu abbastanza vicino da sovrastarlo, capì che non avrebbe potuto fare nulla per loro… e ormai era troppo tardi per fuggire.

    Si guardò intorno come a chiedere aiuto, ma era già circondato da soldati nemici.

    Ormai era finita, nulla avrebbe potuto salvarlo e, del resto, non l’avrebbe desiderato.

    In quel momento, arrivò in lui il cambiamento. Inaspettato e violento, inevitabile: la paura divenne rabbia.

    Si asciugò le lacrime e alzò lo sguardo fino ad incrociare quello del colonnello: due iridi metalliche che brillavano minacciose come lame e avrebbero potuto penetrare anche il coraggio del soldato più valoroso, un'espressione severa che non tradiva l’ombra di un’incertezza. Quelle cicatrici sulla fronte e sul mento gli firmavano il volto come un’eco delle passate battaglie.

    «E così, giovane Custode, hai deciso di morire combattendo», esordì inaspettatamente il colonnello senza abbandonare il suo atteggiamento arrogante, poi riprese:

    «Per… difendere i tuoi genitori e la tua gente? O almeno ciò che rimane di loro. Bene. Perché non mi fai vedere di cosa sei capace?».

    Kiryas rimase in silenzio mentre sul suo volto si delineava un’espressione di incredibile disprezzo.

    Baràn agitò nell’aria il suo ferro e si sgranchì le spalle come per prepararsi a un grande duello:

    «Perché non evochi in tuo soccorso delle creature che combattano contro di me? Avanti, non vorrai dirmi che non sei capace! Tira fuori il carattere e affrontami se è vero ciò che si dice di te!».

    A quelle parole Kiryas sentì la rabbia crescere dentro di sé a dismisura e tramutarsi in energia pura e lucente tra le mani. L’energia si accumulava rapidamente e si faceva forte, sempre più forte. Compressa tra le sue piccole mani, si caricava e scoppiettava senza sosta fino a divenire incontrollabile. D’un tratto, incapace di fermarla la rilasciò senza nemmeno avere il tempo di prendere la mira. La folgore sfiorò il colonnello ed esplose pochi metri più in là, con una debole onda d’urto che riuscì solo a sollevargli il mantello.

    Tutto ciò che è stato sottratto deve essere reso e tutto ciò che viene dato sarà resitituito.

    Subito la legge suprema dell'Equilibrio pretese che il suo giovane corpo ripagasse il debito che aveva nei confronti degli spiriti del Piano Immateriale. Così parte della sua memoria fu presa in cambio dell'energia scatenata per generare la folgore magica e Kiryas dimenticò frammenti della sua infanzia.

    Disperato e sfinito, il piccolo cadde in ginocchio ai piedi del colonnello, batté forte i pugni contro il terreno e proruppe in un ultimo grido estenuato.

    «Tutto qui? Mi aspettavo qualcosa di più dal leggendario Latore del Sigillo!».

    Baràn rimase ad osservarlo ancora per qualche istante, poi proferì con freddezza:

    «Ora basta, falla finita! Piangere e urlare non ti servirà a nulla figliolo… e nemmeno implorarmi di risparmiarti la vita ti sarà utile, credimi».

    Infine, alzò la spada e la sferzò contro il bambino indifeso.

    2

    Un alito di vento risalì la lunga strada fino a raggiungere il gruppo di soldati riuniti intorno a Kiryas. Avvolse il bimbo con delicatezza, scompigliandogli appena i capelli, l’attimo prima che la morte mettesse fine a quel terribile incubo una volta per tutte. Allo stesso tempo la lama si mosse tagliando di netto l’aria impregnata di fumo, si avvicinò sempre più al suo volto innocente… ma non riuscì a raggiungerlo. Quella brezza esalata portava con sé la salvezza.

    Le due armi si incrociarono con uno schianto pauroso e l’urlo stridente del metallo fece rabbrividire Kiryas fin nelle ossa: un giovane vestito con una tunica blu coperta da un mantello argentato era apparso dal nulla e la sua scimitarra aveva incrociato quella del colonnello fermando il suo terribile fendente.

    Il bimbo sgranò gli occhi, incredulo. Ebbe appena il tempo di vedere l'uomo di sfuggita. Non lo conosceva, ma lui si stava battendo per proteggerlo. Avrebbe fatto anche lui la fine dei suoi genitori? La paura gli prese di nuovo la gola. Kiryas si ritrovò suo malgrado a desiderare ardentemente che lo sconosciuto vincesse il confronto con il colonnello, per concedere al suo cuore quella pace che non avrebbe potuto ottenere in altro modo. Ora non voleva più morire, se questo significava che anche il coraggioso giovane si salvasse.

    In quell’attimo lo sconosciuto respinse Baràn con forza e, senza abbassare la guardia, si rivolse a Kiryas lasciando trasparire la propria soddisfazione:

    «Lieto di vedere che siete ancora tutto intero, Custode. Il mio nome è Jensid, sono un chierico di Zhoèl e sono qui per condurvi sano e salvo lontano da questa morte».

    Il colonnello fu preso da un’ira feroce:

    «Devo contraddirti Jensid, figlio di Elbron!», tuonò, «Il marmocchio verrà con me!».

    Jensid sfregò le dita dietro la schiena e dalla sua mano scaturì un bagliore. La spada insanguinata vibrò nell’aria, protesa in un affondo mortale: aveva quasi trafitto Jensid quando una folgore magica investì il colonnello scaraventandolo a terra. Il chierico, in unico movimento, afferrò Kiryas e si lanciò in una corsa frenetica verso il Tempio di Zhoèl, mentre tutti i soldati astriani reagivano all’unisono per difendere il proprio

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