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Take care
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Take care

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About this ebook

Thomas è un ragazzo spregiudicato dalla bellezza esagerata, ribelle e ingordo di vita. Trasferito per cattiva condotta da Londra in una scuola privata della periferia milanese per ordine del padre, si presenta come un extraterrestre ad una fiera di paese: lui cosciente della propria superiorità ma disorientato e gli altri, in particolare il gentil sesso, ad osservarlo a bocca aperta.
Durante il suo esilio viene affidato ad Anna, sua compagna di classe; la speranza è che lei possa aiutarlo a recuperare a scuola, ma non solo.
Anna è un giovane angelo ferito. Della vita, fino a quel momento, ha conosciuto soprattutto la durezza e la sofferenza, diventando custode di un segreto terribile che non ammette protagonismi o distrazioni. Lei è esperta di battaglie con i mostri, individua subito quello di Tom e nel silenzio di un’amicizia discreta si prende cura di lui fino a guarirlo. Lui ne rimane colpito e non vuole essere da meno, ma tentare di aiutare lei è molto più difficile.
Diversissimi i mondi di Annie e Tom, ma in egual modo agitati da sfide che valgono già una vita intera.
Ragazzi animati dalla bramosia di godere appieno di ogni momento, di accumulare esperienze senza soffermarsi troppo sulle conseguenze, dallo sballo fino ai primi veri battiti del cuore, dove a momenti di esaltazione collettiva si alternano piccoli e grandi drammi personali.
Un susseguirsi di paesaggi esilaranti e commoventi, una ricetta agrodolce per riassaporare con gusto gli anni più belli e liberi della vita. Per saperne di più, cercami su Facebook.
LanguageItaliano
PublisherElga Frigo
Release dateApr 11, 2014
ISBN9788869093692
Take care

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    Take care - Elga Frigo

    Elga Frigo

    Take care

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    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    https://writeapp.io

    Indice

    Parte Prima

    Voglia di ricominciare

    Io e la mia scuola

    Organizzarsi prima di ripartire

    Vecchie paure

    Nuove speranze

    Lascia che ti aiuti

    Parte Seconda

    Settembre

    Ottobre

    Novembre

    Dicembre

    Gennaio

    Febbraio

    Marzo

    Aprile

    Maggio

    Giugno

    Parte Terza

    In viaggio

    Nuovi divertimenti

    Nuove sfide

    Nuove decisioni

    Le ultime raccomandazioni

    Ancora in viaggio

    Take care

    Un nuovo nome

    Andare oltre

    Ad Andrea,

    con immensa gratitudine

    "Anche quando crederai d’aver perso tutto,

    in realtà ti saranno rimaste ancora tre cose:

    la fede, la speranza e …"

    … la storia comincia qui.

    Parte Prima

    Voglia di ricominciare

    Iniziava ogni anno nello stesso modo.

    Avrei dovuto saperlo e non meravigliarmi più.

    Eppure con il suo variopinto e intenso splendore riusciva sempre a sorprendermi, senza farmi mai scivolare nell’indifferenza dell’abitudine.

    *****

    Il primo segnale era nella luce; il sole rinunciava in parte alla sua vanità, richiamando a sé i suoi raggi più forti e raggiungendo il paesaggio con una nuova luminosità più gentile e soffusa. Il tramonto ci sorprendeva prima e il sopraggiungere del buio anticipava il rientro a casa dei bambini ancora assorti nei loro giochi estivi.

    L’aria diventava finalmente più fresca e il sussurro del vento diffondeva la notizia dell’imminente arrivo della nuova stagione, una sfilata di gemme preziose che solleticate dalla nuova luce generavano atmosfere uniche, ricche di colori brillanti e vivaci contrasti. Il turchese raggiungeva il cielo, mentre la madreperla si tuffava tra le nuvole, lo smeraldo impreziosiva tutte le pieghe della terra e si preparava a ricevere la visita dell’oro, dell’ambra e del rubino, che con le loro calde tonalità avrebbero tentato di mantener vivo il ricordo dell’estate.

    ‘Benvenuto autunno, è sempre un grande piacere rivederti.’

    *****

    Ci somigliamo molto io e la stagione entrante.

    Entrambe nasciamo sul finire dell’estate, in egual modo tentiamo d’interpretare il nostro tempo; un paesaggio forte e deciso, che non gradisce le sfumature, ma tenta di esibire la sua essenza più pura senza compromessi.

    Una stagione di grandi trasformazioni, costantemente agitata da un vento di cambiamento al quale obbedisce senza opporre resistenza, consapevole che solo così potrà realizzare pienamente il proprio destino.

    Il nostro temperamento non è tranquillo e la nostra anima è inquieta, entrambe siamo mosse dallo stesso desiderio matto di rivincita che ci spinge a dare sempre il meglio.

    Diverso è il palcoscenico ma uguale è la sfida e il momento in cui si compie; come l’autunno cercava la sua rivalsa sulla stagione più amata esibendo tutta la sua ambizione nel teatro della natura, allo stesso modo io sfidavo i miei limiti in quella scuola ai più sconosciuta.

    ‘Bentornato anche a te settembre.

    Eccomi, sono pronta.

    Anch’io come l’autunno ho una gran voglia di ricominciare.’

    Io e la mia scuola

    Mi chiamo Giulia e sono una professoressa.

    Non è stato sempre così. Il mio percorso professionale era iniziato in tutt’altro modo ma le circostanze della vita mi portarono poi verso nuove e inaspettate destinazioni. E anche quando la mia metamorfosi da manager a insegnante sembrava conclusa, nuove sfide si delinearono ben presto all’orizzonte; il mio ruolo ufficiale prevedeva infatti soltanto che io insegnassi ma il destino mi diede la possibilità di fare molto di più. Non desideravo altro.

    *****

    Mi laureai in economia con il massimo dei voti e una volta terminati gli studi mi gettai a capofitto nel mondo del lavoro, dove, anno dopo anno, tentai di scalarne la vetta fino a non poterne più.

    Era un amante affascinante ma egoista quel mondo; faceva promesse che non sempre manteneva, mi adulava, mi chiedeva tutto ma in cambio mi lasciava spesso sola.

    Una singola esperienza negativa non descrive tutta la realtà, ne sono consapevole; ma è altrettanto vero che racconta comunque molto di me, di cosa sono fatta, di chi ero e di chi ho scelto di diventare.

    E come in tutte le relazioni in cui a un certo punto ci si lascia, le responsabilità vanno sempre divise con ragionevolezza; forse non fu solo lui a comportarsi malamente con me ma anch’io a chiedergli più di quello che realisticamente mi poteva offrire; forse lui non peggiorò così tanto col passare degli anni ma fui in parte anch’io a cambiare senza accorgermene, fino a non riuscire più ad accettare la fatica e il silenzio come in passato.

    Magari la mia fu solo sfortuna, ma soprattutto a quei tempi non smisi mai di credere che la sorte mi stesse chiedendo di cambiare per offrirmi poi qualcosa di meglio in cambio.

    *****

    Di tutti quegli anni trascorsi in azienda ho soprattutto dei ricordi unici; in particolare, fra tutte le inclinazioni e attitudini personali che ebbi la possibilità di sperimentare, sicuramente quella con cui mi sentivo più a mio agio era l’insegnamento.

    Mi occupavo innanzitutto della formazione dei nuovi assunti che si univano al mio team già numeroso e colorato; ragazzi neolaureati che bussavano alla mia porta per imparare un mestiere o, ancor più spesso, per capire cosa volevano fare da grandi. Mi piaceva trascorrere il tempo con loro; tanti visi giovani pieni di speranza e aspettative per il futuro, l’entusiasmo e la passione che ci mettevano facevano star bene anche me. Ebbi la fortuna d’incontrare dei ragazzi veramente speciali; lavorare con il talento diventò presto un’esigenza prioritaria e irrinunciabile per la mia vita. Che cosa significasse esattamente quella parola, talento, lo capii solo molti anni più tardi.

    Poi c’era l’università, dove per diversi anni, in concomitanza con la mia mansione in azienda, mi cimentai nel ruolo di assistente. Ricordo benissimo la prima lezione da insegnante. Loro erano a centinaia e io sola con un microfono; i primi cinque minuti sono i più terribili, non ti ascoltano ma ti guardano, una radiografia del tuo corpo e della tua anima per decidere se gli piaci o no, se ti ascolteranno, ti ignoreranno oppure ti odieranno.

    E per quanto quei momenti contribuissero a far risalire la mia motivazione a restare, non furono sufficienti a trattenermi. Impiegai parecchio tempo a maturare la decisione di andarmene; la logica del riconoscimento sociale e del denaro facevano a pugni con la mia anima ogni giorno più urlante.

    Coca-Cola, caffè e analgesici per il mal di stomaco diventarono ben presto degli alleati indispensabili per la sopravvivenza; per sbollire rabbia e senso di frustrazione pensai anche di cominciare a fumare ma mio marito non me l’avrebbe mai perdonato. Dopo la nascita dei nostri figli lo avevo infatti costretto a smettere.

    La mattina le gambe e l’abitudine mi portavano in ufficio ma il mio cuore era già altrove.

    Un giorno finalmente riuscii a mettere a fuoco tutto, feci un pensiero semplice ma importante.

    Io non mi sentivo utile.

    Non c’era nient’altro da aggiungere, bisognava capire solo come agire di conseguenza. Mi riconfermai ancora una volta una donna dal temperamento risoluto, consegnando le dimissioni senza avere altre prospettive di lavoro già in mano. Dove andare dopo? Sicuramente a casa con i miei figli che mi avevano assaporato con il contagocce; per loro la mia presenza sarebbe stata certamente utile.

    E poi, chissà, forse, magari un nuovo impiego.

    Il periodo che seguì non fu facile; vivevo in un limbo, non si capiva se sarei nuovamente decollata verso esperienze professionali più stimolanti oppure se mi sarei spenta del tutto. Certo non mi sentivo una vincente, ero soprattutto stanca, provata, delusa. Un talento forse bruciato per sempre, inutile. Che peccato.

    *****

    Dopo qualche mese di meritato riposo circondata dall’affetto della mia famiglia squillò il telefono e la mia vita cambiò ancora.

    Un mio amico e compagno di università era preside, nonché professore di economia aziendale, in un istituto commerciale privato nell’hinterland di Milano; faticava a tenere entrambi i ruoli e meditava di cedere quello d’insegnante. Sapeva che ero rimasta a casa dal lavoro e mi conosceva a sufficienza per ipotizzare che quella proposta d’impiego potesse interessarmi.

    Mentalmente avevo accettato ancor prima di fare il colloquio, di conoscere lo stipendio, i locali e i colleghi.

    Il sole dopo la tempesta.

    Dopo aver evaso tutti gli adempimenti burocratico-organizzativi diventai finalmente insegnante.

    Ricordo ancora il mio primo giorno in quella scuola, tremante davanti a quel grande cancello che mi fissava, piena di sogni e aspettative andate deluse. Finalmente in abbigliamento casual style, scarpe sportive e senza maschere, solo io.

    Mi feci forza, mossi i primi passi e varcai la soglia; un mare di nuove sensazioni m’invase e mi disorientò.

    Frenesia di biciclette e scooter, chiacchiere e risate di ragazzi a toni alti, odore di sigaretta e chissà cos’altro, le corse vietate sulle scale e per i corridoi, banchi e sedie in movimento, il rumore delle cerniere degli zaini che si aprivano, delle pagine dei libri e dei quaderni appoggiati sui banchi; ancora chiacchiere, brusio, poi la campanella, poi il silenzio. Poi io.

    Ancora quei dannati primi cinque minuti da brivido.

    Ma andò bene, io gli piacqui.

    Da quel momento in poi niente fu più come prima; quella nuova vita m’investì a velocità altissima ma quella volta senza farmi male. Gliene fui immensamente grata, per sempre.

    *****

    Il caro amico che mi aiutò, conoscendo il mio passato professionale, mi consultava spesso come assistente o vice, voleva che lo aiutassi ad avvicinare il mondo della scuola a quello del lavoro. Non risposi mai di no alle sue richieste di aiuto o consiglio, qualunque cosa mi proponesse. Gli dovevo troppo.

    Essendo l’istituto privato, autogestito e autofinanziato, era tutto abbastanza semplice. Si proponeva, si votava, si decideva; una vera isola di democrazia rispetto agli inferni di potere visitati in precedenza. Quel luogo mi contagiava: cresceva la scuola, crescevo anch’io.

    Gestivo le mie classi, e l’istituto quando venivo interpellata, nell’unico modo che conoscevo, cioè come se fosse un’azienda. Principio di base: non si può insegnare con la lavagna a gessi e i quaderni di carta, mentre il resto del mondo viaggia veloce come un fulmine sul web. Quindi la scuola fu dotata dei più moderni sistemi d’insegnamento digitale, fu creata una nuova sala computer con hardware e software d’avanguardia; anche la biblioteca fu ampliata e informatizzata a dovere. Furono potenziati i corsi per l’apprendimento delle lingue straniere e, poiché di soldi non ce n’erano abbastanza, la classica gita scolastica fu sostituita con programmi di soggiorno all’estero. Mi odiarono. Convinsi anche amici manager e imprenditori a venire a trovarmi per raccontare le loro esperienze, per cercare d’ispirare quelle confuse menti acerbe. Organizzammo infine programmi di stage estivi in azienda, affinché gli studenti cominciassero a farsi un’idea di cosa fosse veramente quel tanto decantato mondo del lavoro.

    Ci fu poi l’età del proibizionismo, quella che mi fece riflettere seriamente sulla possibilità di assumere una guardia del corpo. Quelle mura dovevano essere una casa per tutti e una casa è fatta anche di regole. Addirittura il mio amico preside voleva che si respirasse aria d’azienda e quindi il numero di regole cresceva a dismisura. Sembrava una scelta ottima nelle intenzioni ma difficile da mettere in pratica.

    Quindi no a tante cose, purtroppo; no al trucco, no allo smalto, no alla minigonna, no agli shorts, no ai tacchi, no ai pantaloni a vita bassa, no agli alcolici, no al fumo dentro gli edifici scolastici. Ogni forma di sballo o evasione dalla realtà era vietata e chi trasgrediva veniva prima multato e poi costretto a lasciare la scuola. No al cappello e agli occhiali da sole in classe, no al telefono, di qualsiasi generazione, marca e modello, modalità silenzioso o vibrazione incluse, almeno durante l’orario scolastico. Limite minimo di decenza nella tenuta dei capelli, in particolare tinte fluo, creste, raste, dreads o similari, per gli studenti di entrambi i sessi. No a piercing e tatuaggi, almeno nelle parti visibili. Ogni nuova tendenza diventava spesso un nuovo divieto; sembrava che le aziende di moda lo facessero apposta a inventare nuovi look non adatti al mondo del lavoro e della scuola, che ce l’avessero con noi insegnanti.

    Era un elenco infinito di divieti che non convinceva neanche me e che purtroppo non cessava di crescere.

    ‘Bisogna vivere in positivo e non in negativo’

    era il mio vero pensiero, ma con gli studenti tutta quella filosofia non funzionava. I miei cari ragazzi erano come l’acqua viva di montagna che corre verso valle; davi loro uno spiraglio e ci s’infilavano dentro tutti insieme, a tutta velocità, senza curarsi della destinazione e delle conseguenze.

    I divieti erano talmente tanti e in continua crescita che ci fu un momento di lucida follia in cui pensammo di cambiare approccio: no a mille proibizioni, sì a una regola sola, la divisa. Sognando diabolicamente poi di obbligare gli studenti a tagliarsi a zero i capelli e a depositare altrove tutti gli accessori. Come in prigione, per non scrivere di peggio; la negazione assoluta della personalità in un mondo dove tutto è facilmente accessibile. Che paradosso.

    Le lamentele erano tante anche da parte dei signori genitori, talvolta veri maestri di vita ed educazione, in un gioco crescente di perdizione che chissà dove ci avrebbe portato. La responsabilità educativa era infatti vissuta come una patata bollentissima, costantemente in volo tra famiglia, scuola, corsi pomeridiani di sport e musica, ma anche psicologi e terapisti; una bomba che prima o poi sarebbe scoppiata nelle mani di qualcuno che sarebbe diventato il capro espiatorio delle colpe e delle mancanze di tutti.

    Per fortuna io e i miei colleghi eravamo diversi. Ci comprammo dei guanti a prova di ustione e afferrammo consapevolmente l’oggetto fumante, accettando di vivere la sfida educativa fino in fondo, da protagonisti.

    Eravamo un fronte compattissimo e convinto.

    Fantastico lavorare così.

    Tutti uniti contro lo stesso nemico, il buonismo.

    La debolezza educativa si manifestava infatti spesso così, in comportamenti molli e lascivi; dire di sì a tutto è facile, negare e spiegare perché è tutta un’altra storia, faticosa e antipatica.

    In quei momenti così difficili pensai spesso a mia madre e a mia nonna; le loro battaglie silenziose fatte di presenza e pochi mezzi mi avevano insegnato tantissimo, molto più di quell’abisso di solitudine travestito da benessere e finte buone intenzioni in cui spesso si perdevano i miei ragazzi. Sembravano aver tutto ma in realtà erano insoddisfatti; una fame inconsapevole di attenzioni li muoveva, talvolta verso destinazioni oscure. Grazie a quelle donne straordinarie a me era capitato raramente in gioventù di perdermi; sentivo quindi come mia responsabilità restituire il favore al mondo, riconsegnandogli intatti quegli antichi tesori di cui, colpevole anche la fretta dei tempi moderni, si era un po’ dimenticato. Ecco un’altra cosa in cui potevo esser utile.

    *****

    Cercammo poi di controbilanciare quell’esigenza assoluta di disciplina con degli spazi tutti per gli studenti, dove l’insegnamento e le sue odiate regole venivano messi da parte e finalmente arrivava la pausa.

    Una palestra iperattrezzata, corsi pomeridiani di vari sport, musica, lingue straniere, pittura, una sala prove con strumenti musicali a disposizione, una spaziosa mensa casalinga dove il desiderio di socialità di quei disperati veniva finalmente appagato.

    Il denaro delle iscrizioni e delle donazioni finanziava i progetti, il bilancio era sempre in utile; retaggio di un passato che mi aveva picchiato ma anche così tanto insegnato.

    Trascorsero così diversi anni, tempo in cui impegnai tutta me stessa, convinta d’esser orientata nella giusta direzione, sicura di non esser sola. I colleghi docenti mi accolsero in modo benevolo, non imposi mai la mia presenza e le mie idee con atteggiamento invadente o aggressivo.

    Volevo ricominciare da zero. Apprezzarono la mia umiltà e il mio coraggio, capirono lo scopo e, poco a poco, mi accettarono.

    Non fu facile ma fu molto bello.

    Al mio evidente desiderio di riscatto si aggregarono in molti; ‘ One wave is seldom rare’ mi disse una volta una cara amica cui chiesi consiglio in una fase di sconforto. Aveva ragione.

    I risultati cominciarono a intravedersi: gli studenti uscenti somigliavano sempre più a dei giovani uomini pronti per decollare verso il mondo del lavoro, le iscrizioni aumentavano, così come il numero di benefattori. A quarantacinque anni vedevo finalmente i miei sogni prender vita e le mie precedenti delusioni dissolversi, cominciavo a sentirmi veramente utile; come i miei studenti, anch’io avevo qualcosa da dimostrare a me stessa e al mondo.

    Il mio capo mi offrì una promozione, vice preside. Accettare il ruolo avrebbe implicato il fatto di non insegnare più, quindi rifiutai. Restare in trincea, l’aula, era il mio destino; se il talento fosse passato a farmi visita, si sarebbe certamente seduto tra i banchi. Ed io ci sarei stata. Ci saremmo trovati nuovamente faccia a faccia, ci saremmo riconosciuti, abbracciati e salutati. Aspettavo con fiducia quel momento e un giorno fui ricompensata.

    Organizzarsi prima di ripartire

    Il preside mi convocò nel suo ufficio di buon mattino, primo giorno di lavoro dopo la pausa estiva; avevamo dunque appena girato la pagina del calendario, che segnava quindi settembre.

    Bussai sulla porta aperta, mi riconobbe, il suo volto si accese e mi venne incontro a braccia aperte.

    Cara Giulia, bentornata. Come stai? mi disse baciandomi e abbracciandomi.

    Era sempre un piacere per me rivederlo; mi aveva traghettato dal limbo al paradiso, un vero amico.

    Caro Andrea, ciao. Io sto benissimo, pronta a ripartire. E Tu?

    Tornando alla sua scrivania non perse tempo:

    Bene. Scusa se ti disturbo già così presto ma ho bisogno del tuo aiuto.

    Ecco, non ero lì solo perché desiderava salutarmi, c’era dell’altro. Mi sedetti incuriosita, in attesa che riprendesse a spiegarmi.

    *****

    Il suo racconto prese il via.

    Mi spiegò che al mio team di studenti sbandati, quelli di quarta per l’esattezza, si sarebbe aggiunto un nuovo allievo proveniente da Londra. Quando me lo disse spalancai bocca e occhi; per fortuna Andrea era troppo impegnato nella sua esposizione per accorgersene.

    Il padre del ragazzo, affermato manager nel campo della moda, aveva accettato un’offerta di lavoro di un anno a Milano, per avviare una nuova azienda di haute couture. Il signor Sergio Riva era di origine italiana e si era trasferito a Londra a seguito del matrimonio con una modella inglese, Claire Green.

    Il bello venne dopo. Il rientro in Italia della famiglia Riva non era giustificato solo dalle esigenze lavorative del padre, ma anche dal fatto che il figlio stava attraversando una fase piuttosto creativa della sua adolescenza. Il sig. Riva riteneva quindi che un distacco da tutti i suoi vizi londinesi lo avrebbe aiutato a rimettersi in riga. Mi venne subito in mente una cosa e tradussi i miei pensieri in parole:

    Perché proprio la nostra scuola?

    ‘A Milano città ci sono delle ottime scuole private e per il ragazzo passare da Londra-centro a Milano-periferia dev’essere un bel trauma. Dopotutto è pur sempre un adolescente’ pensai.

    Mr. Riva è originario di questa zona e ha alcuni conoscenti che vivono nelle vicinanze; ha acquistato una villa a qualche chilometro dalla nostra scuola di cui ha sentito parlare benissimo, proprio da parte loro. Inoltre hanno dei figli più o meno della stessa età del suo e ritiene che questo dovrebbe facilitare il suo inserimento nel nuovo contesto. La loro figlia maggiore è qui da noi mi spiegò.

    Non è tutto aggiunse poi.

    ‘Povera me’ borbottai per conto mio.

    "Il figlio ha seguito le orme della madre e ha già attive diverse collaborazioni nel campo della moda e della pubblicità.

    Vista la sua giovane età, il padre ha cercato di frenare questa sua vena artistica e d’incoraggiarlo invece nella prosecuzione degli studi. Teme che il prematuro avvio di questa sua carriera possa degenerare; di qui la scelta di trasferirsi in una città importante ma comunque più tranquilla.

    Inoltre il ragazzo, vista la sua intensa vita sociale e lavorativa, ha trascurato abbastanza gli studi e solo grazie alla posizione influente del padre ha evitato di ripetere l’anno. Insomma, ha un po’ di arretrato da recuperare. Il padre mi ha spiegato che è stato lui a obbligarlo a frequentare un istituto commerciale, l’obiettivo era dargli una base scolastica concreta che gli potesse tornare sempre utile nella vita.

    Altra nota importante, il ragazzo dovrà assentarsi di tanto in tanto per partecipare a casting, servizi fotografici e cose del genere; il padre mi ha chiesto se siamo disponibili e concedergli un po’ di flessibilità in tal senso."

    Seguì una lunga pausa, durante la quale lo sguardo concentrato di Andrea tentò di decifrare la mia espressione dubbiosa.

    Tu cosa ne pensi? La verità è che vorrei affidarlo a te. La proposta che ti faccio è d’inserirlo in una delle tue classi, il tuo passato aziendale e la tua conoscenza dalla lingua inglese si sposano bene con il caso. E poi io non mi fido di nessuno come di te.

    ‘Fantastico. Un ragazzo immagine, che frequenta una scuola che non gli piace, con un rendimento scolastico scadente e che vorrebbe essere da tutt’altra parte. Mi manderà in delirio tutte le ragazze che si abbasseranno al suo livello solo per potergli stare vicino e magari scroccare qualche invito a feste modaiole private. Però almeno suo padre vuole che sappia la partita doppia e leggere un conto economico per controllarsi lo stipendio ed evitare di farsi fregare.’

    Ma ovviamente dissi tutt’altro:

    Per me va bene, devo riflettere un momento sulla modalità migliore per inserirlo ma ce la possiamo fare. Conclusione, accetto volentieri la sfida. C’è altro?

    Sì, Giulia. Il ragazzo parla bene l’Italiano, presumo lo abbia imparato dal padre. Quindi almeno in ambito linguistico non dovrebbero esserci grosse difficoltà.

    ‘Stupendo.’

    Io li ho già incontrati ieri; se sei d’accordo fisserei un nuovo incontro anche con te per la settimana prossima, in modo da definire i dettagli abbastanza velocemente.

    D’accordo, fammi sapere data e ora e mi organizzo.

    Ancora una cosa Giulia.

    ‘No, basta.’

    Suo padre è molto ricco e si è proposto per finanziare diversi progetti all’interno della scuola. Immagino tu capisca cosa intendo.

    Abbastanza.

    ‘Ai tuoi ordini capo, sarò professionale e collaborativa, ti farò fare il gran figurone che meriti e in cambio lui scucirà un sacco di soldi.’

    Ultima cosa Giulia aggiunse con sguardo beffardo.

    Dimmi Andrea, tanto non riuscirai a spaventarmi.

    Le nostre conversazioni erano tutte così, ironia e professionalità, ma sempre nel rispetto dei ruoli. Gli volevo un mondo di bene; non mi veniva naturale dirglielo, cercavo di dimostrarglielo.

    Loro sono sfacciatamente belli, il ragazzo in particolare ha colpito anche me. Preparati all’incontro si raccomandò in tono divertito.

    Fantastico, mi mancava solo quella cosa da gestire quell’anno. Ma risi di gusto anch’io, in fondo cosa mai mi poteva capitare? Illusa.

    Posso farti qualche domandina finale?

    Prego cara.

    Come si chiama questo fenomeno?

    Thomas, Thomas Riva. Mi hanno lasciato un suo curriculum, prendilo. Il ragazzo lavora da parecchi anni ed è abituato a presentarsi in modo professionale. Ha un atteggiamento maturo, alla prima impressione non sembrerebbe proprio una testa calda. Vedrai, farà lo stesso effetto anche a te.

    Bene, stasera ci do un’occhiata e mi faccio venire delle idee.

    In realtà ne avevo già avuta una ma aspettai a condividerla. Avevo parecchie altre cose da fare per cui presi il curriculum senza guardarlo, salutai Andrea e tornai di corsa alle mie incombenze di routine.

    Fino a sera inoltrata non ci pensai più.

    *****

    Dopo cena, una volta ultimate le faccende domestiche, mi sdraiai esausta sul divano; per quanto quel lavoro mi piacesse, riprendere dopo le vacanze non era affatto facile e un po’ di break ci voleva proprio.

    Aprii il fascicolo e lo lessi. Il ragazzo aveva già messo insieme una carriera brillante, come Andrea mi aveva spiegato; non c’era moltissimo di scolastico, più che altro una rassegna di tutte le sue precedenti esperienze lavorative. Ebbi conferma che frequentava una scuola commerciale nella City di cui, come già sapevo, non era particolarmente entusiasta.

    Presi il portatile e mi affidai al web per saperne di più di quella famiglia prodigio. Digitai il primo link disponibile nel suo curriculum e rimasi a bocca aperta. Andrea aveva ragione: il ragazzo era bellissimo, non soggettivamente ma oggettivamente.

    Qualcosa mi colpì e presi istintivamente la mia decisione.

    Finito, la strategia era chiara e l’obiettivo inquadrato.

    Mi affidai ai social network per farmi un’idea anche della madre e del padre e il mio stupore per certo non diminuì.

    Ero stanca e il mio cervello ormai in modalità stand-by; chiusi il portatile e mi guardai un po’ di televisione insieme alla mia chiassosa famiglia, nel frattempo pensai ad Anna.

    Lei era la soluzione, l’indomani l’avrei chiamata e ne avremmo discusso insieme.

    *****

    Come programmato, quella mattina le inviai un messaggio:

    Cara Anna, come stai?

    Riesci a passare a scuola stamattina?

    Devo chiederti un favore. Grazie!

    Nel giro di pochi minuti arrivò la sua risposta:

    Salve! Ok, arrivo per le undici

    Leggendola sorrisi, la sua rara affidabilità talvolta mi sorprendeva ancora.

    Vecchie paure

    Anna era una mia studentessa, aveva a quel tempo diciassette anni e quindi quell’anno avrebbe frequentato la classe quarta. E quella che segue è solo una piccola parte della sua storia.

    *****

    La prima volta che la vidi aveva quattordici anni, al suo primo giorno di scuola superiore.

    Era un pulcino, nei colori e nei modi; mi apparve come poco più che una bambina ma tutto in lei faceva presagire un destino di bellezza splendente.

    Fui immediatamente catturata dai suoi occhi, uno sguardo intelligente dall’espressività non comune, uno specchio fedele di tutti i pensieri e sentimenti che agitavano la sua giovane anima. Erano verdi gli occhi di Anna, ma descriverne così banalmente il colore significa non raccontare nulla né di loro né di lei; non erano addomesticati e tranquilli come due smeraldi, piuttosto selvatici e ardenti come la vegetazione mediterranea esposta all’azione del sole e del vento.

    La sua pelle era chiara, un pallore che sapeva di delicatezza, forse addirittura di fragilità.

    I suoi capelli erano lunghi e biondi, certamente naturali; spesso li castigava in una coda bassa, ma anche quando provava a metterli in gabbia loro protestavano e tentavano di scappare. Non erano lisci e non erano ricci, erano mossi, cioè ribelli, esattamente come lei.

    E i suoi lineamenti? Faccia d’angelo, un volto dal sapore dolce e gentile difficile da dimenticare, che suggeriva una personalità allegra, piena d’entusiasmo, che in quegli anni purtroppo però non riusciva a emergere in tutta la sua vitalità.

    Anche nel resto del corpo evocava armonia. Non era magra, piuttosto atletica; dai vestiti s’intravedevano i muscoli risultato della tanta attività fisica con la quale si perseguitava, senza dubbio uno dei suoi rifugi preferiti. Era poco più alta delle sue compagne e aveva una camminata aggraziata ma mai superba.

    Che raccontare di tutto il resto? Non faceva niente per apparire ma tantissimo per nascondersi. Indossava vestiti studiati per celare le sue forme, soprattutto tute da ginnastica; gliene vidi sfoggiare un’infinità, una forma di vanità mai conosciuta prima. Gli indumenti erano spesso firmati e gli abbinamenti di colore più che azzeccati; certo le disponibilità economiche non erano il suo problema, lei ne aveva decisamente altri.

    Parlava poco, all’inizio pensai fosse solo timida. Ma venne presto anche il momento delle interrogazioni in cui dovette obbligatoriamente esporsi e capii che le mie intuizioni iniziali erano giuste; era intelligentissima, si capiva da come articolava i messaggi, dai collegamenti mentali e dagli approfondimenti che faceva. Lo sguardo però era troppo spesso rivolto verso il basso, sicuramente un’area di miglioramento per il futuro.

    Ecco, il talento veniva nuovamente a farmi visita. Ci sarebbero voluti ancora tanto tempo ed esercizio per farlo affiorare ma lui stava lì e io mi sentii onorata che avesse scelto ancora me per una passeggiata fuori del paradiso.

    *****

    I rapporti con gli altri non erano affar semplice per Anna; non che non ne fosse capace, ma come nel vestire, se poteva scegliere preferiva non mostrarsi fino in fondo, fuggire piuttosto che stare.

    Per quanto riguarda i docenti, la ragazza ci sapeva fare, maturità di linguaggio e ottima educazione; con i compagni era più spontanea, conosceva un sacco di epiteti e appellativi interessanti, si comportava spesso da maschiaccio.

    Lo sport era un suo grande amico; era un turbine di ruote e capriole in palestra, impossibile tenerla ferma. Sempre protagonista delle partite di pallavolo con i compagni e nella corsa persino il sesso forte faticava a tenere il suo passo. In quella tuta informe Anna si sentiva veramente a suo agio e riusciva quindi a esprimersi al massimo della sua vivacità. Corpo e occhi erano gli strumenti di comunicazione a lei più congeniali, la

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