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Keffaya: È ora di finirla
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Keffaya: È ora di finirla

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About this ebook

Conflitto tra Israele e Palestina, uno scontro che affonda le sue radici nel passato, una guerra nella quale le ragioni di entrambe le parti sono confuse da bombe, ritorsioni, sangue di cittadini inermi. Forse è l'essere umano in senso lato il colpevole di tutto: il palestinese o l'israeliano, certo, ma anche l'occidentale che assiste da lontano, che si prodiga in aiuti di facciata, senza impegnarsi veramente a soffocare una guerra che sta spezzando vite e speranze, che costringe i bambini a nascere e crescere in campi profughi, con l'orrore davanti agli occhi. È in questo contesto che opera Vanni, giornalista italiano inviato per raccontare il conflitto, che affianca presto Helga, cooperante norvegese per un'organizzazione umanitaria. Vanni conoscerà poi l'israeliano Elia e la palestinese Sahida, giovani che desiderano gettare le basi per un riavvicinamento tra i due popoli. Riportando nei suoi articoli tragiche testimonianze, profonde riflessioni, descrizioni coinvolgenti di paesaggi deturpati, Vanni racconta inganni e intrighi, ma anche il lato umano e quotidiano di chi vive il conflitto in Terrasanta sulla propria pelle. E sullo sfondo il mistero di un antico documento che dimostrerebbe che Gesù non è mai risorto e che rischierebbe di far crollare la credibilità della Chiesa.
LanguageItaliano
Release dateMay 26, 2015
ISBN9788867931606
Keffaya: È ora di finirla

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    Keffaya - Mario Grasso

    @micheleponte

    Mario Grasso

    KEFFAYA

    È ora di finirla

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono fittizi o usati in modo fittizio. Tutti gli episodi, le vicende, i dialoghi di questo libro, sono partoriti dall’immaginazione dell’autore e non vanno riferiti a situazioni reali se non per pura coincidenza.

    1

    State entrando in una zona molto pericolosa in cui le vostre vite possono essere a rischio.

    Come benvenuto ci poteva stare di meglio, pensò Vanni Ossarg, inviato speciale di uno dei principali quotidiani italiani, leggendo il messaggio. Era scritto in varie lingue su un enorme cartello rosso esposto al checkpoint di ingresso a Hebron, città simbolo dell’eterno conflitto fra israeliani e palestinesi. Una discordia che, in un mondo imbrattato dal sangue e dalla polvere da sparo, aveva di diritto un posto d’onore.

    L’ultimo atto del sanguinoso dissidio era stata l’operazione Barriera protettiva scatenata nella Striscia di Gaza da Israele a risposta dei razzi lanciati da Hamas. L’offensiva aveva provocato 1600 morti, per oltre la metà donne e bambini.

    "È stata peggio di Piombo fuso, un’altra operazione lanciata dall’esercito israeliano tempo addietro per distruggere le strutture di Hamas. Anche quella fu un massacro, morirono oltre 1400 palestinesi, in massima parte civili" disse la sua accompagnatrice Helga, una volontaria norvegese dell’UNRWA l’agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso ai rifugiati palestinesi.

    Helga era andata a prendere il giornalista all’aeroporto di Tel Aviv e lo stava conducendo a un’iniziativa di cui era stata l’organizzatrice: un incontro con due rappresentanti molto particolari dei palestinesi e degli israeliani, due dissidenti che avevano un comune obiettivo: riavvicinare i due popoli, andando oltre le beghe della politica.

    Parli molto bene l’italiano osservò Vanni.

    Mio padre è italiano, mia madre norvegese. Come figlia di una coppia mista ho goduto del vantaggio di avere meno problemi ad avvicinarmi alle lingue straniereCollabori da molto con l’UNRWA?.

    Da diversi anni. Questa gente mi è ormai entrata nel cuore. Come si fa a non indignarsi per quello che sta vivendo il popolo palestinese?.

    Tuo marito condivide la tua scelta di venire qui? chiese il giornalista con una certa sicurezza, avendo notato l’anello al dito sinistro della donna.

    Sono certa che sente la mia mancanza, ma sono altrettanto sicura che l’avrei deluso se non avessi accettato di venire. Entrambi siamo determinati a non rinchiudere la nostra relazione in un recinto, anche lui fa volontariato. E tua moglie?.

    Non ho famiglia, sono libero di spostarmi come e dove voglio.

    Dopo poco più di un quarto d’ora, Helga abbandonò la confortevole e larga arteria asfaltata per continuare su strade secondarie, alcune sterrate e sassose, sulle quali il suo fuoristrada non faceva alcuna fatica ad avanzare.

    È il modo migliore per entrare nello spirito della terra d’Israele spiegò.

    Vanni condivise la scelta e per alcuni minuti non si lasciò sfuggire alcun fotogramma di quel paesaggio severo e spirituale allo stesso tempo.

    Intuisco che l’UNRWA parteggi per i palestinesi disse, rompendo il silenzio.

    Le Nazioni Unite ritengono che nel conflitto il ruolo della vittima spetti di diritto agli arabi palestinesi.

    Ma poi non riescono a far rispettare le risoluzioni che emettono!.

    Purtroppo! Però ci rende disponibili risorse importanti per portare aiuti d’emergenza e garantire supporto scolastico e assistenza sanitaria a sessanta campi profughi palestinesi. Anche se questo ci costa l’accusa di Israele di sostenere il terrorismo.

    Tanti popoli nel mondo soffrono di ingiustizie, ma ricevono sicuramente meno aiuti dei palestinesi osservò provocatorio Vanni, con perfidia di mestiere.

    Il vero problema è nell’utilizzo degli aiuti internazionali. Questo è un buco nero della storia: non è del tutto chiaro dove vadano a finire.

    Il solito problema, pensò il giornalista: l’avidità umana che divora anche le più nobili intenzioni.

    Il direttore lo aveva spedito in quella zona del mondo, dove era stato pochissime volte, con l’obiettivo di raccontare qualcosa di originale sulla questione israelo-palestinese, più vecchia di lui e più sporca di sangue del grembiule di uno squartatore del macello comunale. Con la raccomandazione di metterci dentro gli aspetti meno conosciuti della cultura dei due popoli, attraverso testimonianze, scoop e racconti di vita personale che sempre fanno presa sul lettore.

    Corro il rischio di offenderti, ma ti ricordo di evitare il tranello di mettere i torti tutti da una parte e i meriti dall’altra, gli aveva raccomandato.

    Aveva scelto lui perché si fidava professionalmente ma soprattutto perché gli era amico e voleva distoglierlo dall’ossessione del momento: la scomparsa di Sonia, una ragazza indiana che Vanni aveva conosciuto nel periodo in cui aveva realizzato due riuscitissime inchieste sulla Somalia e sulla Sierra Leone e della quale si era follemente innamorato. Un amore corrisposto. Ma all’improvviso Sonia era scomparsa, senza preavviso e senza spiegazioni, tornata in India a seguito del padre, direttore dell’UNESCO, emarginato dall’organizzazione per il suo impegno troppo progressista. Aveva fatto l’errore di non cercarla, i mezzi certo non gli mancavano, soffocato da un orgoglio che gli aveva impedito di modificare la decisione.

    Vanni aveva accettato l’offerta di Pugliese, il direttore, senza pensarci due volte, preferendo riempire la testa di altri problemi. Nulla di meglio che immergersi in una nuova avventura. Il corrispondente da Gerusalemme era per il momento fuori gioco, rientrato in Italia per gravissimi problemi familiari.

    Prima di partire aveva però scoperto che la sua missione era duplice, non solo l’inchiesta sui rapporti fra i due popoli belligeranti, ma anche un originale supporto giornalistico al nunzio apostolico di Gerusalemme.

    Lo conosco da tempo aveva spiegato il direttore, ha sostenuto più volte la nostra attività in loco, aprendoci strade inaccessibili e garantendoci contatti importanti. È arrivato il momento di ricambiare i favori ottenuti.

    Il modo gli era chiaro solo in parte: la nunziatura era venuta a conoscenza di un’informazione che non voleva diventasse pubblica e chiedeva consigli in merito. Un vero e proprio paradosso: chiedere a un giornalista investigativo, che ha la missione di scovare informazioni, di affossarne una che, per quanto aveva capito, era di grande importanza. Ma non poteva dire di no al direttore.

    Al checkpoint riuscirono a evitare la coda, ma non il metal detector e il controllo documenti, grazie allo speciale lasciapassare di Helga.

    La continuità fra Israele e il territorio palestinese era straordinaria. Ulivi, pecore e capre da una parte, e dall’altra tende di pastori beduini di qua e di là. I cammelli che si muovevano con postura fiera e altera erano gli stessi incontrati nel territorio israeliano. Una continuità che di certo era uno dei motivi per cui quella terra era così avidamente contesa.

    Il sole impietoso di Av – il mese del calendario ebraico a cavallo fra il luglio e l’agosto di quello gregoriano – flagellava la strada e una luce accecante rimbalzava dalle case di pietra bianca.

    A Vanni bastarono pochi minuti per giungere alla conclusione che Hebron era una testimonianza dell’ingiustizia dilagante nel mondo. La città era separata da Tel Aviv non dai 67 chilometri geografici, ma da una distanza sociale che le confinava in due mondi lontanissimi e non comunicanti.

    La presenza militare israeliana era marcata e condizionante, tale da rendere la città una grande gabbia nella quale vivevano 200 mila palestinesi, 500 ebrei e 4000 soldati israeliani, otto a difesa di ogni colono ebreo! Altri 7.000 ebrei vivevano nella contigua Qiryat Arba.

    Gli ebrei considerano la città terra israeliana perché qui fu seppellita Sarah, la moglie di Abramo, e fanno di tutto perché i palestinesi decidano di sloggiare disse Helga.

    Il paesaggio era desolante: una città all’apparenza deserta, segnata dalla distruzione e sotto assedio militare. I soldati ciondolavano qua e là, portando le mitragliatrici come fossero zaini.

    Agli estremi della città vecchia, nel souk palestinese, metal detector e checkpoint sorvegliati da militari israeliani limitavano severamente l’accesso degli arabi alle zone abitate dai coloni. I checkpoint erano costituiti da cinghie chiodate stese sul manto stradale, cavalletti e parallelepipedi di cemento. Reti di ferro poste sopra i vicoli del centro storico proteggevano i negozianti dagli oggetti che gli israeliani più radicali lanciavano su di loro.

    Una città divisa, indubbiamente, ma la separazione fra le due zone non era netta, le case erano le une a ridosso delle altre e non poche strade abitate dagli uni e dagli altri. I controlli casuali ai passanti non rispondevano ad alcuna regola se non all’umore dei soldati. I bambini studiavano in scuole separate da filo spinato e crescevano a contatto con migliaia di militari. Le manifestazioni di odio e disprezzo tra i due gruppi si succedevano senza soluzione di continuità. Eppure c’erano le tombe dei grandi patriarchi e delle grandi matriarche – Abramo, Sarah, Isacco, Rebecca, Giacobbe e Lia – antenati comuni a tutte e tre le grandi religioni monoteiste.

    Il clima di paura era asfissiante e di certo il rinvenimento dei corpi di tre ragazzi israeliani assassinati, avvenuto alcuni giorni prima appena fuori città, non contribuiva a renderlo meno pesante.

    2

    L’iniziativa era stata organizzata nella sala cinematografica della città e vedeva la partecipazione dei liceali di entrambe le popolazioni. Un evento, che in altre parti del mondo avrebbe richiesto un modesto sforzo organizzativo, reso possibile solo dopo una lunga trattativa con Al Fatah e le autorità israeliane.

    La sala era piena e il clima disteso, reso ancora più normale da qualche goliardata alla quale nessun adolescente, in qualsiasi angolo del mondo, riesce a rinunciare.

    Sul palco, un tavolo con tre persone sedute, una donna e due uomini. Alle spalle degli oratori due gigantesche scritte. Dietro la palestinese «Israele è sempre esistita, esiste ed esisterà», dietro l’israeliano «La Palestina è sempre esistita, esiste ed esisterà». Alle spalle dell’uomo più anziano, che si nascondeva dietro un paio di occhiali rettangolari, fra le due scritte, un’iridata bandiera della pace.

    Fu l’uomo anziano a prendere la parola.

    Contravvenendo alle indicazioni che vi erano state date, non vi siete seduti palestinesi da una parte e israeliani dall’altra. Questa vostra indisciplina vi costa il mio più sentito ringraziamento.

    Una risata generale, accompagnata da un fragoroso applauso, seguì a quelle parole. Helga aveva gli occhi umidi e rivolse a Vanni un sorriso di sollievo come se le avessero tolto dalle spalle un peso eccessivo.

    Sono Walid Atallah dell’Università di Betlemme. Insegno storia e, in questa veste, farò un’introduzione storica impegnandomi a essere obiettivo. Anche se sono un palestinese.

    Altra risata generale. Il ghiaccio era rotto, si poteva incominciare.

    Israeliani e palestinesi sono due popoli di poco più di sette milioni di persone, con la differenza che gli israeliani risiedono per il 75% circa nello Stato di Israele e i palestinesi sono distribuiti metà fra Striscia di Gaza, Cisgiordania, Israele e metà in paesi arabi come Libano, Siria, Giordania. Come si è determinata questa situazione?.

    Il sionismo disse ha sempre proclamato la necessità di fondare uno stato completamente ebraico, rivendicando diritti sul territorio palestinese, abitato da popolazioni musulmane, druse e cristiane.

    Continuò parlando del cambiamento dello scenario geopolitico del Medio Oriente a seguito della prima guerra mondiale, della caduta del millenario Impero Ottomano, del rientro degli ebrei e dell’impegno degli inglesi di consentire la costruzione di un focolare ebraico nell’area garantendo comunque la salvaguardia dei diritti della popolazione araba.

    L’Olocausto rese l’immigrazione ebraica più imponente e ciò fece crescere a dismisura la necessità di terre e case per gli ebrei, da sottrarre naturalmente agli arabi.

    Illustrò il piano di spartizione deciso dalle Nazioni Unite all’indomani della seconda guerra mondiale e le motivazioni che avevano indotto l’Alto comitato arabo a respingerlo ritenendolo iniquo.

    "Cominciarono gli scontri armati fra le parti. Durante la guerra circa 800.000 arabi furono espulsi o comunque abbandonarono le loro abitazioni, cercando rifugio nei paesi confinanti o in altri luoghi della Palestina stessa. Tutti pensavano che l’esilio sarebbe stato temporaneo".

    Parlò dei campi profughi e del progressivo peggioramento delle condizioni di vita dei rifugiati e del crescente disagio dei paesi arabi ospitanti.

    L’assemblea generale dell’ONU appoggiò il ‘diritto al ritorno’ dei profughi in una risoluzione del dicembre ’48, ma Israele non accettò mai questo principio, ritenendolo deleterio sia dal punto di vista politico che economico.

    Parlò della guerra dei sei giorni e dell’espansione di Israele al di là dei confini stabiliti dalle Nazioni Unite, del genocidio dei palestinesi rifugiatisi in Giordania, dei tentativi di mediazione, dei massacri di Tel al-Zaatar e Sabra e Shatila, della caccia ai palestinesi in Libano, della nascita dell’Intifada, del riconoscimento di Israele da parte dell’OLP, dell’accordo di Oslo, dell’assassinio di Rabin da parte di un estremista israeliano, della strategia degli attentati suicidi attuata da Hamas.

    Tutti gli addetti ai lavori sanno benissimo che i nodi da sciogliere rimangono cinque: la divisione di Gerusalemme, la questione legata al rientro dei profughi, gli insediamenti dei coloni in terre ufficialmente destinate ai palestinesi, il riconoscimento di uno Stato palestinese autonomo e la questione meno trattata, ma su cui si arena tutto, la divisione delle risorse idriche, che oggi sono controllate per il 95% da Israele.

    concluse osservando che la situazione già incandescente rischiava di assumere proporzioni globali perché dai movimenti islamici la questione palestinese veniva ormai identificata come l’emblema dell’arroganza e arbitrarietà occidentale.

    Come venirne fuori? Lo chiediamo alla palestinese Sahida e all’israeliano Elia che, in quanto dissidenti verso l’operato dei propri rappresentanti, possono darci una visione più corretta di come i due popoli vivono questa sanguinosa e infinita guerra.

    Dopo l’applauso dei ragazzi, che avevano seguito con molta attenzione l’analitico excursus storico, il microfono venne passato alla rappresentante palestinese.

    Sahida portava il mandil, un diafano velo azzurro drappeggiato con noncuranza sulla testa, dal quale uscivano ciocche di capelli che incorniciavano i suoi penetranti occhi neri valorizzati da un sapiente uso di khol. Ricordava vagamente Cleopatra. La sua voce si rivelò melodiosa ma ferma:

    "Non siamo spie o altre cose imbarazzanti, Elia e io siamo due persone che si impegnano per costruire un dialogo fra israeliani e palestinesi, fra la gente comune intendo, che è la cosa più importante, l’unica chiave che apre la porta di una

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