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La Mezzanotte del Secolo
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La Mezzanotte del Secolo

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About this ebook

Un improvvisato cacciatore di demoni, con un passato devastante alle spalle, disposto a tutto pur di raggiungere le sue diaboliche prede. Un reduce dall'Afghanistan che la guerra ha trasformato in qualcosa di sbagliato. Un virus alieno senziente che ha trovato un modo perverso per propagarsi. Un bar di periferia dove i racconti del terrore diventano fin troppo reali (o forse lo sono sempre stati). Ricordi d'infanzia che cercano, invano, di sublimare un vuoto incolmabile. Un gruppo di giovanissimi vampiri che ossessionano la vita di un anziano malato terminale. Un uomo braccato dai fantasmi delle persone che non ha mai realmente conosciuto, appartenenti a una vita che non ha mai realmente vissuto. Una lotta millenaria fra maledizioni gitane e stregonerie di paese, dagli esiti nefasti. Un morto che non ha tempo di morire, perchè deve prima portare a termine la sua sanguinosa vendetta. Nella Milano moderna, multietnica e informatizzata del nuovo millennio, le forze oscure della Malarazza scorrono ancora potenti, e ritornano in nove racconti di puro orrore... Dopo il successo di Malarazza (Mondadori 2009), la nuova raccolta di racconti del terrore di Samuel Marolla.
LanguageItaliano
Release dateApr 9, 2013
ISBN9788867557998
La Mezzanotte del Secolo

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    La Mezzanotte del Secolo - Samuel Marolla

    LA MEZZANOTTE DEL SECOLO

    Di

    Samuel Marolla

    TENEBRA AL NEON

    A Carolina Invernizio

    Viale Monza, 6 agosto 2010.

    L’odore di pioggia imminente aveva caricato l’aria di elettricità, ma senza allentare la morsa dell’afa. Alfonso passò in auto tre volte intorno all’intera zona, fra la Martesana, il ponte di Greco e la ferrovia, prima di decidersi.

    Quando si sentì pronto, parcheggiò di fronte allo Zelig, si fece un tratto a piedi, scese le scale di metallo che portavano alla pista ciclabile della Martesana, superò il ristorante greco Mykonos mentre uno dei proprietari abbassava le saracinesche, oltrepassò le vecchie palazzine di ringhiera che si affacciavano sul canale, nugoli di insetti ammassati intorno ai lampioni, proseguì lungo la ciclabile oltre i due ponti della ferrovia, e, dopo aver controllato che non ci fosse nessuno in vista, si fermò di fronte alla vecchia casa del Girozzi.

    Era una villetta piccola, grigia, con i muri scrostati, il tetto a tegole rosse usurato dal tempo e dalla pioggia, un piccolo giardinetto incolto invaso da uno sciame di moscerini, dei piccoli tornado concentrici di insettini neri. La Martesana, alle sue spalle, scorreva ferma, una sfumatura acquosa verde malato. Il rumore di una rana che si tuffava nell’acqua limacciosa. Nella villetta, al primo piano, sotto la grondaia colonizzata da una congrega di piccioni scuri e pidocchiosi, un lumino acceso, di colore arancio smorto.

    Alfonso ruotò lo sguardo tutt’intorno. Silenzio. A sinistra, la ciclabile immersa nelle ombre della notte. A destra, una palazzina a due piani in costruzione, i vani vuoti e polverosi di intonaco delle porte e delle finestre. Un vicolo conduceva all’ingresso sul retro.

    Alfonso lo imboccò.

    Il retro della villetta era ancora più sciatto della facciata, un quadrato di cemento di quattro metri per tre, con solo una sedia di plastica bianca e sgangherata, chiuso da un reticolato verde mezzo sfasciato. Di fronte, la parte posteriore di un autolavaggio, le gigantesche spazzole colorate ferme nella calura d’agosto grondavano perle d’umidità.

    Alfonso piegò parte del reticolato, abbastanza da passarci sotto. Era piccolo e snello, e non fu difficile.

    Superò il cortiletto di cemento, arrivò alla porta sul retro, socchiusa, protetta da una zanzariera. La sollevò cercando di non fare rumore, avvolto dalle tenebre. Una luna d’avorio era adesso coperta da una nuvolaglia metallica. Forzò la vecchia serratura. Entrò piano e fu nel piano terra.

    Un forte odore di acido lo accolse, odore di vecchi, di pelle gialla e smorta di certi anziani poco inclini alla pulizia personale, mescolato a un vago afrore di fritto e a un profumo dolce, stagnante. Il pavimento era di mattonelle crepate, rosse e bianche, da scuola pubblica. La casa era piccola e non era difficile orientarsi. Salì le scale, senza far rumore.

    Iniziò a sentire un ronzio di voci meccaniche. La televisione. Arrivò nella camera da letto del Girozzi.

    Il vecchio era voltato di spalle rispetto alla porta aperta. Se ne stava su una sedia di vimini, consunta come se fosse stata masticata e sputata, e si dondolava piano. Nella stanza, vecchi mobili marrone scuro, un letto matrimoniale con lenzuola gialle di sporco, un quadro ovale, in bianco e nero, con una donna di cento anni fa che guardava con astio chiunque entrasse nella stanza, un televisorino che mandava in onda un varietà da due lire. Il vecchio stava mangiando da una ciotola un pastone che sembrava essere latte e pane. Portava un cucchiaio di legno alla bocca, aspirava quello che c’era dentro con un rumore gutturale, poi ripeteva l’operazione, meccanicamente, senza staccare lo sguardo dallo schermo.

    Qui, adesso, l’odore di rancidume, di fritto, di dolciastro, era ancora più forte. Anche il ronzio era forte, faceva venire mal di testa. Alfonso si schiarì la voce, per superare il volume del televisore. «Girozzi», disse, a voce alta.

    Il vecchio non si mosse e continuò a mangiare il suo pastone.

    «Girozzi!» ripeté Alfonso.

    Il vecchio mosse le spalle. Ora lo aveva sentito, ma non ebbe reazioni inconsulte. Semplicemente, sistemò per terra la tazza col cucchiaio, prese dal grembo un telecomando incrostato di sugo, appoggiato sopra una coperta rossa che gli copriva le gambe, abbassò il volume (ma il ronzio non diminuì), e, infine, si voltò piano, di sghimbescio. Aveva un volto tondo, da luna piena, vecchio e rigido, striato di rughe verticali. Aveva superato da poco i novant’anni e li dimostrava tutti. Gli occhietti piccoli, da tartaruga, erano ancora più minuscoli dietro le spesse lenti degli occhiali. Li strinse ancora di più, cercando di inquadrare la figura di Alfonso, che si stagliava nel rettangolo della porta. «Chi sei?» domandò con una voce querula.

    Alfonso si slacciò la giacca scura. Sotto un’ascella aveva un fucile a pompa a canne mozze, calibro dodici, in una fondina di cuoio. Lo estrasse, con calma. «Mi chiamo Vergani. Alfonso Vergani. Ti dice niente?»

    Il vecchio Girozzi si leccò le labbra secche e viola e guardò il fucile. «Che cosa vuoi, vuoi soldi? Sono un povero vecchio stronzo, ma ho ventimila euro nascosti in cucina, nel barattolo del caffè, dentro una busta di plastica. Vai, vai a vedere. Tutti pezzi da cinquecento. Sono tuoi».

    Alfonso caricò l’arma. Le sue mani tremavano. Sapeva chi aveva di fronte, e, nonostante la calma che ostentava, non aveva mai avuto tanta paura nella sua vita. «Non voglio i tuoi soldi».

    «E allora che cazzo vuoi?» sbottò il vecchio, facendo per alzarsi dalla sedia.

    «Stai fermo», ordinò Alfonso, puntandogli il fucile imbracciato con entrambe le mani.

    «E tu stai attento con quello. Potresti farti male».

    «Anche tu», disse Alfonso, facendo due passi avanti e mettendosi di fronte al vecchio. Girozzi aveva una canottiera bianca, ormai diventata giallastra, e delle bretelle nere. Il ventre prominente si alzava e abbassava al ritmo del suo respiro affannoso, in contrasto con il petto glabro e bianco, piatto. «Ti ho fatto una domanda. Ti dice niente il mio nome?»

    «Cosa? Non capisco. Cosa?»

    «Vergani. Hai capito benissimo. Non te lo chiederò un’altra volta».

    «Io non so chi cazzo sei. Non so cosa vuoi. Non vuoi soldi, che cosa vuoi? Non sarai un pervertito? Un pervertito schifoso?»

    Alfonso fece un profondo respiro, e si trattenne dallo sparargli, qui, subito. Doveva prima sapere. «Via Saterna 28. La famiglia Vergani. Mia sorella Clara».

    Il vecchio Girozzi scosse la testa. «Ma io non so, io non capisco…» iniziò a piagnucolare. «Perché vuoi farmi del male? Io non ti ho fatto niente, per favore, per favo»

    «Smettila di implorare!» gridò Alfonso, le corte canne del fucile che tremavano tra le sue mani. «Fammi parlare con lui! Cazzo, ti sparo in faccia adesso, giuro, ti faccio saltare via la faccia, fammi parlare con lui! Adesso!»

    Il vecchio Girozzi cambiò espressione. La faccia piagnucolosa trasfigurò, ritornando grifagna, solcata da rughe come cicatrici nella carne, un volto spesso e ruvido, simile a quello di un anziano clown psicopatico. «Via Saterna 28, sì, ci ho abitato per un po’. Eri anche tu della partita, non è così?» disse con la sua voce afona, la voce prodotta da una vecchia radio rotta invece che da un uomo. Non aveva più denti. La sua bocca era una fornace rossa e bianca, fradicia di pastone di latte e pane. «Giochiamo a carte scoperte. Quanti anni avevi, all’epoca? Mi sembri sui quaranta, quindi dovevi averne nove, dieci. La mia età preferita. Né troppo piccoli, né troppo grandi. Ne vuoi ancora, non è così? Per questo sei tornato? Perché ne vuoi»

    Alfonso fece un passo avanti e lo colpì alle tempie con la canna del fucile. Gli occhiali spessi saltarono via e finirono sul letto. Il vecchio si piegò di lato, sulla sedia di vimini, ma non cadde. Una piccola goccia di sangue rosso apparve sulla tempia sinistra; brillava su quella pelle pallida, solcata di vene blu, gonfie e spesse. Allora alzò gli occhi, e una lama di luce verde riluceva in fondo a essi. Una luce verde di puro abominio. «Vuoi parlare con lui?» ringhiò fra le labbra viola. «Oh, ma lo stai facendo, lo stai facendo, caro. Quando passi così tanto tempo insieme, diventi una sola cosa. Non è male, in fondo. È un po’ come essere marito e moglie per sessant’anni», disse, e rise, piano, una risata gutturale, a singhiozzi. Ora il fucile nelle mani di Alfonso sbandava con deviazioni di venti, trenta centimetri. Trattenne lo sfintere. Il cuore gli martellava nel petto. Stava morendo di paura, lì, in piedi, in quella camera, circondato da quel ronzio, da quel puzzo rancido. «Stai parlando con tutti e due, piccolo bastardo impertinente», ghignò il Girozzi, stringendo i braccioli della sedia con le sue mani artritiche, li strinse così forte che il vimini scricchiolò e iniziò a sbriciolarsi come polistirolo, piantandogli schegge acuminate nelle mani. Alfonso le fissava con un irrefrenabile moto di orrore. «Non ti è bastato quello che hai avuto? Sei venuto per riprenderti la paga, eh, piccolo»

    Alfonso gli fu addosso, lo colpì ancora con il fucile, con le canne, alla testa, al collo, lo spinse all’indietro con un calcio, il vecchio Girozzi perse l’equilibrio e cadde di lato, sotto la sedia di vimini. «Bastardo! Bastardo! Era mia sorella! Mia sorella Clara, non io, figlio di puttana!» Si fermò, guardando il vecchio che strisciava verso le lenzuola del letto, cercando di ripulirsi la faccia. «Non ti ricordavi neanche di lei, merda!»

    Girozzi rise, sotto il lenzuolo sporco, pulendosi la testa dal sangue. I suoi occhi erano ancora più piccoli, adesso, piccoli e brillanti di inumana luce verde, che appariva e scompariva come un semaforo lontano, sperduto nella nebbia. La coperta di lana era caduta, rivelando due gambette magre e secche, circondate da impianti metallici e di cuoio. Non riusciva a muoversi. «Sono un povero vecchio… sono anni che non… mi sono ritirato, io e lui… ce ne stiamo qui, da soli, senza fare male a nessuno, e»

    «Non fare la commedia. Non ti salverai».

    Il vecchio ghignò. «Ce ne siamo fatte tante, ai bei tempi. Che cazzo volevi, che mi ricordassi di un piccolo, inutile sacchetto di carne come la tua sorellina? È stata solo una delle tante. Non contava niente, per noi! E tu sei morto! Sei morto! Venire qui, a casa mia, come osi?» arrancò sulle lenzuola, cercando di tirarsi sul letto con quelle sue gambe morte. «Tu non sai chi siamo noi! Noi siamo quelli che decidono se tu vivi o se tu muori!»

    In quel momento, Alfonso capì l’origine del ronzio. Contro i vetri luridi della finestra premeva un nugolo compatto di moscerini neri, fermi, duri, un amalgama ronzante e ostile che spingeva per entrare. «Sono vecchio, è vero, mi sono ritirato, ma qualcosa la so ancora fare. Ti entreranno dentro. Ti entreranno dentro dal buco del culo e ti divoreranno gli organi, i miei piccoli amici neri, ma lo faranno mentre sei ancora vivo, oh sì, oh sì, qui, nella mia camera da letto, ti guarderò mentre ti divorano vivo dall’interno, e»

    «Vai a farti fottere», disse Alfonso, e, tenendo il fucile con una mano, prese qualcosa dalla tasca. Una specie di carta da gioco che riproduceva un santo circondato da un’aureola, con una frusta in mano. La mostrò a Girozzi, che sgranò i minuscoli occhi verdi. Ormai era quasi riuscito a salire sul letto. «Non mi toccheranno, invece. Sai cos’è questo, vero? È un santino di comando», e lo rimise in tasca. «Finché ce l’ho addosso, i tuoi trucchi infami non funzioneranno. È per questo che non mi hai sentito arrivare. Perché sono protetto».

    «Cane schifoso!» ululò allora il vecchio, sporgendosi dal letto, le gambe meccaniche e spezzate che si muovevano come code di pesci appena pescati. «Schifoso, schifoso, tu, piccolo pezzo di merda, tu, come osi, come osi!» gridò, e vomitò fuori tutto quello che aveva mangiato in un fiotto bianco, latte e pane, uno sciroppo denso e dall’odore dolce, lo vomitò addosso ad Alfonso in un ultimo, grottesco tentativo di difesa. I tornado di moscerini presero a ronzare più forte, picchiando contro il vetro, mentre Alfonso si puliva la faccia da quell’orrore pastoso, poi prese il telecomando da terra, alzò il volume del televisore al massimo, guardò nei piccoli, malvagi occhi verdi del Girozzi, e gli sparò all’inguine.

    Il corpo fu scagliato all’indietro e andò a sbattere contro la parete. Il quadro con la donna dell’Ottocento tremò. Il vecchio ululò di dolore, tenendosi le mani al basso ventre, coprendosi con il lenzuolo sporco. «Era solo una dei tanti!» latrava. «L’ho succhiata per bene, tua sorella! L’ho succhiata fino a spolparla! E tu, tu farai una fine peggiore! Puoi uccidere me, ma non riuscirai mai a fermare gli altri! Ti saranno addosso! L’inferno ti sarà addosso!»

    «L’inferno lo porto dentro da anni. Non mi fa più paura», disse Alfonso, poi salì sul letto e puntò il fucile, guardò un’ultima volta le due lucine verdi, e sparò ancora, dritto fra quegli occhi demoniaci.

    Milano, Porta Genova, una settimana dopo.

    Alfonso si fermò a metà del ponte di metallo dipinto di verde che portava in Via Savona, guardando senza interesse i manifesti di alcuni gruppi rock underground, mentre un trio di modelle del Nord Europa passava alle sue spalle, canotte e minigonne, alte, effimere come strani manichini pallidi. L’aria profumava di brioche e di asfalto bollente.

    «Alfonso», lo chiamò una voce. Era lui. L’aveva affiancato senza che se ne accorgesse. Gli metteva i brividi. Alto, scuro, di un’età indefinita, un volto austero, che sembrava essere stato lasciato a metà.

    Alfonso gli strinse la mano. «L’ho fatto».

    «Lo so», disse il Professore. Si faceva chiamare così, il Professore. Alfonso non conosceva il suo vero nome e non aveva mai voluto saperlo. L’uomo gli porse un articolo di giornale. Alfonso lo prese e lo lesse sottovoce. «Dino Girozzi, novantadue anni, trovato barbaramente ucciso a colpi d’arma da fuoco nella sua abitazione, una villetta alla periferia nord-est di Milano. In un primo momento si ipotizzava una rapina finita nel sangue, ma gli inquirenti hanno dei dubbi perché la casa è stata trovata in relativo ordine. Girozzi, un passato da commerciante di tappeti, non aveva parenti e viveva solo in una vecchia»

    Alfonso appallottolò l’articolo e lo buttò via. «Dice che gli altri lo verranno a sapere in fretta?»

    «Lo sanno già», rispose il Professore. «Ma era una cosa di cui avevamo parlato, l’avevamo già messa in conto».

    Alfonso inspirò profondamente. Un gruppo di ragazzi con cartelle da disegno, provenienti dalla Scuola del Fumetto, gli passò di fianco ridendo. «Mi verranno a cercare».

    «Sapevamo anche questo. Hai i tuoi Santini di Comando. Hai le candele di protezione. Hai il tuo fucile. Fanne buon uso».

    «Lei cosa farà?»

    «Non arriveranno a me», spiegò il Professore, sorridendogli. «Tu sei pronto?»

    Alfonso scosse la testa. «Non si è mai pronti».

    «Voglio che tu sappia che questa volta non potrai contare sul fattore sorpresa. Ti attaccheranno quando meno te lo aspetti, e lo faranno duramente. Sanno che gli diamo la caccia, e ormai per loro è una questione di pura sopravvivenza. Non hanno niente da perdere».

    «Nemmeno io. Ho trovato una vecchia agenda, a casa del Girozzi. Ci sono delle date in rosso, delle date dei prossimi mesi. La più vicina è fra poco. C’è solo scritto: FUKUSHIMA. Poi ce ne sono molte altre. L’ultima ha il riferimento del giorno e del mese ma non dell’anno, e c’è scritto di fianco: LA MEZZANOTTE DEL SECOLO».

    «Non ho idea di cosa significhi. Fammela avere. Ci lavorerò. Ah, c’è un’altra cosa. Ho trovato un altro sopravvissuto. Un ragazzo. Si chiama Fausto Cacciapuoti. Te lo ricordi, per caso?»

    Alfonso ci pensò un attimo. «Non mi sembra. Ma non conoscevo tutti, in quel palazzo. O magari è andato a vivere lì dopo che noi ci siamo trasferiti».

    «Ha all’incirca la tua età, ma è messo male. Si trova in una clinica privata. Qualcuno gli paga la retta».

    «Chi?»

    «Non sono riuscito a scoprirlo. Qui ci sono tutte le informazioni», disse, porgendogli una chiavetta USB. «Vallo a trovare. Così, per fare due chiacchiere. Prova a vedere cosa si riesce a fare».

    «Perché non viene anche lei?» chiese Alfonso, riponendo la chiavetta.

    «Perché non so se è controllato, chi gli paga la retta. Potrebbe essere uno di loro. Tu ti sei bruciato, ma io, se vado io rischio di far saltare tutta la mia base informativa. E sarebbe un danno incalcolabile. Mi dispiace, Alfonso. Tu sei sacrificabile, in un certo senso. Io no».

    Alfonso ci pensò sopra. Giocherellava in tasca con la chiavetta USB. «Sì, lo capisco. E fa parte del gioco. Lei è troppo importante. Che cosa devo fare?»

    «Sonda il terreno, per ora. Non andare oltre. Cerchiamo di prendergli le misure, poi valuteremo il da farsi», disse, guardandosi intorno. «È meglio salutarci, adesso. Hai trovato un posto dove stare?»

    «Sì, alloggio a»

    «Non me lo dire. Non lo voglio sapere». Gli porse la mano. «Hai bisogno di qualcosa? Soldi, medicine?»

    «No, sono a posto», rispose Alfonso, stringendogli in fretta la mano, poi i due uomini si incamminarono in direzioni diverse, come se non si fossero mai parlati.

    Alla Darsena, le fronde degli alberi si muovevano pigre, sotto la brezza estiva.

    È un inverno che va via da noi / allora come spieghi questa maledetta nostalgia? / Di tremare come foglie e poi / di cadere al tappeto…

    Il vagone del treno, al passante ferroviario di Porta Vittoria, rullava con un ragliare costante, ipnotico. Fuori, le pareti fuligginose delle gallerie scorrevano in una massa nera e indistinta. Alfonso era seduto in fondo, e guardava gli altri passeggeri. C’era un uomo in una divisa grigia da vigile del fuoco, con polo e pantaloni di tela. Un giovane africano vestito sportivo, occhialoni neri, un iPod a tutto volume. Due donne sui sessanta, capelli color cenere, che discutevano di un film appena visto. Un cingalese con un carrello ricolmo di oggetti. Marito e moglie con un bambino nella carrozzina. Alfonso lanciò un’occhiata fuori, poi gli sembrò di essere osservato e girò la testa di scatto.

    Tutti i viaggiatori lo stavano spiando, e distolsero subito lo sguardo.

    Alfonso si incupì. Aveva qualcosa che non andava? Era strano? Si muoveva in modo sbagliato? La paranoia stava prendendo il sopravvento. Ormai andava avanti a Roipnol. Il Professore gli aveva detto che loro potevano essere dappertutto, avere una diversa identità. Li squadrò uno a uno. Chi di loro? Chi poteva essere di loro?

    Sentì nella tasca la chiave USB, ci giocherellò. Gli parve che l’africano lo stesse guardando ancora. Poi raggiunsero la fermata di Dateo, il nero si alzò e scese. Salirono due giovani uomini in giacca e cravatta, chiacchierando, la faccia da agenti immobiliari.

    Scesero dopo una fermata, insieme alla coppia col bambino e al vigile del fuoco. A Repubblica scesero le due donne e il cingalese. Alfonso era rimasto solo nel vagone. Restò seduto al suo posto per due fermate, senza che nessuno salisse. Poi si alzò e si piazzò davanti alla porta più vicina, guardando nel nero sciolto dei muri sotterranei. Era quasi l’una. Si stava addormentando in piedi, ma doveva tenere duro. C’era da preoccuparsi anche della polizia. Uccidere un uomo e farla franca non è semplice. Di solito si viene beccati sempre, se non si è dei professionisti o se non si ha molta fortuna, e…

    Riflessa sul vetro sporco della porta, Alfonso vide passare una figura alle sue spalle, una figura piccola e magra, con due rubini verdi al posto degli occhi.

    Si paralizzò.

    Il treno continuava ad andare e a sferragliare, mentre Alfonso sprofondava in un vortice di terrore liquido. La polo gli si era appiccicata alla pelle. Un odore di terra bagnata aveva invaso il vagone. La figura era rimasta sulla soglia del suo campo visivo, in un angolo del vagone, ferma, a fissarlo con quei suoi piccoli, acidi occhi verdi. «Non ti voltare. Continua a guardare nel vetro», disse una voce grave, ferrosa. Qualcosa di lungo e sinuoso strisciò sul soffitto del vagone. Alfonso rimase fermo a guardarlo. La figura, riflessa nello sporco del vetro, sembrava sfarfallare come un’immagine televisiva distorta. Nell’aria sentì un vago sapore di elettricità mescolarsi con il puzzo di terra fradicia. Se lo sentiva anche in bocca, quel sapore di metallo elettrico. Trattenne un conato di vomito. «Vuoi uccidermi?»

    «Non voltarti», ripeté la figura con gli occhi verdi. «Se tu mi vedessi direttamente ti uscirebbe la merda dagli occhi, quindi continua a guardare quel vetro. C’è poco tempo. Ti dobbiamo parlare. Se avessimo voluto ucciderti, la tua colonna vertebrale sarebbe già appesa ai corrimano come una stella filante. Vogliamo che tu sappia che se avessimo voluto ucciderti, avremmo potuto farlo ogni singolo minuto di quel tuo inutile, breve, miserabile strisciare che ti ostini a chiamare vita. So che anche uno stupido come te può capirlo».

    Alfonso sospirò, tenendo lo sguardo basso. L’avrebbe ucciso. Quella cosa alle sue spalle lo avrebbe ucciso, ne era certo; stava solo cercando di confonderlo, di distrarlo. Gocce di sudore gli colavano sui fianchi, sulla schiena, come formiche.

    «Hai sistemato un nostro amico dei bei tempi. E sta bene. In fondo era solo un laido, vecchio bastardo, inutile al mondo e a noi. Se lo meritava. Non ci sarà vendetta per questo; volevamo fartelo sapere. Sappiamo quello che provi», disse quella voce fasulla, elettrica. «Tua sorella e il resto. Lo capiamo. Ma la cosa finisce qui. Sono vecchie storie del passato ed è meglio lasciarle dove sono. Non cercarci più. Vattene da Milano, vattene dal Nemeton, torna nel buco del culo del niente da dove sei venuto. Non cercarci più; questo è il primo e ultimo avvertimento. Non cercarci più, o la prossima volta ti faremo delle cose. Ti faremo delle cose per molto tempo, ti porteremo in un posto da cui non potrai fuggire e ti faremo delle cose per cui pregherai, oh se lo farai, pregherai che finiscano in fretta, ma non succederà, non succederà e le cose brutte che ti faremo saranno molto, molto lunghe».

    «Non ho paura», ribatté Alfonso. «Forse voi avete paura, perché la Mezzanotte del Secolo si avvicina».

    La cosa sinuosa sul soffitto parve tendersi come un cavo elettrificato, un cavo organico potente come il corpo di un pitone. Strisciava sul soffitto e Alfonso non capiva da dove venisse. Alle sue spalle, al margine del campo visivo, i due rubini verdi brillavano nella penombra sudata del vagone. La fermata non arrivava. Il treno si muoveva con una lentezza innaturale, senza più alcun rumore, senza più vita. «Stai bluffando. Non sai neanche di cosa parli. Ma ricordati, stanotte, quando sarai nel tuo letto, al sicuro, con il fucile sotto il cuscino, ricordati bene che se avessi voluto, se solo avessi schioccato le dita, avrei potuto ordinarti di staccarti il cazzo e di mangiarlo». La voce divenne ancora più profonda, ancora più antica e pietrosa.

    Alfonso si portò una mano alla bocca e ci rigettò sopra il pollo al curry indiano appena mangiato, in un fiotto scuro e denso. Si accasciò in avanti.

    «E tu l’avresti fatto, oh sì, oh sì che l’avresti fatto. Ricordatelo bene, questa notte, al buio, da solo, quando guarderai il soffitto. Forse capirai cos’è meglio per te». Ci fu una lunga pausa. «Dimenticare», e i rubini verdi sfarfallarono nel sudicio del vetro, muovendosi come biglie, in direzioni opposte.

    La figura si era sfaldata. Non ne vedeva più il contorto, riflesso sul vetro, con gli occhi lucidi per l’attacco di vomito. Fuori, i tunnel neri del passante ferroviario si muovevano in un disperato rallentatore. I rubini verdi vagavano alle sue spalle, senza forma, senza ragione, senza logica. La voce era ovunque, adesso. «Un’ultima cosa: il Professore, quello che ti aiuta, da dove pensi che arrivi? Chi pensi che sia? Appare dal nulla, ti fornisce i nomi, ti aiuta a cercarci, ma che cazzo ne sa lui? E tu? Che cosa sai, tu, di lui? Non ci hai neanche pensato, eh? Prova a farlo. Prova a pensarci. Dai nemici mi guardo io, ma dagli amici mi guardi Iddio. Pensaci, povero stronzo», concluse la voce che era ovunque, nel momento esatto in cui i rubini verdi si spegnevano.

    Il rumore del treno che sferragliava a tutta velocità ritornò di colpo, come se una mano invisibile avesse riattivato il volume.

    Alfonso sobbalzò e il mondo ricominciò ad andare a un’andatura normale. Si era vomitato sulle mani, sulla maglietta, sulle scarpe. Guardò il suo volto nel finestrino, sfatto, consunto, le occhiaie nere. Questa cosa lo stava divorando. Questa vendetta lo stava divorando vivo.

    Scese alla Bovisa e si allontanò nella città notturna, fradicia, in una notte d’estate milanese piena di sospiri e odore di asfalto sciolto e strani profili di case.

    Parco di Porta Venezia, Milano, 1986.

    Clara e Alfonso correvano verso gli autoscontri, mano nella mano. I genitori erano figure alte, scure, dietro di loro. Non ne vedeva i volti, solo le lunghe ombre nere sul selciato di sassolini. Il sole a picco di una domenica d’agosto a Milano. Risate di bambini, i riflessi del sole nell’acqua dei laghetti, con le papere e le anatre che ci nuotavano dentro. Il profumo dei gelati, le monetine che tintinnavano nelle tasche. Clara che rideva, rideva sempre.

    Giocarono tutto il giorno, in quel tempo dilatato all’infinito che trasforma i singoli pomeriggi da bambino in esperienze da una vita intera, e che, quando finiscono, somigliano a una piccola morte. E a una rinascita, il giorno dopo, di nuovo, e ancora, e ancora, con l’assoluta, splendida inconsapevolezza che l’infanzia, prima o poi, finisce per tutti.

    Lui aveva dieci anni, sua sorella sette.

    Le memorie presero a confondersi, in quel baretto di Porta Romana. Sul tavolino, fuori, il sole d’agosto si scioglieva nel caffè e mescolava i ricordi. Le rocce del parco, la grotta là in alto, irraggiungibile, misteriosa, il vecchio Pierino, l’asinello che trainava il calesse su cui facevano il giro del parco, e poi il treno-bruco su cui lanciarsi in una breve corsa meccanica che a loro sembrava una traversata continentale, e poi fermarsi sotto quel tetto di plastica verde, ondulato, mentre il trenino rallentava e sbuffava, e Clara sempre vicina a lui, come un animaletto fedele. Ricordava il suo profumo, i suoi capelli, a distanza di così tanti anni. Quello era il ricordo più bello che aveva di

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