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Il Giudizio di Dio
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Il Giudizio di Dio

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Fabriano, 1330.

Guglielmo Visconti sta per lasciare il comune della Marca d'Ancona quando giunge inattesa una notizia che infiamma il suo animo alimentando la speranza di conquistare l'amore della donna amata e lo convince a non partire. Il percorso si rivelerà ben presto irto di ostacoli e Guglielmo si troverà coinvolto in una serie di tortuosi eventi. Dovrà battersi con un destino avverso e combattere fino al giorno del Giudizio di Dio.

Un grande affresco medievale in cui si intrecciano storia, amore e avventura
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateOct 7, 2014
ISBN9788891158710
Il Giudizio di Dio

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    Il Giudizio di Dio - Gianni Perticaroli

    Alighieri)

    INCIPIT

    Da alcune notti, ormai, sento il lamento del vento che soffia tra gli alberi e in esso mi sembra di cogliere la voce di coloro che ho amato e che sono tornati tra le braccia dell’Onnipotente abbandonandomi in un faticoso cammino terreno.

    Certe volte mi sussurrano parole affettuose e amorevoli, altre volte odo i loro rimproveri e ne riconosco il tono di biasimo. E, quando ciò accade, non posso fare altro che alzarmi e tornare allo scrittoio dove tutto è predisposto perché continui a scrivere le mie cronache, per fermare con l’inchiostro sulla pregiata carta di Fabriano la storia della mia vita e di coloro che insieme con me ne hanno condiviso il percorso.

    Anche questa notte mi sono girato e rigirato nel letto nella vana speranza di trovare il sonno per rigenerare le mie vecchie membra e per dare riposo alla mia mente stanca e affollata da talmente tanti ricordi da faticare a contenerli tutti, come fosse un vecchio recipiente in terracotta le cui crepe testimoniano il logorio del tempo.

    Già i ricordi…

    Negli anni ho imparato che non si è mai immuni da un ricordo. Mai al sicuro, mai abbastanza lontani. I ricordi, a volte, giacciono a lungo come merce senza valore dimenticati in qualche angolo recondito della nostra mente, ingannano la nostra memoria con la loro eterea esistenza e, talvolta, ci sconcertano con le loro incursioni inaspettate e tanto improvvise da toglierci il respiro.

    I ricordi rendono vivo ciò che ormai non c’è più poiché sono più duraturi della carne e la memoria è l’unica possibilità di sopravvivenza, una sottile illusione di eternità che concediamo a chi ci ha preceduto e che lasciamo in eredità a chi ci seguirà.

    E quando ti giri indietro dove la morte non camminerà mai più perché regna l’immobilità del già accaduto, perdi ogni desiderio di andare incontro al futuro e non ti resta altro che raccontare e sentenziare sul passato.

    Purtroppo, anche per chi intenda narrare onestamente gli eventi, è difficile riferire con fedeltà la verità soprattutto quando c’è di mezzo la propria vita. Se ci si guarda indietro senza pretendere di separare il bene dal male, il giusto dall’ingiusto, tutto sembra chiaro, ben definito e con le giuste proporzioni. Ma appena si traccia la linea per separare i buoni dai cattivi, i sentimenti s’incuneano fulminei e prepotenti fra sé e il passato e i pensieri appaiono sovente come frammenti indistinti di luce, che veloci proiettano sensazioni ancora troppo vive per poterle sconfiggere, pulsanti in tutto il loro crudele esistere.

    Come uscire dunque dall’inganno dei sentimenti? Ci ho pensato a lungo, trovando una sola risposta. Ammetterlo fin d’ora, garantendo che l’eventuale falsità nasce dagli insopprimibili impulsi dell’animo e non dalla malafede. Per il resto ognuno giudichi da sé e con l’aiuto dell’Altissimo usando la medesima indulgenza che concede a se stesso.

    CAPITOLO I

    Il tragitto dalla gualchiera dei Gionantoni alla locanda dei Cicchetti mi parve interminabile. Era buio e scendeva una pioggerellina leggera, l’umidità e il freddo mi penetravano nelle ossa e un senso di spossatezza mi rendeva arduo persino il semplice camminare. Non avevo ancora del tutto recuperato le forze benché avessi sostenuto, a chi me ne aveva fatto domanda, di sentirmi pieno di vigore. I ripetuti colpi alla testa che avevo subito soltanto un paio di settimane prima dalla spada di Corrado Bonagura, fido scudiero e cavaliere dei Chiavelli, mi avevano condotto sino al precipizio dell’aldilà ma l’Onnipotente non mi aveva accolto tra le sue braccia e mi aveva spinto a continuare la mia vita terrena. Faticosamente e grazie alle amorevoli cure dei miei amici Berta e Egidio Cicchetti, proprietari della taverna di Fabriano in cui avevo affittato una camera, mi ero ripreso ma sentivo che ancora ci sarebbe voluto del tempo prima di tornare nel pieno delle forze.

    L’aria, satura dell’odore del fumo dei camini, aveva sentore di cibi e m’immaginai famiglie raccolte intorno al focolare per consumare un frugale pasto serale. Ormai da tempo ne avevo dimenticato il significato e non avevo più notizie dei miei cari da quando ero stato costretto a fuggire da Milano per scampare a morte certa.

    Mio cugino Azzone Visconti, Signore di Milano, aveva ucciso nostro zio e mio mentore Marco e, data la mia fedeltà nei suoi confronti, aveva decretato la mia morte, ma la mia forza e la mia tenacia mi avevano aiutato a sopravvivere. Ferito e braccato dai sicari di mio cugino, ero fuggito dalla città in cui avevo conosciuto gloria e onori e avevo trovato rifugio presso il monastero fondato da Silvestro Guzzolini di Osimo nella Marca d’Ancona in cui avevo vissuto nella preghiera e nella meditazione per molti mesi finché fui incaricato dal vescovo di Camerino, Francesco di Monaldi Brancaleoni, di scoprire la verità riguardo alla morte di Alberico Gionantoni, uno stimato mastro cartaro di Fabriano. E fu proprio durante le indagini che avevo seguito alla ricerca della verità che mi ero scontrato con Bonagura e, solo per volontà dell’Altissimo, ero sopravvissuto ai colpi della sua spada.

    Quando varcai la porta della taverna, fui investito dal piacevole tepore del fuoco che ardeva nel camino in un angolo del vasto locale. Pochi avventori stavano consumando la cena scambiando chiacchiere a bassa voce sotto lo sguardo attento di Egidio che li osservava stando in piedi dietro il bancone di legno.

    Egidio Cicchetti era una persona squisita, una delle migliori che abbia mai conosciuto nella mia vita. Sin dal primo momento in cui misi piede nella sua taverna, nonostante fossi un forestiero, aveva mostrato nei miei confronti una spontanea benevolenza e non mi aveva mai fatto mancare la cordialità che traspariva dal suo sguardo limpido.

    «Guglielmo, vi stavamo aspettando per la cena» mi disse.

    «Perdonatemi, non lo sapevo» ribattei.

    «Non volevo certo rimbrottarvi. Tuttavia dovevate aspettarvi che avremmo avuto desiderio di trascorrere la vostra ultima sera a Fabriano insieme a noi.»

    «A dire il vero me l’auguravo.»

    «Bene. Prendete posto dove volete e intanto dico a Berta che siete arrivato.»

    Salii nella mia camera, lasciai il mantello inzuppato d’umidità e pioggia e impregnato dall’odore di fumo poi ridiscesi nel salone. Sedetti a un tavolo ad angolo da cui potevo comodamente osservare l’intera sala e la porta d’ingresso e dove spesso avevo cenato durante la mia permanenza dai Cicchetti.

    Egidio prese posto al tavolo e portò una caraffa del suo buon vino. Possedeva un modesto appezzamento di terreno a Nebbiano, un borgo ad alcune miglia dalle mura di Fabriano, in cui cresceva un vigneto che produceva un nettare degno degli dèi cui non era rimasto indifferente nemmeno il vescovo di Camerino. La diocesi, difatti, era il migliore cliente del vigneto di Egidio e nelle sue cantine invecchiavano numerose botti del delizioso vino di Nebbiano.

    Dalla cucina giunse Berta che reggeva tra le mani una pentola fumante. Era di certo stufato di carne, la sua specialità di cui avevo fatto succulente scorpacciate nell’ultima settimana. Per rimettermi in forze, Berta me ne aveva data un’abbondante porzione quasi ogni giorno. Era una cuoca formidabile e questa sua dote aveva largamente contribuito al buon nome della taverna.

    Il mio primo incontro con la proprietaria della locanda non era certo stato dei migliori. Svelta d’intelligenza e acuta osservatrice non le era sfuggita la contraddizione tra il mio aspetto e chi dicevo di essere. Non potevo in alcun modo essere scambiato per un mendicante poiché i miei abiti puliti riferivano di me un’altra storia né per un comune soldato ormai stufo di combattere poiché, se le spalle larghe e il torace ampio lo potevano lasciar intendere, i miei denti puliti e in ordine non raccontavano delle privazioni, della fatica e della malnutrizione che spesso erano sgradite compagne della vita militare.

    Tuttavia, almeno in parte, ciò che raccontai era vero poiché ero stato un soldato, un cavaliere dei Visconti di Milano. Avevo combattuto numerose battaglie nelle fila dell’esercito comandato da zio Marco e, negli anni, mi ero guadagnato la fama d’intrepido combattente e di abile stratega. Ma l’assassinio di Marco aveva drasticamente modificato il corso della mia vita e il mio futuro si era tinto di toni foschi e cupi.

    «Donna Berta, il vostro stufato mi mancherà» dissi.

    Berta si sistemò nervosamente la cuffietta poi chinò il capo ma non fu svelta abbastanza da nascondere le lacrime che notai fare capolino nei suoi occhi. A dispetto dell’iniziale diffidenza, col passare dei giorni fra noi si era creata una piacevole sintonia ma, ciò nonostante, ero rimasto sorpreso dall’intensità delle attenzioni che mi aveva dedicato durante la convalescenza poiché mi era stata accanto come fossi stato uno dei suoi figli.

    «Voi mi lusingate, Guglielmo.»

    «Nient’affatto. Rendo soltanto merito alle vostre doti culinarie. D’altronde se la vostra taverna è la migliore qui a Fabriano, vi sarà pur una buona ragione» affermai.

    Dalla cucina uscì anche Anna, la figlia più giovane dei Cicchetti, che però non sedette con noi, ma si occupò di servire i clienti.  Era una delle rare volte in cui la vedevo indaffarata alla taverna. Aveva quattordici anni e poca voglia di lavorare, questo diceva di lei sua madre. E naturalmente Berta ne era preoccupata poiché, se ancora non aveva avuto pretendenti, era già una donna fatta e non sarebbe mancato molto prima di vederla andare in sposa a qualche buon partito. Poco o niente sapevo invece degli altri due figli dei Cicchetti. Berta non ne parlava e avevo preferito non indagare o porre questioni che avrebbero potuto metterla in difficoltà. D’altronde, se avesse voluto farlo, non se ne sarebbe fatta scrupolo giacché non faceva difetto di una spigliata parlantina con cui non lesinava di riferire i pettegolezzi di Fabriano che valeva la pena di raccontare.

    Quella sera, tuttavia, Berta sembrava aver perso la sua proverbiale loquacità e cenammo restando in silenzio per lunghi momenti.

    «Che Dio vi benedica, Guglielmo. La vostra imminente partenza mi ha fatto conoscere un aspetto nuovo di mia moglie. Solitamente non rimane così tanto tempo silenziosa nemmeno mentre dorme» disse Egidio e ci strappò un sorriso.

    «Marito irriguardoso» replicò Berta fingendosi arrabbiata. «Allora avete proprio deciso?» mi domandò poi.

    «Sì, ma credetemi non è stata una decisione facile» ammisi.

    «Ne avete parlato con il vescovo Brancaleoni? Sono certa che non farebbe alcuna fatica a trovarvi un’occupazione in città» azzardò.

    «Sua Grazia ha già fatto molto per me.»

    «Se vi riferite alle cure cui vi ha sottoposto il suo medico personale, dovreste ricordarvi che, se siete stato in pericolo di vita, è stato soltanto a causa dell’incarico che vi aveva conferito e che avete portato degnamente a compimento» mi contraddisse. «Vi deve ben altro che le attenzioni di Marcellini» aggiunse.

    «Rammentatevi cosa vi ho detto a tal proposito quando ci siamo incontrati la prima volta: non mi piace ricevere favori da uomini potenti. Non si sa mai cosa possono richiedere per saldare il debito. Preferisco essere loro creditore.»

    «Magari se chiedeste a mastro Della Torre forse potrebbe offrirvi un lavoro» tentò nuovamente. «Ovviamente solo per qualche giorno, giusto il tempo perché vi possiate trovare qualcosa di meglio» precisò poi.

    «Preferirei evitarlo. Ho mal sopportato le poche volte in cui sono stato nella sua bottega.»

    Baldo della Torre era un mastro tintore. Possedeva un’avviata bottega che apparteneva alla sua famiglia da generazioni e produceva tessuti di affermata qualità e preziose stoffe destinati alle più importanti e rinomate sartorie di Firenze, Siena e Bologna. Il merito di tanto successo era da attribuirsi in larga misura proprio all’abilità di Della Torre di lavorare con i colori e all’audacia di sperimentare nuove formulazioni introducendo sostanze coloranti e pigmenti dai nomi esotici portatigli da mercanti giunti da paesi lontani. Mastro Della Torre era, inoltre, un devoto cristiano e mi aveva accolto come lavorante su richiesta del vescovo. Pochi giorni, tuttavia, avevo lavorato nella sua bottega poiché si era trattato in realtà di una sorta di copertura: fingendo di avere un’occupazione nessuno avrebbe posto domande sulla mia presenza in città e, nel contempo, avrei avuto la possibilità di muovermi liberamente seguendo l’indagine di cui ero stato incaricato.

    Come poc’anzi ho scritto, furono soltanto pochi giorni, ma bastanti a convincermi che c’era molto di vero di quanto si diceva sul lavoro di tintore. Le botteghe erano luoghi insalubri, roventi per i vapori che fuoriuscivano dai tini colmi d’acqua bollente e maleodoranti a causa dei liquami che producevano dall’odore simile a quello dell’urina. Per tali ragioni, le tintorie erano normalmente confinate ai margini delle città e i loro lavoranti erano sovente servi e lavoratori stagionali o ebrei cui poco importava di essere considerati sporchi e impuri.

    «Non ci avete detto dove andrete» chiese poi Egidio.

    Questa era la domanda che non avrei voluto udire poiché non sapevo cosa rispondere o, per meglio dire, l’unica risposta che potevo dare era la sola che non avrebbero voluto sentire.

    «Non lo so ancora» risposi e notai che le loro espressioni si velarono di un’ombra di perplessità.

    Mi sforzai di mostrarmi sereno e posai una mano sul braccio di Egidio e l’altra su quello di Berta come se con quel gesto intendessi rassicurarli sul mio futuro.

    «Non temete, me la caverò» affermai ma non dovetti essere molto convincente poiché la perplessità sui loro visi mutò in preoccupazione.

    Come era già accaduto prima di quel giorno e come ancora sarebbe accaduto nel corso della mia vita, il futuro mi appariva come una dolorosa incognita.

    In quei giorni, quando ormai avevo maturato la decisione di andarmene da Fabriano, avevo riflettuto a lungo sul luogo in cui mi sarei potuto recare ma non ero giunto ad alcuna conclusione. Naturalmente pensai alla possibilità di tornare a Milano ma, al momento, non la presi in considerazione poiché la reputai troppo rischiosa. Per quel che ne sapevo, non era stato emesso alcun bando di esilio nei miei confronti e pertanto avrei potuto farvi ritorno senza correre il rischio di venire arrestato, ma come potevo ignorare la minaccia proferita da mio cugino Azzone, divenuto signore di Milano?

    Aveva minacciato di uccidermi se non mi fossi allontanato rapidamente da Milano e aveva mandato dei sicari sulle mie tracce perché finissero il lavoro iniziato con il mio ferimento al Broletto Nuovo durante l’agguato in cui Marco era stato barbaramente ammazzato.

    Era pur vero che era trascorso oltre un anno da quel giorno ma dubitavo che Azzone si fosse dimenticato di me come di tutti coloro che avevano partecipato a ribaltare la signoria di suo padre Galeazzo.

    Avevo quindi valutato l’idea di fare ritorno alla casa di mio padre Vercellino tra le dolci colline sopra il Lago Maggiore, nella terra che aveva dato i natali alla famiglia dei Visconti.

    Tuttavia, dal giorno in cui ero fuggito da Milano, la mia famiglia non aveva più saputo nulla di me. Nei mesi di permanenza nella Marca d’Ancona, non avevo scritto una lettera né inviato loro una missiva per rassicurarli che ero ancora in vita e che stavo bene. Avevo, invece, preferito scomparire pensando, a torto, che mi avrebbero dimenticato. Che grave errore avevo commesso ed io stesso negli anni a venire avrei compreso il significato del dolore che avevo causato ai miei genitori. Il vuoto lasciato dalla scomparsa di un figlio è come un abisso profondo che tutto inghiotte e che nulla può riempire e, anzi, si autoalimenta con il dolore che affligge giorno dopo giorno, un dolore tanto intenso che sembra possa strapparti persino l’anima. Ma questo all’epoca, io non lo sapevo e, anzi, supposi che mio padre, Vercellino Visconti, un uomo dall’alto rigore morale e di ferrei principi, avrebbe potuto negarmi di entrare nella sua casa a causa del torto che gli avevo fatto. Peraltro ero altresì convinto che spie di Azzone si aggirassero nelle terre dei miei genitori e, in un battito di ciglia, mio cugino avrebbe saputo della mia comparsa.

    Avevo meditato anche sull’opportunità di presentarmi a Verona alla corte di Cangrande della Scala oppure a Genova per chiedere udienza a Lamba Doria. Erano uomini potenti che avevo conosciuto negli anni in cui cavalcavo a fianco di mio zio e che avevano aperto i loro castelli alle nostre truppe, avevano offerto banchetti in nostro onore e ci avevano onorato con discorsi in cui esaltavano la nostra alleanza e ci ricoprivano con parole di stima e gratitudine. Ma tante, troppe cose erano cambiate e non mi sarei sorpreso se avessero persino finto di non conoscermi poiché nulla avrebbero potuto ricavare dall’accettarmi nella loro schiera d’amicizie. Anzi, avrebbero corso il rischio di dover fronteggiare l’ostilità del mio potente cugino se ciò si fosse venuto a sapere. E, purtroppo, negli anni ho imparato che l’amicizia è un dono prezioso che solo in pochi sono in grado di donare.

    Perciò avrei lasciato Fabriano senza una meta precisa. Mi sarei rimesso alla volontà dell’Altissimo così come era accaduto durante la fuga da Milano.

    Finimmo di cenare e svuotammo una caraffa di buon vino ma riuscii a tornare nella mia camera soltanto dopo aver promesso ai Cicchetti che non li avrei lasciati senza mie notizie e che sarei tornato a trovarli qualora mi fossi trovato nella zona.

    Entrai in camera e mi sdraiai sul letto. Spensi il lume e attesi invano che il sonno giungesse. Ma ciò non accadde. Avevo la mente in subbuglio e mi sentivo le viscere strette in una morsa dolorosa. Misi le mani dietro la testa e fissai il soffitto buio sopra di me come se potessi scorgervi un qualsiasi segnale di ciò che mi riservava il domani.

    Sapevo con certezza che quel momento sarebbe giunto ma non immaginavo che la sua intensità sarebbe stata tanto forte da lasciarmi senza fiato.

    Quel tormento dell’anima aveva un nome: Matilde.

    Matilde era la terza figlia di Alberico Gionantoni, il cartaro ucciso e sulla cui morte avevo indagato.

    Ormai sono vecchio e qualcuno inarcherà le sopracciglia leggendo queste mie parole d’amore mentre altri penseranno a me come un laido e turpe essere che perde la dignità dietro sentimenti non più consoni. Alla mia età, infatti, sono concessi soltanto sentimenti tiepidi poiché il tempo delle passioni travolgenti se n’è andato insieme alla giovinezza e quindi si attende soltanto il freddo abbraccio della morte che spenga definitivamente ogni pulsar di vita. Ma io intendo ribellarmi a un simile modo di pensare e, avendo lungamente vissuto, mi sento di poter scrivere liberamente senza lasciarmi intrappolare dall’altrui pensiero.

    Mi sono innamorato di Matilde sin dal primo momento in cui il mio sguardo era stato rapito dalla sua straordinaria bellezza. Ricordo tanto vividamente quel momento come se fosse accaduto solo pochi istanti fa. Era apparsa all’improvviso uscendo dalla gualchiera di proprietà della sua famiglia e fu per me come una visione celestiale. Il mio cuore aveva accelerato i battiti e il mio respiro s’era fatto rapido e agitato. Era bastato solo quell’attimo perché il mio universo si fosse magicamente riempito di lei. I miei occhi la divoravano avidi, colmando i miei sensi a tal punto che ogni altra cosa sembrava impallidire e quasi perdere di consistenza. Era la prima volta che nella mia vita provavo tali sensazioni e non ebbi dubbi d’essere stato colto da quel sentimento che poeti e cantastorie vanno decantando nelle corti di nobili e signori.

    Ma ciò che dilaniò la mia anima fu la scoperta che Matilde era già promessa in sposa a un tal Riguccio della città di Sassoferrato. L’apprenderlo fu uno dei momenti più orribili dell’intera mia esistenza che frantumò sogni e speranze con tale brutalità che mi parve di poterne udire il rumore rimbombare nella mia testa con il fragore di una tempesta.

    La data era stata fissata. Matilde si sarebbe unita in matrimonio la prima domenica dopo il giorno di Santa Lucia.

    Ormai la fine di novembre si approssimava e con essa anche il matrimonio della mia amata. Non sarei rimasto a Fabriano per vederla salire sull’altare con l’uomo per cui provavo un profondo risentimento benché non avessi avuto neanche modo di stringergli la mano una sola volta. Mi stava portando via l’unica donna che avessi mai amato e la reputavo una causa più che sufficiente per odiarlo.

    Il matrimonio di Matilde, perciò, era la vera ragione per cui avevo deciso di andarmene da Fabriano e, se non fosse stato per la convalescenza dopo lo scontro con Bonagura, me ne sarei andato anche prima. Ogni giorno che passava, infatti, era una tortura, come la lunga agonia di un soldato che, ferito mortalmente sul campo di battaglia, sa di non poter sfuggire all’inesorabile destino.

    CAPITOLO II

    Allo spirare del mese di novembre nell’anno di Nostro Signore 1330, era giunto perciò per me il tempo di lasciare le terre della Marca d’Ancona che per molti mesi mi avevano ospitato e accolto per dirigermi verso una destinazione che ancora mi era ignota, ma ciò non mi destava alcun timore.

    Raccolsi le mie poche cose in una sacca e lasciai la camera che per molti giorni era stata il mio rifugio. Scesi nella taverna e trovai Berta, Egidio e Anna che mi stavano attendendo, allineati davanti al bancone come in un comitato di commiato.

    Il loro affetto mi commosse e ricacciai giù a forza il groppo che mi si era formato in gola.

    Egidio ruppe gli indugi e venne verso di me. Mi abbracciò come fossi un figlio, fu prodigo di consigli e di raccomandazioni e mi augurò ogni bene.

    Mi avvicinai a Berta che aveva gli occhi lucidi ma in quel momento la porta della taverna si spalancò con una tale violenza che parve sul punto di uscire dai cardini.

    Lorenzo Gionantoni entrò con un’espressione atterrita e confusa come se avesse incontrato il diavolo in persona.

    «Messer Visconti… Guglielmo… Meno male che non siete ancora partito» esclamò.

    Lo guardammo attoniti e smarriti in attesa che ci fornisse qualche spiegazione per il suo stato demoniaco.

    La sera prima l’avevo salutato insieme al resto della sua famiglia e non capii cosa potesse essere accaduto di tanto inquietante nel frattempo.

    «In nome del Cielo, cosa vi succede?» domandai.

    Lorenzo era il primogenito della famiglia Gionantoni. Alto

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