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Il posto dove vivo
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Il posto dove vivo

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About this ebook

Livia ha trent'anni, è un architetto cinico e divertente che tuttavia nasconde un'intima paura di vivere, di essere se stessa. Livia è attorniata dalla sua famiglia fatta di persone fiere e coraggiose, prima fra tutte la sua migliore amica Anna, sua sorella minore: forte, estrosa ed esilarante.
L'incontro con la venticinquenne Virginia, pubblicitaria bella e sofisticata, cambierà profondamente l'esistenza di Livia. Livia e Virginia costruiranno, grazie al loro amore, una famiglia, completata dall'arrivo di Lavinia, la loro bambina.
Un tragico evento irromperà nelle loro vite distruggendo l'equilibrio creato con tanto amore, mettendo Livia a dura prova.
La storia è riportata tramite il ricordo di una Livia ormai nonna, felice, amata da tutti quelli che l'hanno conosciuta.
Spensierate gag si alternano a momenti drammatici e di riflessione in una città contemporanea, tanto amata dalle protagoniste, luogo che non viene mai nominato, ma soltanto tratteggiato.
LanguageItaliano
PublisherOlga Fantò
Release dateOct 2, 2013
ISBN9788868554408
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    Il posto dove vivo - Olga Fantò

    Che tu sia lesbica, gay, etero, transessuale, bisessuale, lotti tutti i giorni nel posto in cui vivi.

    Lotti per vivere la tua vita, per dimostrare qualcosa a qualcuno; combatti per la tua famiglia, per i tuoi figli, per un amore.

    Vivi per amare, ridere, piangere, gioire e stupirti come chiunque.

    Provi rabbia, tristezza

    Sono emozioni uguali per tutti. Non dipendono dal colore del a pel e, dal a nazionalità, dal a persona di cui ci si innamora...

    Siamo tutti uguali e diversi; non c'è giusto o sbagliato, normale o anormale, naturale o innaturale, sacro o profano.

    Perché mai dovremmo essere classificati in base a chi amiamo?

    Siamo umani. Siamo carne, ossa, vita, sempre!

    Olga Fantò

    1

    Ammiro i miei nipotini giocare in terrazzo. Io me ne sto seduta al fresco con mia madre e mia figlia.

    «Mamma, dovresti conoscere qualcuno, sei vedova da venticinque anni, direi che è abbastanza» dice Lavinia, mia figlia.

    «Ma io sto bene così, ho settant'anni e non ho voglia di avere appuntamenti».

    «Ha ragione tua figlia, passi le giornate con me, dovresti distrarti un po'» aggiunge mia madre.

    Sempre la stessa storia: nipote e nonna si coalizzano in questa crociata per farmi uscire dall' eterno stato di vedovanza, esatte parole di mia figlia.

    Pensano sia infelice, ma io sono serena e appagata, e non voglio che nessuno mi rubi del tempo durante la giornata: devo stare con i nipoti, gestire lo studio, prendermi cura di mia madre e fare mille altre cose che mi gratificano più dell'idea di dover conoscere qualcuno.

    «Io mi svago, esco con gli amici, sto con i bambini...» replico con uno sorriso rassicurante.

    «E l'amore?» sopraggiunge mia figlia preoccupata.

    «Sono circondata dall'amore tutto il giorno: il tuo, quello di tua nonna, degli zii...».

    «Io parlo di un altro tipo di amore».

    «Quello l'ho avuto. Sono stata tanto fortunata a trovarlo, ora desidero altro. E poi, non mi piace l'idea che qualcuno possa usurparmi del tempo, tempo che posso dedicare ai miei cari».

    Tempo che posso trascorrere a ricordare. Sono gelosissima dei momenti nei quali mi volto indietro, ripercorro il mio passato. Questi sono i miei istanti.

    «Tu non vuoi rifarti una vita per...» incalza mia figlia.

    «No».

    «Sai che l'avrebbe voluto, l'ha detto a tutti poco prima di morire».

    «Amore lo so, non è per questo. È per me, sul serio. Ora voglio essere una nonna. Questa è la mia felicità. Da oggi si trasferiranno qui anche gli zii: lo zio Sandro non sta bene e io voglio aiutarlo. Quando sono rimasta sola, lui e la zia hanno fatto tanto per me; ora è il mio turno».

    «Questo mi fa stare più tranquilla; sapere che accanto a te c'è la vitalità della zia Anna mi rincuora».

    «Vedi, con tua zia in questa casa, non ci sarà più un attimo di silenzio».

    «Ma continui a lavorare, dovresti smettere. Ti stanchi troppo».

    «Non sono ancora da buttare, e tuo cugino Edo fa praticamente tutto lui, poverino. Io mi occupo di poco; cerca di non farmi affaticare».

    «Allora smetti e goditi la pensione».

    «Per ora no. Questo è il mio regalo per i miei nipoti: Edoardo, Massimo e Virginia».

    «Lasciala stare. Tua madre è sempre stata una gran testa dura» irrompe mia madre col suo proverbiale piglio battagliero che la contraddistingue da ormai più di novant'anni.

    «Hai ragione nonna».

    «Certo che i bambini sono il suo ritratto, come sono belli!» esclama mia madre ammaliata guardando i pronipoti.

    Come al solito, inizia a ricordare, si commuove, guarda le fotografie.

    Alla fine si finisce col parlare di te. Avevi lasciato la nostra famiglia da quasi trent'anni, eppure, non passava giorno senza che riaffiorassi nella nostra memoria. Tu eri così: entravi nella vita delle persone, la stravolgevi di felicità e lasciavi il segno, facendo affezionare chiunque avesse la fortuna di conoscerti.

    Ci hai accompagnati per tutto questo tempo e lo farai sempre.

    2

    Ho sempre pensato che la vita fosse un'impresa titanica, un percorso intriso di problemi insormontabili.

    Ti senti quasi schiacciare da questa forza prorompente che ci hanno insegnato a chiamare vita: un turbine di emozioni contrastanti e spesso incomprensibili. Un giorno ti toglie tutto senza preavviso, senza perché, senza ragioni logiche. L'indomani ti restituisce tutto, anche di più.

    Non so se le persone abbiano mai riflettuto tanto quanto me sulla vita, forse meno. Infatti, perché doversi arrovellare sull'esistenza? Probabilmente c'è chi vi avrà rimuginato in momenti tragici, chi in situazioni di inaspettata fortuna o felicità. A mio parere questo è un atteggiamento sano e proficuo; il mio invece, quello di una paranoica cronica.

    Ho ragionato su qualsiasi cosa. Ogni singola inezia che alla mia mente non andava a genio o che le sembrava difforme da una stupida routine preconfezionata, era per me fonte inesauribile di stress, ansia e tensione.

    Sin da piccola ritenevo gli altri bambini spensierati, a differenza mia che, avevo mille pensieri e preoccupazioni; in realtà ora comprendo che gli assilli ce li hanno tutti, ma, se sono irrisori, non ci badano tanto.

    Questo però, l'ho imparato molto tardi.

    3

    Presi il cellulare: «Pronto?».

    «Che entusiasmo che hai sempre. Se sul telefono ti compare il mio nome perché non dici Ciao, invece di fingere di non sapere chi sia».

    «Ciao, come stai? Andata bene la giornata cara la mia sorellina?».

    «Molto meglio, ma c'è ancora molto da lavorare sulla spontaneità e la gentilezza».

    Ridendo: «Che vuoi?».

    «Per l'appunto gentilezza».

    «Sorellina migliore del mondo cosa c'è?» dissi continuando a ridere.

    «Direi che impari velocemente. Comunque, andiamo in quel nuovo locale che hanno aperto? Domani è sabato e vogliamo andarci tutti; non voglio scuse. Dai Livia».

    «Stasera avevo intenzione di andare alla casa nuova per iniziare a organizzare il trasloco».

    «Cos'ho detto? Niente scuse».

    «Non posso».

    «Tu puoi e verrai. Non mi rovini la serata, e senza di te me la rovino».

    «Ma è pure una serata gay, perché ci vuoi andare?».

    Queste serate interessavano più a lei che a me.

    «È etero friendly. Non eri tu quella che odiava le divisioni?» disse ironicamente.

    «Ok. Passo a casa a fare una doccia. Vuoi cenare da me?».

    «No, devo farmi la ceretta. Vengo a prenderti verso le dieci, ok?».

    «Ok. A dopo».

    Era la prassi: Anna, mia sorella, non conosceva il rifiuto.

    Oltre a essere mia sorella era la mia più cara amica. Avevo molti conoscenti, ma amici, dei quali mi fidavo realmente, pochissimi. Lei era in cima a questo sparuto gruppo.

    Era una di quelle persone che ammiravo e invidiavo: viveva con tranquillità, agiva d'impulso.

    Nonostante fosse più giovane di me di cinque anni, sembrava lei la sorella maggiore; era forte e sicura di sé.

    Lei e io non ci somigliavamo molto, anzi, esteticamente eravamo agli antipodi. Anna aveva una carnagione olivastra, eredità di nostro padre; io ero bianca, tendente al rosa. I suoi capelli erano castani, lunghi e ricci; i miei biondi, corti e lisci.

    I suoi occhi erano azzurri; i miei verdi. Il suo viso ovale; il mio più rotondo. Il naso poteva rivelare una certa parentela: dritto e leggermente in su. Lei molto appariscente; io semplice. Lei sempre truccatissima; io mai. Lei minigonne e tacchi; io jeans e sneakers. Lei era poco più alta di me, ma i nostri corpi erano simili: entrambe eravamo toniche e asciutte.

    Si comprendeva che eravamo sorelle quando aprivamo bocca: avevamo la stessa voce bassa e un po' roca, ed eravamo estremamente scurrili. Mentre io avevo qualche freno inibitorio però, lei era un flusso di coscienza continuo; diceva che questo era inevitabile per una persona vera come lei.

    In questo era la copia perfetta di nostra madre, mentre io ne ero il clone fisico.

    Da mamma non avevo preso l'eroismo come Anna, bensì la semplicità.

    Mia sorella non aveva ancora trovato l'anima gemella, eppure era assediata da numerosi corteggiatori, ma nessuno riusciva a fermarla. Ogni volta che le chiedevo perché con l'ultimo fidanzato non fosse andata bene, lei mi rispondeva: Se mi fossi fidanzata chi si sarebbe occupato di te? Chi avrebbe pensato a sistemarti?. Noi eravamo l'una il sostegno dell'altra e questo ci faceva sentire più sicure.

    Aveva abbandonato gli studi superiori, eppure mia madre la iscrisse a cinque differenti scuole, pur di riuscire a far sì che prendesse il tanto agognato diploma. Ma puntualmente, dopo qualche mese, finiva la vita di quell'istituto nel carnet degli impegni giornalieri di mia sorella.

    Alla fine di questo pietoso peregrinare, mia madre dovette abbandonare l'estenuante battaglia e arrendersi alla lapidaria volontà di Anna: no scuola!

    A quel punto frequentò un corso per parrucchiera e iniziò subito a lavorare, tanto da essere già perfettamente indipendente all'età di diciannove anni.

    Ho sempre stimato mia sorella: lei vive la vita, la domina senza paura. Ciò che io ho sempre definito incoscienza, in realtà si chiama coraggio: coraggio di dire io amo, senza ripensamenti, senza paure; coraggio di andare controcorrente se ciò ti rende felice; coraggio di portare avanti una propria convinzione anche se hai tutti contro.

    Feci la doccia e mi specchiai, mi sembrava mi fossero comparse delle rughe da quando avevo compiuto gli anni. Ero ossessionata dai segni del tempo.

    Mi riguardai: ritratto di un architetto a trent'anni.

    Misi le lenti a contatto; ero alquanto miope, ma non uscivo mai con gli occhiali. Mi sembrava mi rendessero brutta, e coprivano il mio viso che, a detta di tutti, era splendido. La gente mi diceva che ero fortunata, poiché non avevo bisogno di truccarmi, sembrava lo fossi già: le mie lunghe ciglia non necessitavano di mascara; la mia bocca pareva perennemente imbellettata.

    Andai in camera a prendere i vestiti e mi accorsi che sembrava un campo di battaglia: tutti gli scatoloni del trasloco a terra e un sacco di cose da sistemare.

    Dovevo liberare l'appartamento il mese prossimo ed ero ancora in alto mare.

    I nostri genitori avevano aiutato Anna e me a comprare due piccoli appartamenti. Non erano ricchi, entrambi impiegati, ma ci avevano sempre assicurato benessere e solidità economica.

    Avevo deciso di sistemare prima la casa di Anna: era stato il mio regalo di compleanno per lei. Avevo seguito i lavori di ristrutturazione e mi ero occupata anche dell'arredamento. Questo mi costò non poca fatica, poiché reputavo il gusto di mia sorella orrido e pacchiano. Quando andavo a vedere i mobili, per poi sottoporli al suo vaglio, mi vergognavo a richiedere rivestimenti da divano con colori sgargianti, tappeti leopardati, finte pelli d'orso per il letto.

    La sua camera da letto sembrava un'alcova; ricalcava le fattezze del nido d'amore di una donna e il suo compagno narcotrafficante. Sì, era quella la definizione più appropriata. In una camera fu capace di volere un colore diverso per ognuna delle quattro pareti. Che vergogna. Per non parlare delle tende fucsia, delle lenzuola tigrate.

    E mi diceva che ero antiquata, seria. Sarà, ma lei che audacia.

    Anna venne a prendermi. Erano appena le undici e decidemmo di andare a bere prima qualcosa, dato che il locale avrebbe iniziato a popolarsi verso l'una.

    «Certo che la sobrietà ti appartiene» dissi guardando l'outfit di mia sorella per la serata.

    Aveva una minigonna che era la versione mini della minigonna, ed era scollatissima; ma non era tanto quello a saltare all'occhio, quanto l'accozzaglia di colori che indossava, sembrava si fosse vestita con un frullatore. Inoltre, aveva acconciato i suoi lunghi capelli a mo' di cresta.

    Lei era estrosa e barocca, era sempre sé stessa qualsiasi cosa accadesse; non le importava minimamente del giudizio altrui.

    Questa era una delle tante qualità che la rendavano speciale.

    «Non stiamo andando a un Gay Pride» le dissi.

    «Ridi, ridi. Ma che cazzo ridi?».

    «Quando sarò ubriaca l'arcobaleno psichedelico che indossi potrebbe indurmi il vomito, lo sai vero?».

    «Ah ah. Che sofisticato umorismo».

    Dopo un po' ci recammo al locale. Era carino, ma niente di che: pista da ballo, bancone, luci... Queste serate mi sembravano tutte abbastanza simili; forse perché ci si imbatteva continuamente nelle stesse persone, soprattutto quelle che si sarebbero volentieri evitate.

    Incontrammo i nostri amici, Anna e io li avevamo praticamente tutti in comune.

    Ero già abbastanza alticcia e volevo solo passare una serata tranquilla, possibilmente ballando il meno possibile. Ero una frana a ballare, la scoordinazione in carne e ossa. Ero così poco armonica che, al liceo, durante la lezione di step, l'insegnante, vedendo la fatica che facevo, mi diceva che potevo andare a fumare una sigaretta in cortile.

    Quella sera l'alcol causò una débâcle dei miei freni inibitori: ballavo come una completa deficiente. Durante tale scempio, la vidi; erano mesi che non la vedevo.

    Si sollevò un coro tra i nostri amici: Ecco la tipa che piace a Livia.

    Era una ragazza che avevo già notato da un anno. Quando ero ancora impegnata la guardavo, ma non era uno sguardo bellicoso, era solo l'ammirazione per una bellezza fuori dal comune.

    Mia sorella mi diede una gran gomitata.

    «Che c'è? A te t'ha preso brutta la sbronza» le dissi.

    «Quanto sei scema. L'hai vista? Stupenda. Fossi lesbica ci proverei, ma dato che non lo sono... hai campo libero».

    «Ma chiiiiiii?».

    «Se l'hai sempre guardata, già da quando stavi con la strega esoterica. Com'è che si chiamava?».

    «Che cattiva. Un po' di rispetto, ci siamo lasciate pochi mesi fa».

    «Ma com'è che si chiamava? Mamma mia però, che cazzo di gusto nel vestire e che occhi spiritati: un'ansia».

    In effetti mettersi con la cabala (questo era un altro dei mille soprannomi affibbiatole a causa dei suoi discorsi sconclusionati e dei suoi vestiti da satanista) non era stata proprio una mossa vincente. Io non ero spirituale, non avevo quell'atteggiamento hippie, sia nel cuore che nella mente.

    Mia sorella ripartì come un carro armato: «Perché non le parli?».

    «Non sappiamo neanche se è lesbica».

    «Ma come, non le hai fatto un po' di indagini Facebook?».

    «Non so neanche come si chiami».

    Non era vero: si chiamava Virginia. Sapevo tutto di lei da quel poco che si poteva inferire dal suo profilo.

    «Che bugiarda. Comunque io mi sono adoperata per te, e a me sembra lesbica».

    «Dici?».

    «Lo sapevo che ti piaceva. Io so sempre chi può piacerti, infatti te lo dicevo che la sciamana...» proruppe in una risata e iniziai a ridere anch'io.

    Continuammo un po'. Io con la coda dell'occhio non la perdevo mai di vista; ballava con i suoi amici, andava a prendere da bere.

    Vennero a chiamarci gli altri e mia sorella disse loro: «Scusate, sapete com'è quando vede la gnoccona».

    Uno di loro rivolgendosi a me: «In effetti è fighissima, ci credo che le sbavavi dietro anche quando

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