Quando portavamo i calzoni alla zuava
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Book preview
Quando portavamo i calzoni alla zuava - Gino Mantellini
sogni.
Un’estate eccezionale
Non si ricordava a memoria d’uomo un’estate così torrida e soffocante. Era un caldo insopportabile, afoso, saturo di umidità. Si sudava senza fare alcun movimento. E quel caldo così opprimente durava da diversi giorni. Ogni giorno era del tutto uguale a quello precedente. Tutte le mattine, appena alzati, si scrutava l’orizzonte nella speranza di cogliere qualche segnale di cambiamento. Ma il cielo era tutti i giorni dello stesso colore azzurro chiaro, velato. Nessun alito di vento e l’aria era ferma, immobile. Per sentire un po’ di brezza bisognava alzarsi prima dell’alba, perché col sole appena all’orizzonte si sentivano i suoi raggi che già scottavano sulla pelle. Per i lavori nei campi era necessario alzarsi molto presto, appena apparivano i primi bagliori dell’alba, per fare poi una pausa nelle ore più calde, quando non era possibile fare lavori pesanti.
Il raccolto del grano
Era arrivato il momento più faticoso dell’anno. Era arrivato il tempo della mietitura. Il grano era proprio di un colore biondo-oro come se avesse avuto una cottura perfetta e le spighe erano gonfie e piene di chicchi.
I contadini erano dopo tutto molto contenti perché il raccolto sarebbe stato di certo molto abbondante ed avrebbe premiato giustamente le loro fatiche.
Occorreva dunque dare inizio presto alla mietitura per evitare che i primi chicchi maturi cominciassero a cadere sul terreno. Oramai le falci erano state controllate una ad una ed erano state arrotate per essere ben taglienti. Questo era compito di Giuseppe che provvedeva, in anticipo, a ravvivare la lama delle falci non più utilizzate dall’anno precedente. Era molto abile, Giuseppe, ad assottigliare la lama. Con una martellina batteva, con perizia, la lama su una piccola incudine che aveva prima conficcato nel terreno.
Questo lavoro era stato già seguito da alcuni giorni. Si aspettava solo la decisione di dare avvio alla mietitura ed ogni mattina Giuseppe controllava se i vicini avessero già iniziato o meno. Mariuccia ricordò che, quando si ha qualche dubbio, è bene guardare cosa fanno i propri vicini. Così si comportava sempre nonno Giacomo quand’era in vita.
Giuseppe annuì ed ammise che in effetti il padre, nella incertezza, seguiva sempre questa vecchia e saggia abitudine.
Poi confermò di avere controllato tutti i campi dal primo all’ultimo ed anche verso il confine con i vicini, proprio con i Montanari, e di avere verificato la maturità delle spighe.
Disse convinto che non era il caso di aspettare ancora. E poi se il tempo si guasta? No, disse Mariuccia, il tempo resterà bello ma, per una volta, perché guardare sempre i vicini?
La giornata volgeva al tramonto.
Il sole rosso fuoco stava per immergersi e sparire all’orizzonte. La cena era già pronta e Mariuccia cominciò a chiamare ad alta voce uno ad uno: Giuseppe, Francesco, Angela, Zaira ….
Su, disse, questa sera mangiamo un po’ prima perché domani vi aspetta una lunga e faticosa giornata.
Invitò, come faceva sempre, i nipoti a lavarsi le mani. E li pregò di lavarsi anche i piedi. Ne avevano proprio bisogno perché i ragazzi restavano tutto il giorno fuori all’aperto a piedi nudi.
L’operazione non fu tanto veloce. Alcuni si lavarono in un vecchio lavabo posto fuori dalla porta di ingresso, mentre gli altri, per non aspettare più di tanto, si lavarono mani e piedi nella grande vasca, posta proprio accanto al pozzo, che serviva anche da abbeveratoio per gli animali. Su, disse Mariuccia, fate presto perché la pasta si raffredda.
La tavola per mangiare si trovava al centro di una stanza a forma quadrata. Attorno ad essa erano poste tutte le vecchie sedie impagliate e cosi accostate da lasciare poco spazio fra di loro. Il posto a capo tavola era riservato a Giuseppe, il più anziano della famiglia. La stanza non era molto grande e restava giusto lo spazio per la madia del pane e per la credenza ove erano riposte le stoviglie e le posate.
Da un lato della stanza vi era, su una parete, un grande camino che veniva acceso quasi tutti i giorni per fare bollire il latte, per cuocere la pasta o per cuocere la carne alla griglia. E sulle altre tre pareti altrettante porte: la porta d’ingresso sul davanti, sul retro quella di accesso ad una grande cantina e sull’altro lato quella di accesso al sottoscala che fungeva da ripostiglio. Attorno alla tavola c’erano ancora due sedie vuote; mancavano Angelo e Giulio che non erano ancora rientrati perché avevano litigato per chi doveva essere il primo a lavarsi e si erano tirati addosso manciate d’acqua.
Toccò al padre Francesco andare a prelevarli dalla vasca ed a sgridarli per il ritardo.
Anch’essi si misero a tavola con i capelli ancora bagnati ed a torso nudo.
I piatti erano stati riempiti di pasta ed in ognuno era stata messa la quantità giusta per ogni età. Il piatto per gli adulti era stracolmo.
Giuseppe e Francesco dissero che le porzioni erano troppo abbondanti e poi, con questo caldo, era meglio non esagerare.
Zia Mariuccia, invece, replicò che era meglio mangiare un po’ di più per accumulare energia per i giorni seguenti.
Intanto al fuoco del camino su una grande padella in rame stavano a cuocere le patate appena raccolte dall’orto.
Quelle, disse Mariuccia, andavano mangiate calde e così furono subito distribuite sui piatti cominciando dai più grandi.
Angelo e Giulio si lamentarono che ne avevano avute poche ma lo sguardo austero del padre li fece subito ammutolire. E subito Francesco aggiunse che, se avessero avuto davvero fame, le patate si potevano mangiare col pane.
Giuseppe si lamentò che l’acqua era piuttosto calda ed allora si