Altro che primavere: Arabia, un mondo senza ordine
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Book preview
Altro che primavere - Giulio Sapelli
Anno 2013
© goWare per l’edizione digitale
ISBN 978-88-6797-040-7
Redazione: Mariarosa Brizzi
Copertina: Lorenzo Puliti
Sviluppo ePub: Elisa Baglioni
Soundtracker: Stefano Cipriani
Ricerca iconografica: John Akwood e Patrizia Ghilardi
goWare è una startup fiorentina
Fateci avere i vostri commenti a: info@goware-apps.it. Blogger e giornalisti possono richiedere una copia saggio a Maria Ranieri: mari@goware-apps.com.
Made in Florence on a Mac
L’editore è a disposizione degli aventi diritto con i quali non gli è stato possibile comunicare, nonché per eventuali involontarie omissioni o inesattezze nella citazione delle fonti dei brani riprodotti nel presente volume.
Video: Arabian Knights (feat. Lauryn Hill), Rebel; Omar Offendum, The Narcicyst, Freeway, Amir Sulaiman & Ayah, #Jan25; Stefano Savona, Tahrir LIberation Square [Francia/Italia, 2011]; WikiSham #1; El Général, The Voice of Tunisia; Filippo Del Bubba, Alessandro Doranti, Tunisia. Frammenti di una rivoluzione - #1 Wassim [Italia, 2012]; Imen Ben Mlouka, Confessiones tunisiennes [Tunisia, 2011]; Dani Abo Louh, Mohamad Omran, Conte de printemps [Francia, 2011]; Elyes Baccar, Rouge Parole [Svizzera/Tunisia, 2011]; Rafik Omrani, Le mur [Tunisia, 2011]
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Arabian Knights (feat. Lauryn Hill), Rebel
Gli Arabian Knights, gruppo egiziano attivo dal 2006 e già conosciuto da chi si interessa al panorama hip hop arabo, nei primi giorni della rivoluzione a piazza Tahrir hanno pubblicato ben due canzoni, Not your prisoner e Rebel, in linea con la situazione politica che si stava vivendo. I temi affrontati erano quelli della necessità di liberarsi di un regime opprimente (nelle manifestazioni c’era chi portava cartelli con sopra disegnato il volto di Mubarak modificato per assomigliare a quello di Hitler) e di riprendersi il proprio Paese e la libertà di poterne scegliere il futuro.
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Gli stormi di primavera
L’ondata di mobilitazione collettiva che ha investito l’Africa settentrionale [vedi Carta dell’Africa settentrionale e sahariana] è stata come uno stormo di uccelli immenso che giunge a coprire il cielo. Da lontano la compattezza ci colpisce e ci opprime: sembra il cielo grigio dei quadri di Constant Permeke [vedi Figura 1 – Constant Permenke, Una fattoria nella campagna fiamminga e Figura 2 – Constant Permenke, Jabbeke in estate].
Ma appena osserviamo più da vicino lo stormo, la prospettiva muta. La compattezza si trasforma nelle scaglie di un frattale complesso e continuamente asimmetrico. Mi spiego: la ragione di ciò deriva dal fatto che l’Africa del Nord è uno dei mondi vitali più diversificati del globo con faglie evidentissime se guardiamo sin da subito alla dimensione statuale. Essa è presente nella maggioranza delle aree interessate dalle rivolte, ma con diseguale intensità e articolate configurazioni istituzionali.
Tuttavia gli eventi egiziani e tunisini hanno dimostrato che lo Stato s’è configurato e la sua esistenza non dipende dalla persona fisica che detiene il potere. La scomparsa fisica o simbolica (la cacciata dal potere) dell’autocrate o dittatore che definir si voglia, non collima con la morte dell’istituzione: essa si riproduce. Per la continuità degli affari questo è essenziale.
L’Africa del Nord è uno dei mondi vitali più diversificati del globo dove l’esercito che garantisce tale continuità.
Ovunque è l’esercito che garantisce tale continuità. Ma con due varianti. Ecco le armate nella loro cultura post-coloniale panarabista: o a matrice rivoluzionaria (Algeria ed Egitto) o a matrice monarchico-sacrale (i reali in Marocco e in Giordania sono di lignaggi ereditari che giungono per consanguineità sino al Profeta e quindi la fedeltà dell’esercito è duplice: al monarca e al Profeta). Entrambe le armate, algerina ed egiziana, sono di origine rivoluzionaria, ma ora sono dotate di scarsa autonomia nazionale e sono caratterizzate da alta dipendenza dall’Occidente (usa e Francia in primis) L’armata, e quindi la continuità stessa dello Stato, coincide con la continuità degli affari quanto più l’influenza occidentale sull’esercito si farà sentire: Egitto docet. La morale della favola è che qualsiasi transizione (alla democrazia?), qualsiasi continuità delle relazioni economiche, non potrà non fare i conti con la punta del fucile, ossia con i rapporti che la business comunity intratterrà con l’esercito.
Altra questione rilevante è l’incapacità preclara di questi Paesi di dar vita a uno sviluppo economico e quindi a una crescita solo moderatamente diseguale e solo moderatamente squilibrata, anche se essi sono dotati di grandi risorse naturali, soprattutto gli idrocarburi fossili e talune risorse minerarie (penso per esempio ai fosfati marocchini). Una concausa di ciò risiede non nell’economia, ma nella stratificazione sociale e nell’esito della lotta politica post-coloniale. Essa ha dato vita a un classe di rentier e di borghesi intermediari tra risorse nazionali e loro sfruttamento internazionale. Di qui l’inviluppo familistico e clanistico che saprofiticamente si è abbarbicato attorno alle armate e alle burocrazie statali.
Una classe di rentier e di borghesi intermediari tra risorse nazionali e loro sfruttamento internazionale controlla l’economia.
L’Egitto è un caso da manuale a questo proposito, con l’immensa proliferazione statual-familistico-clientelare della sua burocrazia.
Infine rimane il problema più esplosivo che è la miccia accesasi in Tunisia e che è stata alla base della rivolta: la formazione in tutto il Nordafrica di un sottoproletariato intellettuale che costituisce la vera novità interclassista della rivolta ed è insieme la ricchezza inesplorata dell’area: la conoscenza unita alla giovinezza può fondare la passione per lo sviluppo se a essa si dà uno sbocco nella dignità del lavoro. Il pericolo è che ciò non accada con conseguenze devastanti per l’instabilità di quelle società. Il lavoro deve essere il primo impegno per coloro che lavoreranno in quei Paesi, pena la crisi d’ogni loro progetto. Rimane il caso libico. È un caso a sé: tribalismo, arcaicità delle relazioni sociali, assenza dello Stato di origine occidentale, continuità personalistica di potere in potere che da rivoluzionario è divenuto saturnino sino a divorare i figli tribali della rivoluzione. Il primo compito è impedire la somalizzazione della Libia – ora che Muammar Gheddafi è caduto – e prepararsi a una eventuale divisione dell’area, e comprendere sino in fondo la specificità del caso. Passare, insomma, dall’economia all’antropologia.
La formazione in tutto il Nordafrica di un sottoproletariato intellettuale costituisce la vera novità alla base della primavera araba.
Omar Offendum, The Narcicyst, Freeway, Amir Sulaiman & Ayah, #Jan25
Ispirati alla resistenza del popolo egiziano durante la loro recente sollevazione, diversi musicisti importanti del Nordamerica hanno unito le forze per pubblicare una canzone di solidarietà e di sostegno. La track è opportunamente intitolata #Jan25, in riferimento alla data in cui sono iniziate ufficialmente le proteste in Egitto, preceduta dall’hashtag tipico dei tweet a indicare il ruolo fondamentale dei social network nella diffusione della rivolta. Prodotto da Sami Matar, un palestinese-americano con artisti del calibro di Freeway, The Narcicyst, Omar Offendum (rapper di origine siriana), Amir Sulaiman, e i canadesi Ayah, questo brano è divenuto la colonna sonora della primavera araba e un simbolo dei popoli oppressi di tutto il mondo.
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Armi e fede
Gli avvenimenti del golfo Persico
In effetti tutto, inesorabilmente, si tiene. Il 14 marzo 2011 sarà una data da ricordare nella storia mondiale e invece è quasi passata sotto silenzio. Il principe ereditario dello Stato arabo del Bahrein, Salman bin Hamad bin Isa Al Khalifa, ha richiesto l’aiuto dell’Arabia Saudita per sedare la rivolta sciita che divampava da giorni nello strategico lembo di terra affacciato sul golfo Persico. La questione rilevante è che la richiesta fu accolta dal Consiglio di Cooperazione del Golfo (organizzazione composta dagli Stati Arabi del Golfo), e quindi oltre mille militari sauditi, con più di cinquecento poliziotti, sono nel Bahrein per aiutare la forze dell’ordine locali nella repressione delle proteste e nel controllo delle infrastrutture strategiche.
La notizia si accompagna alla protesta degli usa in proposito: essi si vedono defraudati del monopolio dell’ordine geostrategico in un plesso delicatissimo del rifornimento energetico mondiale. Immaginiamo di avere una carta geografica del mondo dinanzi ai nostri occhi e di tracciare su di essa le linee portanti del rifornimento energetico di petrolio e di gas via mare. Vedremo che le flotte nordamericane – in rotta da Gibuti all’imbocco del Mar Rosso a Malta nel Mediterraneo passando per il Canale di Suez, circumnavigando l’Africa fino all’Oceano Indiano alla base militare nell’atollo di Diego Garcia per insinuarsi tra Indonesia e Filippine sino a giungere sulle coste del Giappone – controllano tutto il trasporto mondiale di idrocarburi, minacciate solo dalla flotta cinese nel Mar della Cina e sulle coste del Sudest Asiatico, dalla Thailandia al Pakistan [vedi Figura 3 – La rotta della flotta americana sulle vie del petrolio e Figura 4 – Le rotte petrolifere].
Il 14 marzo 2011 è una data spartiacque nella storia mondiale perché segna un cambiamento nell’ordine geo-strategico mondiale.
Per questo l’antemurale dell’Arabia Saudita è una risorsa preziosa: non solo