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Un posto chiamato Afasia oltre la frontiera di Stroke
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Un posto chiamato Afasia oltre la frontiera di Stroke
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Un posto chiamato Afasia oltre la frontiera di Stroke

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Un posto chiamato Afasia, oltre la frontiera di Stroke è un romanzo scritto da quell’implacabile regista che è la vita. Una vita che ad Ascanio ha dato ma soprattutto tolto molto. Una vita che prima lo ha strappato alla sua gioventù con gli orrori della guerra e poi gli ha negato la gioia di diventare padre, ma che in compenso gli ha dato una moglie amorevole, fratelli e sorelle uniti, un buon lavoro e dei meravigliosi nipoti con i quali riesce a colmare il vuoto di quei figli tanto desiderati ma mai potuti avere. Una vita che ad un tratto lo ha lasciato solo. La peggior solitudine che si possa immaginare….solo in mezzo a tanti.
AFASIA. Scritto così è solo una parola, ma dietro nasconde un mondo oscuro che nessuno può né immaginare né capire. Ascanio d’un tratto si ritrova catapultato oltre la frontiera di Stroke, in un posto sconosciuto dove nessuno riesce a capire cosa pensa e prova.
LanguageItaliano
Release dateOct 27, 2014
ISBN9788869240867
Un posto chiamato Afasia oltre la frontiera di Stroke

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    Un posto chiamato Afasia oltre la frontiera di Stroke - Massimo da Gragnano

    Un posto chiamato Afasia oltre la frontiera di Stroke

    Massimo da Gragnano

    EDIZIONI SIMPLE

    Via Weiden, 27

    62100, Macerata

    info@edizionisimple.it / www.edizionisimple.it

    ISBN edizione digitale: 978-88-6924-086-7

    ISBN edizione cartacea: 978-88-6924-026-3

    Stampato da: WWW.STAMPALIBRI.IT - Book on Demand

    Via Weiden, 27 - 62100 Macerata

    Tutti i diritti sui testi presentati sono e restano dell’autore.

    Ogni riproduzione anche parziale non preventivamente autorizzata costituisce violazione del diritto d’autore.

    Copyright © Massimo da Gragnano

    Prima edizione cartacea: ottobre 2014

    Prima edizione digitale: ottobre 2014

    Diritti di traduzione, riproduzione e adattamento totale o parziale e con qualsiasi mezzo, riservati per tutti i paesi.

    Indice

    Introduzione

    1 – Il giorno in cui la vita si allontano

    2 – Brutte notizie

    3 – Ritorno all’innocenza

    4 – Ricordi, pensieri e parole

    5 – L’alba del tormento

    6 – La battaglia dell’orgoglio

    7 – Passato, presente e futuro

    8 – Figli

    9 – L’ambizione, la volontà, l’amore e la gratitudine

    10 – Troppi pensieri

    11 – L’incontro con Asmodeo

    12 – I primi contrasti

    13 – Silenzi roventi

    14 – Gli argomenti giusti

    15 – Sempre più solo, sempre più lontano

    16 – Burattinaio e burattini

    17 – Ascanio e Maicol

    18 – Ricominciare

    19 – Gli eventi precipitano

    20 – Partita a scacchi

    21 – Verso la fine

    22 – Gioco sporco

    23 – Il certificato

    24 – Testamento

    25 – Ricovero e invadenza

    26 – Sulema

    27 – Creutzfeld-Jacob

    28 – La procura speciale

    29 – Sulema addio

    30 – Parenti e sospetti

    31 – La notte prima di un giorno che non venne mai

    INTRODUZIONE

    La consapevolezza della reale condizione cognitiva tipica delle persone portatrici di Afasia (perdita acquisita dell’uso della parola), rimane prevalentemente circoscritta all’interno dell’ambiente della neuropsicologia clinica in cui è seguita e trattata e nell’ambiente familiare in cui è vissuta quotidianamente, mentre il resto del mondo, al contrario, non ha la minima idea di che cosa si parla. Per questo motivo le associazioni che rappresentano e seguono queste persone, tra le innumerevoli attività che svolgono, sono molto impegnate anche in campagne d’informazione e sensibilizzazione.

    Stiamo parlando di un problema sociale planetario che solo in Italia riguarda circa 150.000 malati di qualsiasi età, e colpisce 30.000 persone ogni anno. Si stima che negli Usa le persone affette da questa patologia siano circa 500.000.

    Ciascuno di noi, in qualunque momento della propria vita, si potrebbe trovare a confrontarsi suo malgrado con questa sintomatologia, conseguenza di un evento di Stroke, che cade come un fulmine a ciel sereno stravolgendo la vita di chi colpisce e dei suoi familiari.

    Spesso, chi si trova di fronte una persona afasica, confonde quel suo particolare modo di rappresentarsi con una certa forma di demenza.

    Dopo avere letto questo libro, provate a chiedere in giro alle persone che conoscete se sanno cosa sia l’Afasia. Scoprirete con sorpresa che nessuno, al pari di voi prima di aver letto queste pagine, sarà in grado di darvi una risposta soddisfacente. Infatti, la risposta che vi aspetterete non starà certo nella stretta etimologia di un vocabolo. Sarebbe troppo riduttivo, giacché questo romanzo tratta l’argomento ruotando tutto intorno ai mille significati di questa parola.

    In questo racconto la biografia è legata a doppio filo con l’anamnesi clinica e neurologica del protagonista. Trattandosi di un caso in cui sono concentrate una moltitudine di importanti informazioni, ho sentito il desiderio di scrivere questo racconto, utilizzando la narrativa quale esempio per offrire un contributo alla comprensione dell’impatto personale e familiare di questa sintomatologia. Infatti, se da un lato non potevo esimermi dall’esplorare il punto di vista di Ascanio, per cercare di dare voce alle sue riflessioni, nell’intento di valorizzare in qualche modo i suoi sentimenti in una storia che appartiene soprattutto a lui dall’altro emerge la drammaticità della situazione in cui vengono a trovarsi i suoi familiari.

    L’esperienza di Ascanio quindi, fra le varie opportunità, offre anche quella di mettere in risalto come vengono vissute queste due situazioni. E non poteva certo mancare il passato di Ascanio, in una storia che racconta le cause che a un certo punto hanno stravolto per sempre la sua vita. Per dare risalto a quest’aspetto ho utilizzato spesso dei flashback.

    Questo romanzo ha preso forma dopo un lungo periodo d’incubazione, giacché la sua stesura è il risultato di un’attenta e approfondita ricostruzione storica piena di significati, trattandosi di un argomento di tale delicatezza e complessità, che non poteva essere certo affrontato con leggerezza.

    Nonostante il carattere drammatico (l’Afasia di per sé lo è), ritengo e mi auguro che questa storia possa trasmettere positività a chi la leggerà. Almeno questo è il mio intento.

    Per quanto occorrer possa, ritengo opportuno precisare comunque che l’Afasia può essere determinata da più cause e si manifesta in varie forme e livelli di gravità, per cui generalizzare è assolutamente improprio. Questa è solo una storia. Quella di una persona in cui l’Afasia è stata causata da un ictus e si è manifestata in una delle sue forme più gravi e irreversibili. Una condizione che ha annientato le difese di Ascanio, esponendolo alle conseguenze che emergono nella trama.

    Se sono riuscito nel mio intento, queste persone che si trovano loro malgrado in quel dannato posto, incontrandovi potranno sperare di sentirsi meno sole e un po’ più vicine a quel mondo al quale appartenevano prima di attraversare quella maledetta frontiera di Stroke. Questo romanzo è dedicato a loro.

    Il giorno in cui la vita si allontanò

    «Ascanio?… Ascanio?... Mi senti?...»

    Che succede?... Che mi sta succedendo?...

    Frida, svegliatasi per il trambusto, si accorse subito che il marito stava male. Ebbe un attimo di panico, per qualche secondo fu come immobilizzata e incapace di riflettere. L’istinto fu più veloce della razionalità. Afferrò il marito per le braccia con l’intenzione di adagiarlo sul letto da cui era caduto ma si rese conto subito di non potercela fare. Provò di nuovo a chiamarlo.

    «Ascanio! Rispondimi.»

    Nessuna risposta. La bocca era paralizzata in una smorfia innaturale. Però dallo sguardo sembrava cosciente. Nonostante il corpo non rispondesse quasi più agli stimoli, Ascanio in qualche modo era sempre lì, di fronte a lei.

    Che succede?… Non mi sento più il braccio e la gamba destra… Frida! Frida, aiuto… non… non… riesco a parlare…

    La donna si precipitò al telefono e chiamò l’ambulanza. La voce dall’altra parte della cornetta le disse di calmarsi e che sarebbe partita immediatamente un’unità di soccorso. Frida riagganciò la cornetta e rimase accanto al marito, impaurita, con le lacrime agli occhi. Tentò più volte di farsi rispondere, ma l’uomo non riusciva ad articolare nessun suono. Non sapeva che fare. Le labbra di Ascanio tremavano come il resto del corpo, tranne quel braccio e quella gamba rigidi e abbandonati. Gli occhi si perdevano alla ricerca del volto della moglie, incapaci di coglierlo davanti a loro.

    Nel giro di pochi minuti i medici della Pubblica Assistenza furono in casa. Salirono di fretta le scale saltando i gradini e irruppero in camera.

    «Signora, si sposti. Ci faccia vedere.»

    Un volontario prese delicatamente la donna per le spalle e si fecero da parte. I soccorritori circondarono Ascanio e cominciarono a esaminare le sue condizioni.

    Chi siete?… Perché non riesco a parlare?… Non capisco cosa dite… Io… non capisco…

    Il medico si fece presto un’idea, ma non poteva esserne sicuro. Era però evidente che l’uomo fosse grave e andava portato all’ospedale al più presto.

    «Carichiamolo sull’ambulanza. Rapidi. Portiamolo via» disse il dottore. I volontari corsero a prendere la barella.

    «Signora, lei è la moglie?»

    «Sì» disse Frida con un filo di voce.

    «Venga all’ospedale con noi.»

    «Dottore, ma cosa è successo? Cos’ha mio marito?»

    «Lo sapremo all’ospedale, signora» disse in tono sbrigativo. «Lei venga con noi.»

    Senza sapere che pensare, e con tanta paura nel cuore, Frida rimase imbambolata a osservare i paramedici che caricavano sulla barella suo marito. La mano sinistra di Ascanio a tratti si protendeva timidamente verso di lei, ma il suo sguardo si perdeva nel vuoto. Frida ingoiò la saliva e cercò di riprendere il controllo. Afferrò di fretta le poche cose che potevano tornarle utili e seguì i medici che portavano via suo marito in una notte gelida dell’autunno del 1986.

    «Presto! Presto, cazzo! Muovetevi!»

    La sirena assordante riecheggia in tutta la base mentre il comandante incita gli uomini che stanno correndo verso i velivoli.

    Nel febbraio del 1941, il campo avanzato dove è dislocato un reparto da caccia, soggetto a continui bombardamenti, è in allarme e si appresta a fronteggiare una nuova incursione dell’aviazione greca. La formazione nemica in avvicinamento sorvola le foreste e i centri abitati. Là sotto le città albanesi sono un inferno di guerra. Ovunque ci si volti ci sono macerie, morte, distruzione. Il giovane Ascanio Notari, leva d’aviazione, prende il suo posto nella carlinga. Ha un fisico tonico e i lineamenti freschi di un ragazzo nel pieno delle forze. Gli aerei italiani decollano rapidamente uno dopo l’altro, e allontanandosi si inclinano in un’ampia virata, scomparendo in volo radente dentro una gola tra le montagne, un attimo prima che gli apparecchi nemici, luccicanti nel sole, appaiano all’orizzonte da un’altra direzione, avanzando con aria minacciosa verso la base italiana. La contraerea apre il fuoco e prova a sbarrare la loro rotta. La formazione greca subisce qualche perdita, ma riesce ugualmente a raggiungere l’obiettivo, e a bassa quota apre il fuoco sganciando bombe e liberando raffiche di mitragliatrice sul campo.

    Dietro la catena montuosa il capo squadriglia italiano detta ordini ai suoi piloti e dirige l’attacco mirato a sorprendere gli aggressori impegnati nel bombardamento. La formazione italiana inverte la rotta e, oltrepassati i Balcani, entra in scena da dietro le montagne, pronta ad attaccare. Restano solo pochi attimi per pensare prima che abbia inizio un furioso combattimento in cielo. Ascanio se ne sta nella sua postazione di mitragliere di coda per coprire il suo velivolo da eventuali attacchi da poppa. Il rumore delle esplosioni è assordante. Ascanio cerca semplicemente di non pensare, sa che è meglio così. Guarda di sotto e nella scia dell’aereo che incrocia i velivoli nemici sopra la base vede i suoi commilitoni cadere, le mura in frantumi, i tetti degli hangar sgretolarsi e gli aerei del suo reparto rimasti a terra esplodere uno dopo l’altro. Non c’è niente di tanto assurdo e terribile quanto la guerra. A un tratto gli compare di fronte un apparecchio nemico che insegue a distanza ravvicinata. È sempre più vicino. Talmente vicino che a un certo punto vede distintamente il pilota. È sicuramente un ragazzo come lui, strappato dalla guerra alla sua spensieratezza. Lo fissa per un attimo. Stringe i denti e prova a farsi coraggio. Sa che deve farlo. Non ha altra scelta. Punta la mitragliatrice, chiude gli occhi e spara. All’improvviso uno scossone tremendo.

    «Merda!» urla il tenente. «Ci hanno preso. Cazzo! Tenetevi stretti.»

    Il pilota tenta una virata d’emergenza e punta verso il campo italiano. Gli scossoni sono sempre più forti. Uno dei motori soffoca nel fumo nero. La situazione precipita. Ascanio e gli altri commilitoni temono il peggio. Le cinghie impediscono di rotolare fuori dal seggiolino. Il tempo comincia a scorrere più veloce. L’aereo si inclina e perde quota. È una questione di attimi, non c’è neanche il fiato per gridare. L’impatto è fortissimo. L’aereo si schianta al suolo. Buio.

    Ascanio riapre gli occhi. È vivo. È ancora vivo e chiama a raccolta ogni pezzettino del proprio corpo. Sembra esserci tutto. Sente una fitta tremenda, un dolore enorme al fianco. Si guarda, si tocca. Sta perdendo sangue. Si sgancia e arranca a cercare una via d’uscita. La carcassa del velivolo è inclinata su un fianco e lui scivola verso il basso, andando a sbattere contro un compagno immobile nella sua postazione. Lo chiama. Non risponde. Lo volta. Oddio… Per lui non c’è più niente da fare. Ascanio tenta di uscire dalle lamiere. Striscia fuori come un verme tra fango, ferro e polvere. Il fumo lo fa tossire. Non si vede quasi niente, non si sente quasi niente.

    «Aiuto…»

    Una voce. Ascanio riconosce una voce in tutto quell’inferno. «Aiuto!»

    Prende fiato, tenta di recuperare le forze. Si alza in piedi e zoppica verso quel che rimane della cabina dell’aereo. La voce è del pilota, intrappolato in un groviglio di ferro e vetri.

    «Aiu… to.»

    Senza pensarci due volte, Ascanio lo afferra per l’uniforme. Il corpo è molle e pesante. In quelle condizioni trascinarlo fuori dalla carlinga sembra un’impresa impossibile. A un tratto le fiamme si fanno più vicine. C’è poco tempo.

    «Aaaahhhh!» il pilota urla per il dolore.

    «Coraggio. Resisti!» dice Ascanio.

    Il fuoco sembra un serpente in agguato. Striscia lentamente verso di loro, scalda il ferro e lo rende una trappola mortale. Ascanio fa appello a tutte le sue forze, imponendosi di ignorare la fitta terribile al fianco. Infine, con uno sforzo sovrumano, riesce a tirare fuori il pilota ferito e a trascinarlo lontano di qualche metro, prima di finire stremato con lui al lato di una grossa pozzanghera. Tutto intorno è il delirio. L’ultima cosa che ricorda prima di svenire è l’ombra di due soldati amici che li prendono e li portano via da lì.

    L’intera corsia era avvolta in un’atmosfera cupa e silenziosa. Ascanio era ricoverato in osservazione. Frida non poteva far altro che rimanere lì, seduta in corridoio, muta, stringendo pochi gettoni fra le mani. Nella testa della donna si affollavano mille pensieri che emergevano da una nube di paura. Con lo sguardo perso sul pavimento, si passava nervosamente i gettoni fra le dita. Avrebbe voluto tanto che almeno una delle sue sorelle fosse stata lì con lei, per avere una mano sulla spalla, un minimo di consolazione, una parola. Ma era tardi. L’orologio segnava quasi le quattro. Frida gettava spesso lo sguardo verso il telefono pubblico a pochi metri da lei. Non aveva senso chiamarle e spaventare anche loro, senza sapere poi che cosa dire, visto che i pochi dottori che le camminavano davanti a passo svelto non aprivano bocca. Forse impietosita, finalmente una giovane dottoressa le si avvicinò.

    «Signora.»

    Frida sembrò svegliarsi all’improvviso.

    «Dottoressa, come sta mio marito?»

    La ragazza, una tirocinante dai capelli bruni e la pelle candida, le si sedette accanto.

    «Ancora non lo sappiamo di preciso, signora. Lo abbiamo trasferito nel reparto di neurologia del Professor Cerri, dove stiamo procedendo con gli accertamenti. Senta signora, vada a casa. La sua presenza qui non è più necessaria. Si riposi che è meglio.»

    «Ma come faccio? Senza sapere nulla…»

    «Mi creda signora, meglio se torna a casa. A suo marito ci pensiamo noi, lo teniamo in osservazione. Adesso sta dormendo. Cerchi di dormire un po’ anche lei. Le trovo qualcuno che la può riaccompagnare.»

    A malincuore Frida capì che la dottoressa aveva ragione. Per il momento non c’era altro da fare. Rimase in attesa finché un giovane volontario, in completo silenzio, la riaccompagnò davanti al portone di casa.

    Il giorno seguente, appena sveglia, Frida chiamò subito le sue sorelle per comunicare quanto era successo. Non ce la faceva più a tenersi tutto per sé. Albamarina e Giada riuscirono a liberarsi e raggiungerla presto a casa, mentre il fratello Galileo, preso dal lavoro, disse che sarebbe venuto più tardi. La terza sorella, Giuditta, invece aveva sempre il telefono occupato e non riuscì a contattarla.

    «Ho paura, non so che pensare» disse Frida fissando il caffè che aveva preparato. Albamarina e Giada sedevano ai lati della tavola.

    «Su, Frida» disse Giada in tono amorevole. «Ancora non sanno neanche cosa gli è successo di preciso.»

    «Ma sì» le fece eco Albamarina. «Inutile preoccuparsi troppo, ora. Magari è stato solo un malessere passeggero e in pochi giorni Ascanio torna in piedi meglio di prima.»

    Frida apprezzava quelle parole, ma dentro di sé non riusciva a crederci.

    «Voi non l’avete visto ieri notte» disse scuotendo la testa. «Sennò non so se parlereste così. Era… cioè, c’era ma non c’era. Mi sembrava che volesse parlare ma era come se non gli uscisse niente di bocca. Poi era rigido, e poi molle, abbandonato… Boh, non lo so... Oddio...»

    Giada e Albamarina si alzarono per abbracciarla. In certi momenti purtroppo non si può fare davvero niente di più.

    «Come va, Ascanio?» dice Giorgio al circolo del tennis.

    «Benissimo» risponde Ascanio allacciandosi le scarpe. «Preparati perché oggi non ti faccio nemmeno vedere la pallina.»

    Giorgio ride. È abituato ai modi a volte sbruffoni dell’amico. «Sì, vedremo. Ne riparliamo dopo la partita che tu perderai.»

    «Zitto e vieni in campo» fa Ascanio impugnando la racchetta. «Ho un sacco di cose da fare, oggi.»

    Giorgio e Ascanio giocano una bella partita insieme. Ridono e sudano, si sfottono a vicenda sotto il sole di una domenica mattina di maggio. Ascanio alla fine la spunta. Giorgio non arriva a prendere un rovescio insidioso e perde.

    «Ah-ah!» gli fa Ascanio. «Te l’avevo detto.»

    Giorgio ingoia il boccone. Si avvicinano entrambi alla rete per darsi la mano.

    «Oh bravo. Ma la prossima andrà diversamente.»

    «Che devi fare oggi?» chiede Giorgio mentre si fanno la doccia.

    «Vado con Frida a pranzo a San Gimignano.»

    «Bello.»

    «Bello sì. È tanto che non ci andiamo. Colgo l’occasione anche per andare a prendere un aperitivo con un cliente che abita lì, così si parla di certi mobili che mi ha chiesto.»

    «Vecchio furbone» dice Giorgio risciacquandosi la testa. «Hai sempre unito gli affari e il piacere. Ma come fai?»

    Ascanio smorza un sorriso. «Eh eh, caro mio. Bisogna saperci fare» risponde in tono sicuro. «Il segreto è non trascurare mai nulla, né gli affari né la moglie, sennò finisce che ti crei un sacco di casini. Se trascuri la moglie rimani solo e se trascuri gli affari rimani col culo per terra. E io non voglio rimanere né solo né col culo per terra.»

    Quando Ascanio parla così, Giorgio lo ascolta sempre con trasporto. Sono amici da molti anni e giocano spesso a tennis insieme, ma lui non ha così tanta sicurezza e piglio per gli affari. Ascanio è un uomo da cui imparare tanto. Le sue risposte sono illuminanti. Giorgio dentro di sé lo invidia un po’.

    Brutte notizie

    Un paio di giorni dopo il ricovero, Frida ricevette una telefonata.

    «Signora Notari?»

    «Sì, sono io.»

    «Sono la dottoressa Cantini. La chiamo dal reparto di neurologia dell’ospedale.»

    Frida provò un tuffo al cuore.

    «Ho gli esiti degli esami fatti a suo marito. Quando vuol venire l’aspetto» disse la dottoressa.

    «Sì, sì! Ma mi dica dottoressa, come sta mio marito? Sta bene?»

    Un attimo di silenzio.

    «Venga in ospedale, signora. Le verrà spiegato tutto.»

    Frida sospirò, e la dottoressa mise giù la cornetta.

    Cercando di non ascoltare i suoi pensieri, la donna afferrò la borsa e uscì di casa.

    Poco più tardi, all’ospedale, fu accolta da due dottoresse all’incirca sue coetanee.

    «Buonasera signora» disse la prima. «Sono la dottoressa Cantini, e questa è la mia collega, dottoressa Pistolesi. Siamo neurologhe dello staff del Professor Cerri.»

    «Prego, si accomodi» disse la dottoressa Pistolesi, invitandola in una stanza appartata. La collega chiuse la porta dietro di loro. Frida si sedette di fronte a una scrivania, le mani che stringevano la borsa e le spalle basse. Appena furono sole, sembrò che il resto del mondo fosse scomparso. La dottoressa Cantini estrasse una grossa cartella piena di fogli da sotto una pila di documenti. Frida lesse il nome di suo marito scritto col pennarello nero. La dottoressa Pistolesi si sedette di fianco a lei.

    «Signora Notari» cominciò la dottoressa Cantini.

    «Frida» la interruppe lei.

    «Frida» si corresse la dottoressa. «Vede, non ci sono molti modi di dire queste cose» si sforzò, col tono più dolce possibile. «Suo marito Ascanio è stato colto da ictus.»

    Frida sentì un pugno allo stomaco. In un attimo fu come se il tetto della stanza le fosse caduto addosso. Una parte di lei l’aveva già capito, per quanto avesse passato due giorni nel tentativo di ricacciare quel pensiero lontano da sé. Non era una donna che si facesse grandi illusioni, però avere la certezza di una cosa così terribile la lasciò comunque di stucco. La dottoressa Pistolesi cercò di farle sentire tutta la sua presenza. Le due neurologhe attesero qualche attimo.

    «In genere questo evento colpisce un solo emisfero del cervello, causando di conseguenza problemi fisici alla metà opposta del corpo, poiché il controllo è incrociato» continuò la dottoressa Cantini, spulciando diversi fogli con esiti di esami specialistici. «Suo marito è stato colpito nell’emisfero sinistro. È per questo motivo che manifesta delle limitazioni funzionali alla gamba e al braccio destro, oltre a dei problemi del linguaggio.»

    Frida sentì seccarsi la bocca. Problemi, limitazioni… oddio, cosa stava succedendo davvero?

    «Cosa vuol dire problemi del linguaggio?» chiese infine, piena di paura.

    La dottoressa Cantini mise da parte il fascicolo. Si sporse in avanti e rispose: «È un problema che si chiama afasia. Purtroppo a volte è una conseguenza dell’ictus.»

    «E che vuol dire? Cosa vuol dire?» Frida cercava di far luce in mezzo a parole che non capiva e che la spaventavano a morte.

    «Ancora non possiamo essere sicuri di quale sia l’entità del problema» intervenne la dottoressa Pistolesi. «Però vuol dire che suo marito Ascanio manifesta difficoltà di espressione che potrebbero, di fatto, costituire la perdita dell’uso del linguaggio.»

    Quelle ultime parole sembrarono provenire da un incubo. Perdita dell’uso del linguaggio. Frida si immaginò in un lampo il volto di suo marito che la fissava incapace di dirle come stai, vado a lavoro, usciamo insieme, la cena è ottima… ti amo. Abbassò la testa e cominciò a piangere.

    «Signora Frida, mi ascolti» disse la dottoressa Cantini, mentre la collega cercava un fazzoletto da porgerle. «Capisco che lei sia spaventata, comunque pensi che poteva andare peggio. Suo marito sarebbe potuto morire, mentre invece c’è ancora ed è sotto controllo medico.»

    «Esiste un percorso di riabilitazione per i problemi del linguaggio» intervenne la dottoressa Pistolesi. «In parte a volte si possono recuperare.»

    «Che vuol dire in parte a volte?» domandò Frida. Il nodo che le stringeva lo stomaco le imponeva di cercare la verità, una verità chiara dietro a quei discorsi e a quelle frasi di circostanza.

    Le due neurologhe non potevano aggiungere molto di più e tentarono semplicemente di far calmare la donna.

    «Quello che conta veramente adesso, Frida» disse la dottoressa Cantini «è che lei sia forte, per se stessa e per suo marito, che adesso ha bisogno di tutto il suo sostegno.»

    «Esatto» confermò la dottoressa Pistolesi. «Adesso serve essere lucidi e offrire a suo marito l’aiuto di cui ha bisogno, e il primo è quello di nascondere le preoccupazioni. Cercate anche il sostegno della famiglia, non isolatevi. Questo è molto importante.»

    Frida sentì l’impulso irrefrenabile di lasciare quella stanza. Le mancava l’aria.

    «Scusate, io ora… voglio uscire.»

    «Certo signora, usciamo.»

    La dottoressa Cantini la accompagnò fuori. Era una mattina di novembre fredda e pungente. Frida si sedette su un muretto vicino al pronto soccorso. L’odore degli alberi alle sue spalle riuscì a calmarle il respiro.

    «Ha bisogno di qualcosa, signora? Vuole che le porti un po’ d’acqua?»

    Frida rispose di no, ringraziò la dottoressa e le

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