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Vollmilchschokolade - cioccolato al latte intero
Vollmilchschokolade - cioccolato al latte intero
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Vollmilchschokolade - cioccolato al latte intero

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About this ebook

Una notte può cambiarti la vita.
Manuela è una ragazza italiana che vive in Germania. Lavora in un night, ma ha le idee chiare e sa cosa vuole dalla vita. Una notte, però, tutto cambia, incontra prima la violenza, il dolore e la follia, e poi il grande amore. Emozioni forti che si mescolano e che la lasciano in preda alla paura. Manuela è forte e fugge per ricostruirsi una vita, ci riesce, ma quando tutto sembra di nuovo a posto, ecco che l’odio e l’amore riprendono a scuotere la sua esistenza.

Il freddo, la violenza, la paura, ma anche l'amore, la passione, e perché no?, del cioccolato dolce come il latte. Son cose della vita. Vollmilchschokolade.
LanguageItaliano
PublisherLuisa Pachera
Release dateFeb 14, 2014
ISBN9788868858278
Vollmilchschokolade - cioccolato al latte intero

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    Book preview

    Vollmilchschokolade - cioccolato al latte intero - Luisa Pachera

    figlio

    A Pforzheim

    Il freddo,

    la violenza,

    la paura,

    ma anche l’amore,

    la passione,

    e perché no?,

    del cioccolato dolce

    come il latte.

    Son cose della vita.

    Vollmilchschokolade

    PROLOGO

    Non era un lavoro difficile, lo aveva visto fare tante volte con aghi più sottili e anche più grossi, ci voleva solo un po' di pazienza e di attenzione, lui lo sapeva e cercava di fare del suo meglio, ma per quanto s’impegnasse non riusciva a far passare il filo, a farlo scorrere dall’altra parte senza che tutto rovinasse a terra. E allora ricominciava daccapo, raccoglieva i sassi, li sistemava ben bene e riprendeva a cucire tirando il filo verso di sé e in alto a piccoli strappi e con tutta la forza che aveva. Un punto, due, poi la cucitura s’allentava e ancora i sassi rotolavano a terra. Cominciava a sentire la stanchezza, gocce di sudore gli colavano dalla fronte seguendo il profilo arcuato del naso.

    L’ago sembrava trattenuto dalla spessa pelle che lui cercava di tenere stretta con le dita sporche e appiccicose, la punta passava con facilità sbucando tra i peli forti e scuri e trascinando il resto dell’ago fino all’asola dove era infilato un filo grosso e rigido quanto uno spago. Era questo il punto più difficile, lui tirava, tirava strappando ciuffi di pelo bruno che gli s’incollavano alle dita, ma l’ago era scivoloso e tornava a sfuggirgli mentre gocce salate gli scendevano lente dalla fronte, dal naso e ora anche dagli occhi.

    Solo allora alzava il dorso della mano per cercare sulla pelle del polso un punto meno sporco dove asciugarsi il viso, la manica della camicia scivolava un po' verso il basso e la testa si alzava spostandosi all’indietro per consentirgli di vedere quello che non avrebbe mai voluto vedere. Era ancora vivo.

    PARTE PRIMA

    10 - 12 novembre 1995       

    È colpa mia vero? Ti sei arrabbiata per quello che ho detto e te ne vai per questo - disse Strauss scuotendo i capelli arruffati.

    - Ma no, figurati, tu non centri niente con la mia decisione - spense il fornelletto e s’infilò un secondo maglione, era indecisa se mettersi anche il terzo e intanto lui se ne stava lì in maniche di camicia... - ormai dovresti conoscermi e sapere che non riesco a fermarmi a lungo in un posto, dopo un po' entro in paranoia e me ne devo andare. E poi te l’ho detto, questo lavoro non mi piace, due spettacoli alla settimana per quasi due mesi e sono già alla nausea, forse è una questione d’età, ho ventisette anni compiuti, troppi per questo genere di cose. - Rise calzando gli stivaletti di camoscio con l’allacciatura alta sulla caviglia.

    - Non dire così Ella, tu sei perfetta e lo sai bene, hai la musica nel sangue e ti muovi meglio di una diciottenne, ti spogli poco, è vero, ma sei imprevedibile e questo al pubblico piace, il salto all’indietro di questa sera ha strappato un applauso che non finiva più - la vide sfilare una busta dalla tasca della vestaglia e metterla nel borsone ancora aperto - guarda che se è una questione di soldi ne possiamo riparlare... - Lei sorrise scuotendo la testa.

    - Grazie, ma ormai ho deciso e me ne vado, ti manderò una cartolina col mio nuovo indirizzo - chiuse la cerniera del borsone e prese la giaccavento appesa al muro accanto alla porta.

    - Almeno fermati questa notte, è tardi e fuori fa un freddo cane, puoi dormire sul divano come sempre, magari domani ci ripensi.

    - Scordatelo - disse lei porgendogli la mano col palmo all’insù, lui trasse un sospiro e vi depose sopra alcune banconote azzurre ripiegate a metà.

    - Ripensaci, stai commettendo un errore e prima o poi te ne pentirai - disse sbuffando. Lei alzò le spalle irritata, s’aggiustò la giacca fin sopra il mento e s’infilò un berretto di lana sui capelli che le scendevano morbidi sulla schiena, poi tornò a sorridere, gli mandò un bacio con la mano, attraversò l’atrio e uscì nel piccolo cortile che fungeva da parcheggio privato del night. Lì l’aspettava un incubo, ma lei ancora non lo sapeva.

    L’impatto con l’esterno fu violento e inaspettato. L’aria era fredda e tagliava la pelle del viso, Manuela si tirò su il colletto e lo tenne chiuso con la mano. Il cielo era limpido come raramente aveva visto, raffiche di vento avevano spazzato via le nuvole e ancora spostavano le cime degli alberi che segnavano l’imbocco dell’autostrada. Erano le due di notte.

    Si girò per rientrare, la porta si era richiusa, rimase con la mano sulla maniglia di metallo finché il freddo cominciò a intorpidirle le dita, s’infilò i guanti che aveva in tasca spostandosi verso un punto più nascosto nel cortile, non sapeva cosa fare. Andare in giro da sola a quell’ora di notte e con quel gelo era una pazzia, ma tornare dentro era ancora peggio, di sicuro domani si sarebbe ritrovata a sculettare avanti e indietro come sempre.

    Fece qualche passo indeciso mentre sentiva le lacrime pungerle gli occhi. è il freddo, si disse tirando su col naso, avrei dovuto pensarci prima, chiedere in prestito la macchina di Strauss o farmi dare un passaggio da qualche suo amico, come al solito era stata troppo impulsiva.

    Due luci s’accesero poco lontano, si spensero poi tornarono ad abbagliarla, qualcuno le stava facendo dei segnali, sentì il rumore di un motore che s’avviava, Manuela rimase ferma a guardare i fari avvicinarsi, sembrava una macchina elegante, forse una Mercedes o una BMW, riusciva a vedere solo il bagliore della luna che si rifletteva sulla vernice scura del tetto. L’uomo al volante si sporse verso di lei e le aprì la portiera.

    - Vuoi un passaggio? Al momento il termometro segna meno tredici, ti conviene salire se non vuoi trasformarti in un pezzo di ghiaccio. - Lei s’abbassò cercando di guardarlo in viso, ma dentro c’era poca luce e non riusciva a distinguere i suoi lineamenti.

    Non sapeva che fare, poteva salire sull’automobile di quello sconosciuto che senz’altro non era lì per caso, oppure tornare da Strauss a testa china per chiedergli aiuto o peggio ancora poteva avviarsi a piedi sulla stradina che costeggiava l’autostrada, in fondo Amburgo non era lontana, solo quel tanto che bastava per farla morire assiderata. Sprofondò nel sedile che le veniva offerto spostando qualcosa di scuro sul quale si era seduta, un brivido le percorse la schiena quando al tatto riconobbe la sua gonnellina di scena. Subito fu presa dal panico e decise di scendere, chi era quell’uomo?, cosa voleva da lei?, fece per aprire la portiera ma l’automobile stava già uscendo dal parcheggio, così rimase dov’era e s’allacciò la cintura di sicurezza.

    - Ti porto ad Amburgo? - Manuela rispose in modo impreciso, aveva la gola chiusa dalla paura, cercava di tranquillizzarsi mettendo a fuoco le cose all’interno dell’automobile, ma non serviva a molto. L’aria era calda e leggermente speziata, il cruscotto era pieno di luci che occhieggiavano colorate e sul sedile posteriore era appoggiata una massa informe, forse un cappotto o una giacca di montone. Sembrava un uomo come tanti, non un delinquente, si disse per farsi coraggio, magari era solo di passaggio, si era fermato al Good Night per caso e non vedeva l’ora di tornare dalla moglie e dai quattro figli che l’aspettavano addormentati nei loro letti a castello di pino massiccio, sotto piumini d’oca, naturalmente. Cercava di scherzare, ma non le veniva da ridere, si spostò sul fianco tutta a ridosso della portiera, l’uomo si girò a guardarla, sorrise e le tese una cassetta da infilare nello stereo.

    - Sei fortunata, il terzo o quarto pezzo è della Fitzgerald, così ci ricrea l’atmosfera. La cameriera bionda, quella vestita da pantera, mi ha detto che sei come un ghiacciolo che si scioglie solo con questa musica, che sia vero?

    Cretina pensò Manuela, e le doveva pure mille marchi. Si girò a guardare il profilo dell’uomo al volante, non l’aveva mai visto, sembrava alto e di proporzioni normali, aveva il naso diritto e un paio di baffi sottili appoggiati al labbro superiore, un’ombra scura che gli marcava il sorriso un po' storto e lo rendeva più gelido dell’aria fredda che soffiava all’esterno.

    Erano ormai sull’autostrada che portava in città, in fondo non ci voleva molto, in venti minuti, trenta al massimo poteva essere alla Stazione Centrale. Se va tutto bene, se questo idiota non mi gioca qualche brutto scherzo, giuro che non mi spoglio più, neanche per andare a letto mi levo i vestiti.

    - Perché non ti togli il berretto e i guanti, non hai caldo? - La sua voce era roca, forse fumava troppo, parlava un tedesco fluido e corretto, almeno per quanto lei riusciva a capire, ma era straniero, ne era sicura. Forse la cosa migliore era farlo parlare, distrarlo da eventuali brutti pensieri.

    - Di dove sei?, sei tedesco? - gli chiese.

    - No, sono russo, di Novgorod, ma vivo qui ormai da anni. E tu? Mi hanno detto che sei italiana, sono tutte calde come te le donne italiane? - E rise.

    Maledetto, pensò lei, maledetto stronzo che non sei altro, se allunghi la mano te l’addento, ti strappo i tendini e li butto dal finestrino, ti faccio ululare come un lupo della steppa siberiana, così te la ricreo io l’atmosfera.

    - Ecco la Fitzgerald - disse soddisfatto imboccando l’entrata di un parcheggio - e guarda che bel posticino ho trovato per fare due chiacchiere. - Lei conosceva quella canzone, You tourned the tables on me era una delle sue preferite, non quella sera però.

    - Senti, io sono stanca ed è già molto tardi, portami in città, magari ci vediamo domani, andiamo a cena da qualche parte o facciamo due salti in discoteca. - La sua voce era normale, ma dentro era in preda al panico, si sentiva accaldata, aveva voglia di levarsi il berretto e la giacca, ma non l’avrebbe fatto per niente al mondo, contava di salvarsi con la fuga e fuori faceva un freddo terribile. L’autostrada era proprio alle loro spalle, con un po' di fortuna avrebbe potuto raggiungerla di corsa e fermare qualcuno diretto in città.

    - Scordatelo, domani a quest’ora sarò lontano - disse lui parcheggiando a lisca di pesce. Manuela trattenne un gesto di disappunto, da quella posizione era più difficile scappare, la strada era dall’altra parte e per raggiungerla avrebbe dovuto girare attorno alla macchina passando sul davanti, oppure correre nella direzione opposta, verso il punto lontano, troppo lontano, da cui erano arrivati. Forse la cosa migliore era fuggire verso il bosco che costeggiava il parcheggio, era buio e faceva paura, ma poco prima aveva visto delle luci e magari dietro a quegli alberi si nascondeva una casa, forse un paese. Sentì un clic metallico, leggero come un soffio eppure forte abbastanza da ghiacciarle il sangue. Provò di nuovo freddo e in un lampo di follia pensò che in quell’auto c’erano troppi sbalzi di temperatura per i suoi gusti, se continuava così correva il rischio d’ammalarsi. Scosse la testa per ritornare lucida, se voleva uscire viva da quell’incubo doveva mantenersi calma e giocare d’astuzia, assecondare quel pazzo e soprattutto non irritarlo.

    - Hai visto che luna? - disse slacciandosi la cintura di sicurezza e guardando fuori dal finestrino - Ma sì, in fondo hai fatto bene a fermarti, ci rilassiamo un attimo e poi ognuno se ne va per la sua strada, tu in Russia e io in Italia - doveva tranquillizzarlo, fargli credere che ci stava, si spostò verso di lui e gli accarezzò lentamente la nuca.

    - Io non ho detto che vado in Russia e comunque questi non sono affari tuoi.

    Manuela finse una risata leggera, si girò verso di lui piegandosi in avanti fino a scorgere un grosso coltello a serramanico poggiato sul sedile lungo la sua coscia. Per un momento si sentì mancare, trattenne il respiro sforzandosi di rimanere calma, poi lentamente si spostò in avanti per cercare la sua bocca sotto i baffi ispidi che le graffiavano la pelle, ormai sapeva cosa doveva fare, le faceva schifo, ma l’avrebbe fatto.

    Con la punta della lingua gli carezzò le labbra, poi si ritrasse, gli sorrise e lo baciò di nuovo. Il suo alito era caldo e sapeva di menta, spostò la mano sulla sua coscia come per arrivare all’inguine, con la punta delle dita tastò invece il bordo del sedile alla ricerca del coltello, non lo trovò, forse era caduto, o forse ce l’aveva in mano... Manuela avrebbe voluto gridare, chiedere aiuto, ma in giro non c’era nessuno, così quando sentì qualcosa di metallico sfregare contro la sua giacca, fece una risatina stupida, cambiò posizione e s’allontanò appoggiandosi di fianco al volante.

    - Ha ragione la tua amica cameriera, senza la Fitzgerald io non valgo niente, rimetti il pezzo dall’inizio e vedrai che ti faccio morire - gli sussurrò nell’orecchio mordicchiandogli il lobo, poi si spostò per permettergli di raggiungere lo stereo - io intanto scendo a fare pipì, mi scappa da un’ora. - Vide il dubbio incupirgli gli occhi, doveva andar piano, molto piano. - No, non ho voglia di uscire con questo freddo..., forse è meglio che mi riporti a casa, vieni un attimo su da me, ti bevi una buona birra mentre io vado in bagno e poi..., poi magari ci rimettiamo ad ascoltare la Fitzgerald, che ne dici? - Lui se ne stava zitto e questo la preoccupava, non sapeva leggere niente nel suo silenzio. - O se proprio non ti va fermiamoci qui, prima però fammi scendere, altrimenti ... - rise lasciando la frase in sospeso, gli carezzò la testa con le mani e lo baciò di nuovo. Provava un profondo senso di nausea, la saliva scorreva veloce nella sua bocca, il sapore della menta si mescolava a quello del whiskey che aveva bevuto prima dello spettacolo e che le era tornato in gola con un conato silenzioso di vomito. Sentì una mano slacciarle i pantaloni, infilarsi sotto le sue mutandine, afferrarle i peli del pube e tirarli con violenza, gli occhi le si riempirono di lacrime mentre un dito cercava di forzarle la vulva.

    - Ma sei matto? - reagì Manuela con forza senza però riuscire ad allontanarsi - vuoi che ci divertiamo o cosa?, dai smettila, te l’ho detto che mi scappa... - fece per scostarsi e aprire la portiera, ma subito si fermò sentendo la lama del coltello carezzarle piatta il viso, questo mi vuole morta, pensò, non mi lascerà mai andare via. Una fitta lancinante le fece aprire la bocca in cerca di aria, qualcosa di tagliente l’aveva ferita nella vagina, di certo un’unghia lunga sporca e schifosa, ancora una volta lacrime silenziose le salirono agli occhi mentre la rabbia prendeva il posto della paura, stai bene attento maledetto, se non mi uccidi tu, lo faccio io.

    - Non cercare di fregarmi carina - disse il russo togliendo la mano dai suoi pantaloni ed estraendo una pistola da sotto il sedile - vedi questa?, è la mia migliore amica, è veloce e precisa e ci mette un attimo a farti secca se appena tenti di far la furba, ma con una cagna come te non credo proprio che servirà, ho la mano tutta bagnata, ci ho messo poco a eccitarti - rise facendole segno con la pistola di scendere.

    - Sei stato un campione, non tutti ci riescono con me - disse Manuela aprendo senza fretta la portiera, e adesso cosa poteva fare? - dammi un minuto e poi vedrai come ci divertiamo.

    Era in piedi a fianco della macchina quando lo sentì spostarsi per scendere dalla sua parte. Si girò e vide sporgere la sua testa, d’istinto prese la portiera con le due mani e la chiuse con tutta la forza che aveva. Sentì un rumore strano, come di qualcosa che si spezzava, gli ho rotto la faccia, pensò Manuela con stupore ed era già lontana, oltre le panchine in mezzo al bosco.

    Dalla macchina si sentivano giungere imprecazioni, o forse erano più vicine, appena dietro di lei, sapeva che la stava inseguendo, ma non avrebbe controllato, riusciva solo a correre davanti a sé come seguendo un filo diritto e invisibile. Non era molto in forma, da anni aveva smesso di frequentare le palestre, ma era agile e i suoi muscoli rispondevano ancora bene nonostante l’impaccio che le veniva dal doversi con una mano tener su i pantaloni e con l’altra proteggere il viso dalle sferzate dei rami.

    Il buio era fitto, gli alberi nascondevano la luna che pure fino a poco prima splendeva nel cielo. Il rumore dietro di lei si era fatto più vicino, ora le pareva addirittura di sentire il gorgoglio folle di una risata. Cercò di correre più in fretta, quello era pazzo, aveva un coltello e una pistola, la voleva uccidere e rideva pure.

    D’un tratto il bosco finì e si trovò all’aperto in mezzo a un prato che scendeva ripido verso un torrente. Manuela continuò a correre, ma senza la protezione degli alberi si sentiva esposta, vulnerabile, ora non udiva più il rumore di prima, il prato attutiva i suoi passi trasformando la pace della notte in un silenzio inquietante. Raggiunse le pietre splendenti di luce che formavano il letto del fiume, l’acqua scorreva al centro creando anse che si allargavano in piccoli laghi. Sapeva che era sbagliato seguirne il corso, avrebbe dovuto attraversarlo e correre dall’altra parte in cerca delle case di cui aveva intravisto il bagliore, ma aveva paura delle insidie nascoste in quell’acqua gelida e non sapeva decidersi, così continuava a correre nella scia luminosa dei sassi bianchi come una farfalla accecata dalla luce. Ormai era vicino, sentiva il suo respiro e la sua risata limpida, priva di alcun segno di stanchezza, poi avvertì un sibilo e qualcosa che le passava accanto spostando l’aria.

    - Fermati o questa volta prendo la mira. - Manuela ubbidì e si lasciò cadere esausta sulle ginocchia, gli stivaletti l’avevano aiutata a correre sui sassi, ma le gambe non la reggevano più. Non sentiva paura, solo un dolore sordo al petto che la faceva respirare piano, trattenendo l’affanno causato dalla corsa. Un infarto, se mi viene un infarto lo frego un’altra volta, pensò mentre si copriva il viso con le mani e cominciava a ridere scossa da singhiozzi nervosi che le facevano lacrimare gli occhi. Doveva smetterla, e in fretta anche, quello non era il momento di lasciarsi andare a crisi isteriche, ma era difficile e riuscì a farlo solo quando alzando gli occhi se lo trovò davanti in piena luce e con la pistola puntata. Dapprima notò unicamente le sue scarpe eleganti con la fibbia di metallo, lucide come se le avesse appena calzate, poi i pantaloni che gli cadevano morbidi sulle caviglie e la giacca scura con il bavero rialzato che si apriva sul candore della camicia, quando arrivò al volto imbrattato di sangue si sentì mancare, gli aveva rotto il naso e gliel’avrebbe fatta pagare, ne era sicura.

    - Alzati puttana, si torna alla macchina, cammina avanti senza fare scherzi - la voce era tagliente, diversa da poco prima - ci metto un attimo a ucciderti, lo avrai capito, ma sarebbe un peccato, non ho ancora cominciato a divertirmi con te - le fece cenno di avviarsi, con la mano sinistra si teneva il braccio destro e le spalle erano strette e rialzate verso il collo. Ha freddo, pensò Manuela mentre un filo di speranza tornava a scaldarle il cuore, ha lasciato il cappotto in macchina ed è vestito troppo leggero, con il freddo si ragiona male e ci si muove anche male.

    Il percorso era insidioso, prima nella foga della corsa non se n’era accorta, ma chiazze di ghiaccio s’allargavano tra un sasso e l’altro rendendo scivoloso il cammino. Manuela procedeva lentamente appoggiando i piedi piano, fingeva instabilità e perdeva volutamente l’equilibrio sui massi chiari e sdrucciolevoli, rallentando così la marcia. Sperava che il freddo intorpidisse i riflessi dell’uomo che le stava dietro e che ora sentiva battere i denti, aveva addosso solo la giacca, non portava i guanti e teneva in mano una pistola di metallo, non poteva star bene.

    Doveva fare qualcosa, attaccarlo prima di arrivare alla macchina, là c’era il caldo per lui e la morte per lei. Provò a mettere alla prova i suoi riflessi, scivolò imprecando a mezza voce contro i sassi viscidi, poi riprese l’equilibrio.

    - Sta’ dritta e cammina - il tono era brusco e cattivo, però non aveva sparato.

    Più avanti vide un grosso masso con qualcosa di lungo e scuro appoggiato sopra, era un bastone, quasi una pertica che sporgeva in alto portandosi ad altezza d’uomo. Se il lato nascosto è piantato nel terreno sono finita, pensò Manuela spostandosi per coprirne la vista con il corpo, ma lo sono anche se è marcio o se è troppo corto o troppo lungo e pesante.

    Finse ancora una volta di perdere l’equilibrio borbottando qualcosa in italiano per farsi coraggio, allargò le braccia portandole poi in avanti, le sue mani si chiusero come una morsa sul bastone, era solido e molto pesante, ma riuscì ad alzarlo e a ruotarlo con tutto il suo corpo verso destra. Sentì un sibilo poi un altro e qualcosa la colpì sul fianco mentre la corsa della pertica finiva contro un corpo solido e duro. Devo aver colpito un tronco, un maledetto albero cresciuto tra i sassi in mezzo al fiume e adesso quello mi ammazza, si disse mentre il bastone le sfuggiva di mano e rimbalzava a terra. Aveva la vista annebbiata e le sembrava di essere di nuovo nel bosco al buio, sentiva un ronzio forte nelle orecchie e il sangue pulsarle con violenza in testa.

    Perché non spara?, che aspetta? Non riusciva a muoversi, vedeva come in un film muto i suoi piedi spostarsi prima piano, poi sempre più in fretta fino a correre lontano, ma era ferma come trattenuta a terra da una forza estranea. Scosse la testa e respirò a fondo mentre lentamente i sassi bianchi del fiume tornavano a fuoco. Fu allora che lo vide.

    Era sdraiato a terra in una strana posizione, quasi fosse seduto su un triclinio romano con la testa e le spalle appoggiate a un masso più alto degli altri, teneva le gambe leggermente allargate, il braccio destro seguiva la linea del corpo mentre l’altro era aperto fino a immergere la mano nell’acqua fredda del fiume. La pistola era ai suoi piedi, Manuela piegò le ginocchia e la raccolse, era fredda e pesante, più lunga di quanto ricordava, un brivido le percorse la schiena notando il corto tubo di metallo che ne prolungava la canna. Si piegò in avanti scossa da conati di vomito che le portarono in bocca un sapore acido e disgustoso, ma chi era quell’uomo?, solo un mafioso, un killer di professione viaggiava con un silenziatore in tasca. Sentiva la testa pulsarle con forza e uno strano formicolio diffondersi sulla nuca, non voleva svenire, forse era ancora vivo e stava aspettando il momento giusto per saltarle addosso, aprì la bocca e trasse un respiro profondo, l’aria fredda la fece tossire e riprendere pienamente coscienza.

    L’uomo era ancora fermo nella posizione di prima, non era un trucco e non si sarebbe alzato, quelle dita immerse nell’acqua riuscivano a tranquillizzarla, era morto.

    Era la seconda volta che Manuela si scontrava con la morte. Anni prima erano venuti a cercarla all’Università, stava seguendo una lezione di diritto che non le piaceva per niente e fu contenta quando una ragazza del suo corso le fece cenno di uscire nell’atrio. Fuori l’attendevano due carabinieri.

    I suoi genitori giacevano in letti separati nella cella mortuaria dell’Ospedale Civile di Rovereto, non riusciva a credere che fossero morti, dovevano incontrarsi alle sei in via Verdi a Trento, proprio di fronte all’Ufficio IVA e fermarsi a cena in città, cosa facevano in quel posto freddo e spaventoso? Per mesi si era rifiutata di percorrere la statale del Brennero nel tratto in cui era avvenuto l’incidente, poco prima di Lizzana, là dove una fabbrica spandeva nell’aria un acuto odore di muffa, prendeva l’autostrada anche solo per pochi chilometri, era più forte di lei.

    Questa volta Manuela non provò dolore di fronte alla morte, solo un gelido intontimento privo di emozioni. S’avvicinò con cautela tenendo la pistola con le mani guantate davanti a sé, colpì l’uomo con un piede, poi si fece forza e spinse fino a che la testa scivolò di lato lasciando sul sasso una striscia scura di sangue. è morto, pensò, non mi farà più male, abbassò le mani e si sedette sul masso su cui prima era appoggiata la pertica che l’aveva salvata. E ora cosa sarebbe successo? Manuela cominciò a immaginare il seguito della sua storia, le capitava spesso di estraniarsi dal mondo per seguire i fotogrammi di un film che solo lei poteva vedere.

    La macchina della polizia s’avvicinava lampeggiando, o forse erano due o tre le auto bianche con le larghe strisce verdi orizzontali, ne scendevano degli uomini, tanti, tutti con pistola e torcia elettrica in mano. Non si sentiva alcun rumore, mai nei suoi film mentali appariva il sonoro, ma lei immaginava bene lo scalpiccio dei passi minacciosi e il tintinnio metallico che li accompagnava. I poliziotti procedevano allineati, sembravano degli automi che guardavano tutti nella stessa direzione, verso di lei, l’assassina.

    Manuela scosse la testa per allontanare la scena e la paura che per un attimo s’era acquietata, tornò a serpeggiarle nelle vene, sapeva che i suoi guai non erano ancora finiti, che c’era del vero in quello che aveva appena immaginato e che non sarebbe stato facile spiegare cosa ci facesse in piena notte sul greto di un fiume con un morto tra i piedi. Cercò di tranquillizzarsi, ai poliziotti avrebbe raccontato quello che le era successo nei minimi particolari, non avrebbe tralasciato niente e forse le avrebbero creduto, in fondo non tutto era contro di lei, c’erano il coltello e la pistola, la paura di subire violenza, di essere seviziata e uccisa... Ma non era così semplice, in un attimo le tornarono in mente mille storie di donne che pur avendo ancora addosso i segni dolorosi dello stupro, venivano trattate come poco di buono, più colpevoli dei loro stessi aguzzini..., e lei lavorava in un night, ballava e si spogliava, aveva accettato un passaggio da uno sconosciuto, era straniera... C’era qualcosa di peggio?

    Ora il gelo era penetrato anche dentro di lei, batteva i denti mentre s’allacciava con fatica i pantaloni e prendeva la strada del bosco, doveva tornare sull’autostrada e chiedere un passaggio..., un altro passaggio, un altro russo, un altro stupro...

    Manuela prese a correre e continuò a farlo anche quando entrò nel fitto del bosco e cominciò a vedere i fari delle macchine ormai vicine. Adesso aveva le idee più chiare, doveva ritrovare l’automobile nel parcheggio, riprendersi le sue cose e andarsene. Ormai mancava poco all’alba, avrebbe camminato costeggiando l’autostrada tenendosi nascosta tra gli alberi e poi avrebbe chiesto un passaggio, alla luce del sole però, di avventure notturne ne aveva avute abbastanza.

    Ora l’autostrada le era proprio davanti, controllò che non passassero macchine poi si sporse per vedere dov’era il parcheggio, nessun cartello ne segnalava la posizione. Sentiva un formicolio strano ai genitali, si ricordò di sua madre che la mandava in bagno subito dopo un brutto spavento, così si slacciò i pantaloni e s’accucciò tra gli arbusti secchi e l’erba bruciata dal gelo. Le sembrava strano di non aver paura degli animali che potevano essere lì attorno, lei, la fifona che strillava se un topo, un ragno e persino una lucertola le passavano vicino, che bastava il ronzio sordo di un calabrone per farle fare gesti scomposti di cui poi si vergognava.

    Le prime gocce di pipì la fecero trasalire, un bruciore acuto la colse di sorpresa strappandole un gemito, si guardò le mutandine sporche di sangue rappreso, ecco i segni della mia eccitazione, pensò mentre stringeva i denti aspettando che il dolore s’allargasse attenuandosi fino a sparire, poi s’alzò, si rimise in ordine, riprese la pistola in mano e s’avviò verso sinistra.

    Camminava con passi lenti e regolari, pensava di proseguire per qualche minuto, se non avesse incontrato il parcheggio sarebbe tornata indietro, con tutto quel correre aveva perso il senso dell’orientamento. Fu fortunata, pochi metri e si ritrovò nella piazzola buia tra bidoni delle immondizie e panchine di metallo, l’automobile era dove l’aveva lasciata.

    Manuela s’avvicinò con cautela tenendo la pistola a braccia tese come aveva visto fare nei telefilm americani, temeva di veder spuntare da qualche parte il volto imbrattato di sangue del russo, così respirava piano per poter percepire anche il più lieve rumore che c’era nell’aria. Fece un ampio giro attorno all’automobile, aspettò ancora un poco, poi si fece coraggio e s’avvicinò per aprirla. Non ci riuscì, tutte le portiere erano chiuse, anche quella del portabagagli.

    Ma come ha fatto?, si chiese incredula, aveva il naso rotto e io ero già in mezzo al bosco... Le tornò il dubbio che fosse ancora vivo, che fosse tornato per chiudere la macchina e se ne stesse nascosto pronto ad aggredirla di nuovo. Fu solo un attimo, poi rivide la sua mano immersa nell’acqua gelida del fiume e capì che non era possibile, che doveva aver usato un telecomando mentre la rincorreva... e intanto metteva il silenziatore alla pistola... e rideva eccitato...

    E adesso che poteva fare? Non voleva lasciare i suoi documenti nella macchina di un morto, tanto valeva mettersi nelle mani della polizia. Poteva rompere il vetro con un sasso o scassinare la serratura con una forcina, che comunque non aveva, ma temeva di far scattare l’antifurto, il rumore avrebbe attirato l’attenzione di chiunque fosse stato nei paraggi. Era confusa e le sembrava non ci fosse nient’altro da fare se non tornare a prendersi la chiave di quella maledetta macchina.

    Le pareva di vivere in un incubo, una storia orribile e grottesca che la riportava sempre sui suoi passi, su un percorso di paura che prima o poi l’avrebbe fatta impazzire. Il bosco, il prato, il fiume..., pensava di non farcela ad arrivare al bagliore di quei sassi vicino all’acqua, invece in un attimo era di nuovo lì. Si fermò per segnare la direzione da cui era venuta, poi riprese a camminare tenendosi lontana da quella luce che poco prima l’aveva ammaliata. Sentiva i suoi piedi spezzare gli arbusti del prato, incrinare il ghiaccio delle pozzanghere, anche il suo respiro era assordante nel silenzio che le stava attorno. Quando alzò gli occhi vide in lontananza una massa scura rompere il bianco dei sassi, era arrivata.

    Si fermò con il cuore in tumulto, tutto era come l’aveva lasciato, prese coraggio e s’asciugò le lacrime mentre s’avvicinava con passo più saldo e sicuro. Era proprio morto, gli occhi erano aperti e la mano gli penzolava inerte nell’acqua gelida, niente avrebbe riportato il calore della vita in quelle dita che le avevano lacerato la carne.

    Ora era contenta di essere tornata, di averlo rivisto con gli occhi non appannati dalla paura, gli si inginocchiò accanto, ancora tenendo la pistola puntata lo strattonò per la manica, una volta, due, niente, solo allora appoggiò l’arma su un sasso e si levò un guanto per cercargli sul collo qualche segno di vita. Non ne trovò, così prese a svuotargli le tasche della giacca evitando accuratamente di fermare lo sguardo sui suoi occhi bianchi come il latte.

    Trovò il coltello ora chiuso con la lama ripiegata nella fessura, un portafoglio gonfio, un fazzoletto e, finalmente, il mazzo di chiavi. Nelle tasche dei pantaloni invece non c’era niente, neanche in quelle posteriori che Manuela riuscì a tastare infilando la mano sotto il suo corpo. Raccolse tutto nel fazzoletto aperto, lo ripiegò e se lo mise in tasca, più ci mettevano a identificarlo e meglio era. Si guardò attorno ma non c’era nient’altro, riprese in mano la pistola e ritornò sui suoi passi sempre tenendosi lontana dalla luce abbagliante dei sassi. In pochi minuti fu al segnale lasciato sul prato, risalì il pendio e attraversò il bosco, sperava fosse l’ultima volta.

    L’automobile c’era ancora, ma poco distante era parcheggiato un furgone Volkswagen con il motore acceso, dentro c’era qualcuno che s’infilava la giacca. Forse se ne va, scende, si sgranchisce le gambe e riparte subito, pregava Manuela nascosta tra gli alberi. Neanche l’avesse sentita l’uomo aprì la portiera e scese, si mise davanti al suo veicolo e pisciò verso il tronco di un albero lontano, poi si rialzò la cerniera flettendo le gambe, si guardò attorno e s’avvicinò alla Mercedes, dentro sembrava non ci fosse nessuno, si piegò sul finestrino facendosi schermo con la mano, cambiò lato e controllò ancora una volta, poi cercò di aprire la portiera.

    Manuela fremeva d’impazienza, raccolse un sasso e lo scagliò lontano, l’uomo reagì al rumore di scatto, si tirò su, affrettò il passo e saltò sul furgone aperto allontanandosi in un lampo.

    Lei attese qualche minuto, poi s’avvicinò, puntò la chiave tastandola con le dita per trovare un pulsante o qualcosa di simile, continuò finché sentì un beep e il rumore delle serrature che si sbloccavano, allora con un’ultima corsa aprì la portiera e salì in macchina. Si trovò seduta dietro al volante, il suo borsone era poco lontano, bastava raccoglierlo e andarsene, invece inserì nel cruscotto la chiave più grossa e la ruotò. Il motore s’avviò subito con un rombo regolare, è una Mercedes nuova di zecca, pensò intontita guardandosi attorno, una meraviglia.

    Si sentiva stanca morta, guardò l’orologio sul cruscotto, segnava le 3 e 52, neanche due ore di incubo e le sembrava fosse trascorsa una vita intera, appoggiò la fronte al volante, ma subito si tirò su, non poteva lasciarsi andare, non era ancora finita. Resisti ancora un’ora, sessanta minuti di lucidità e poi puoi anche svenire, si disse ingranando la marcia e alzando il piede dalla frizione. Con sollievo sentì l’automobile muoversi, lasciare il parcheggio ed entrare in autostrada. Qui aumentò la velocità, non molto però, non voleva correre il rischio di essere fermata dalla polizia sulla macchina di un delinquente e magari con la patente scaduta, era anni che non la controllava.

    Un cartello stradale azzurro indicava la prossima uscita, Schnelsen, a nove chilometri di distanza, coraggio, si disse, fra poco puoi anche crollare stecchita.

    È vero comunque che è vuota ‘sta città di merda, in giro non c’è più nessuno, solo turisti che ti rubano l’aria di bocca, che cercano balconi o case da fotografare con una frenesia a dir poco sospetta, mi chiedono dove viveva Giulietta e io li porto in una corte scura di via della Stella e indico un palazzo anonimo e senza storia, è quella la sua vera casa, dico, via Cappello è solo un bluff organizzato alle spalle degli inglesi che cercano qui le flebili tracce della loro cultura, oh Romeo, Romeo... Loro ci credono e fotografano e ringraziano e sono felici e... Poco alla volta ho creato un percorso alternativo per decentrare il traffico turistico scaligero, ma non mi aspetto i ringraziamenti del Comune.

    Me ne sto seduto

    sotto una pianta scura

    che copre e mi protegge

    come un ombrello dalla chioma verde.

    e intanto cade la pioggia e bagna

    i sentieri di acqua

    che corrono sotto i ponti

    di questa città annoiata.

    Non so perché lo fa,

    fosse per me non ci sarebbe

    né lei né il ponte,

    nastro rosso

    che unisce le mie strade.

    Non mi sembra molto chiara, è da rivedere, rivedere, rivedere, è un po' meglio di prima ma ancora una volta mediocre.

    Ho fatto un bel giro fin oltre San Fermo, ho camminato per due ore, poi si è messo a piovere e son dovuto scappare in un caffè, neanche una pianta ho trovato che mi potesse proteggere.

    Mi chiedo dove siano finiti gli alberi a Verona, nei miei ricordi ce ne sono dappertutto, interi viali oscurati dall’ombra dei tigli, Dio che profumo, e poi tanti piccoli giardini fitti e scuri, non mi stupirei che qualcuno ne avesse fatto legna da ardere, un albero ogni tanto chi vuoi che se ne accorga?

    Comunque, a parte qualche piccola macchia verde, tre piante e due panchine o viceversa, e naturalmente qui tra noi privilegiati delle Torricelle, ora in città trovi solo asfalto, macchine e botteghe, botteghe e ancora botteghe.

    Bruciare un negozio al giorno, questo potrebbe essere lo scopo primario della mia vita, potrei cominciare con gli United Colors di via Mazzini e via Cappello, continuare con le Fendi, i Trussardi, gli Armani e via di seguito. Naturalmente brucerei tutto, commessi compresi, altrimenti quelli si riciclano e dalle ceneri di un Benetton tirano fuori due Stephanel e un Prenatal. Poi

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