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L'agente segreto
L'agente segreto
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L'agente segreto

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L'agente segreto è un romanzo scritto da Joseph Conrad nel 1907, è considerato uno dei primi romanzi moderni a trattare temi quali il terrorismo e lo spionaggio. Il signor Verloc conduce da vari anni una doppia vita a Londra. Apparentemente è un marito e gestore di un negozio come tanti altri, in realtà è un agente segreto incaricato di sorvegliare gli anarchici locali, che usano proprio il suo negozio per incontrarsi. Improvvisamente però il nuovo ambasciatore del Paese per il quale lavora (una non meglio precisata potenza dell'Est) richiede al signor Verloc di organizzare un'azione violenta in modo da alimentare nell'opinione pubblica sentimenti di ostilità nei confronti degli anarchici. La trama trae spunto da un fatto realmente accaduto nel 1894: un'esplosione in Greenwich Park, probabilmente dovuta ad un fallito attentato anarchico. Benché possa essere classificato come un romanzo giallo, l'opera si trasforma in più punti in un racconto sulla psiche umana.
LanguageItaliano
Release dateSep 10, 2015
ISBN9788874174591
L'agente segreto
Author

Joseph Conrad

Polish-born Joseph Conrad is regarded as a highly influential author, and his works are seen as a precursor to modernist literature. His often tragic insight into the human condition in novels such as Heart of Darkness and The Secret Agent is unrivalled by his contemporaries.

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    L'agente segreto - Joseph Conrad

    XIII

    Informazioni

    I n copertina: Alberto Pisa, il ponte di Charing Cross a Londra, 1901

    © 2017 REA Edizioni

    Via S. Agostino 15

    67100 L’Aquila

    www.reamultimedia.it

    redazione@reamultimedia.it

    www.facebook.com/reamultimedia

    Questo e-book è un’edizione rivista, rielaborata e corretta, basata su una traduzione del 1934 di Mario Benzi. La casa editrice rimane comunque a disposizione di chiunque avesse a vantare ragioni in proposito.

    I

    Quel mattino, uscendo, Verloc affidò la bottega alle cure del cognato. Lo poteva ben fare, giacché gli affari, sempre scarsi, erano di giorno addirittura nulli. Verloc, poi, poco o punto si preoccupava dei suoi affari ostensibili, e, d’altra parte, c’era sempre sua moglie che pensava ad aver cura del fratello.

    La bottega era piccola, e così pure la casa, una di quelle catapecchie di mattoni tanto numerose a Londra, prima dell’era della ricostruzione. La bottega era precisamente uno sgabuzzino quadro, con una vetrina a piccoli vetri. Di giorno, la porta restava chiusa; di sera, era socchiusa in modo discreto e anche sospetto.

    Nella vetrina erano in mostra fotografie di ballerine più o meno svestite, certi involtini misteriosi molto simili a quelli che, una volta, spacciavano i ciarlatani, buste gialle, chiuse e piuttosto piatte, che portavano in grosse cifre nere il prezzo di due scellini e sei denari, alcune copie di vecchi settimanali umoristici francesi appesi a una cordicella come per asciugare, un sudicio vasetto di porcellana azzurra, un cofanetto di legno nero, bottigliette d’inchiostro, timbri di gomma, qualche libro dal titolo alludente a cose sconvenevoli, qualche numero apparentemente vecchio di giornaletti oscuri e mal stampati, con nomi pretenziosi come La Torcia, Il Tam-Tam. Dentro, le due fiammelle di gas erano sempre tenute molto basse, sia per ragioni d'economia, sia per riguardo ai clienti.

    Ouesti clienti erano ora dei giovanotti, che prima tentennavano davanti alla vetrina, poi bruscamente sgattaiolavan dentro, ora uomini d'età matura, che in generale, però, avevano un’aria di finanze poco floride. Alcuni di questi ultimi si tiravano il bavero del pastrano fin sopra i balli, e mostravano tracce di fango in fondo ai calzoni, poco fini e molto sdruciti, entro cui le gambe avevano, in generale, un aspetto altrettanto misero. Con le mani sprofondate nelle tasche del pastrano, entravano di sbieco, come temessero di far squillare il campanello.

    Il campanello, appeso sopra la porta per mezzo d'un nastro d’acciaio ricurvo, era diffìcile a scansare. Era fesso, ma alla sera, alla minima provocazione, strepitava dietro il cliente con impudente violenza.

    Strepitava, e a quel segnale Verloc accorreva prontamente dalla retrostante saletta, per un polveroso uscio a vetri che si apriva dietro il banco verniciato. Aveva sempre le palpebre grevi e l’aria di essersi alzato bell’e vestito, e per tutto il giorno, in un letto disfatto. Un altro avrebbe considerato un tale aspetto pregiudizievole ai propri affari. Si sa che il buon andamento degli spacci al minuto dipende in gran parte dall’aspetto attraente e cortese del venditore. Ma Verloc conosceva bene i propri affari, e nessun dubbio estetico, per quanto riguardava il suo aspetto, lo turbava mai. Risoluto, con occhi fissi e una sfrontatezza che sembrava tener sempre a bada una bassa minaccia, metteva sul banco oggetti d’un valore ovviamente, scandalosamente inferiore al prezzo richiesto: una scatoletta di cartone che apparentemente non conteneva nulla, o una di quelle piatte buste gialle accuratamente chiuse, o un sudicio libretto legato alla rustica e ostentante un titolo promettente. Di quando in quando, capitava che una delle sgualcite, ingiallite ballerine veniva venduta a un amatore come fosse stata viva e rigogliosa.

    A volte, era la signora Verloc che accorreva alla chiamata del campanello fesso. Winnie Verloc era una giovane dagli ampi fianchi e dal petto abbondante, contenuto da uno stretto busto. I suoi capelli erano molto curati. Sfrontata come il marito, aveva sempre un’aria d’incommensurabile indifferenza dietro il bastione del banco. I clienti d’età relativamente tenera, restavano, al solito, sconcertati di dover trattare con una donna, e, con la rabbia in cuore, chiedevano una qualunque bottiglietta d’inchiostro del valore di sei denari (uno scellino e sei denari, nella bottega di Verloc), che, una volta fuori, buttavano di soppiatto nel rigagnolo.

    I visitatori della sera — quelli dai baveri tirati fin sui baffi, e dai cappelli a cencio calcati sul naso — salutavano la signora Verloc con una mossa familiare del capo, e, mormorando qualche parola di cortesia, alzavano il ponticello a cerniera, praticato in fondo al banco per passare nel retro, il quale dava accesso a un corridoio e a una ripida scaletta. Solo per la porta della bottega si poteva entrare nella casa in cui Verloc svolgeva la sua attività di venditore d’ambigue merci, esercitava la sua vocazione di protettore della società e coltivava le sue virtù domestiche. Le quali ultime erano molto pronunciate. Egli era, infatti, compiutamente addomesticato. Nessun bisogno, nè spirituale, nè mentale, nè fisico, poteva indurlo ad allontanarsi di molto dai lari domestici. La casa gli dava conforti al corpo e pace alla coscienza, insieme con le cure muliebri della signora Verloc e i riguardi deferenti della madre di questa.

    La madre di Winnie era un donnone asmatico con una gran faccia bruna. Portava una parrucca nera sotto una cuffietta bianca. Le gambe tumefatte la costringevano all’inerzia. Diceva di discendere da famiglia francese, il che poteva essere perfettamente vero; e, dopo un buon numero d'anni di vita coniugale con un piccolo fornitore di viveri, aveva provveduto al proprio sostentamento, affittando alcune camere mobiliate presso Yauxhall Bridge Road, in una piazzetta che una volta ebbe qualche splendore ed ancora è compresa nel quartiere di Belgravia. Tale fatto topografico l’aveva aiutata a tener sempre le camere occupate; però i suoi dozzinanti non erano d'un genere molto distinto. Ma sua figlia Winnie li aveva serviti ugualmente. Tracce della discendenza francese che la vedova vantava, erano visibili anche in Winnie. Specie nell'accurata e artistica acconciatura dei lustri capelli neri. Ma aveva anche altro: la giovinezza, fattezze piene e tonde, una bianca carnagione, la provocazione d'una immensa riservatezza, che però non impediva mai la conversazione, condotta con animazione dai dozzinanti e con equa amabilità da lei. Bisogna credere che Verloc sia stato sensibile a questi fascini. Era un dozzinante intermittente. Andava e veniva senza alcuna palese ragione. Al solito, veniva (come l’influenza) dal Continente; senza però essere preannunciato dalla stampa. Faceva colazione a letto, dove poi, ogni giorno, restava a rivoltarsi con aria di placido godimento fino a mezzodì, e spesso anche più a lungo. Ma quando poi usciva, sembrava che gli riuscisse molto difficile ritrovar la via che riconduceva alla sua temporanea dimora di piazza Belgravia. Usciva tardi e tornava presto, alle tre o alle quattro del mattino. E al suo risveglio, verso le dieci, si rivolgeva a Winnie, che gli portava la colazione, con faceta, esausta urbanità, e la voce roca e sfinita d’uno che ha parlato concitatamente per molte ore di seguito. I suoi occhi prominenti, dalle palpebre grevi, si volgevano languidamente, amorosamente verso di lei, mentre le coltri erano tirate fin sotto al mento, e i neri, morbidi baffi ricoprivano le carnose labbra capaci di canzonare con molta dolcezza.

    Nel giudizio della madre di Winnie, Verloc era un signore molto distinto. Dalle esperienze raccolte in diverse « case d’affari », la buona donna s’era fatto un ideale di quel genere di signorilità che si compiacciono di esibire i frequentatori delle locande private. E quell’ideale fu impersonato da Verloc.

    — Naturalmente, ci prenderemo la tua mobilia, mamma, — le aveva osservato Winnie.

    Così ella aveva dovuto rinunciare alla sua attività di affittacamere. Parve che non valesse la pena di essere proseguita. Sarebbe stata fastidiosa per Verloc, anzi incompatibile co’ suoi affari. Quali poi fossero questi affari, egli non lo aveva detto; però, dopo il suo fidanzamento con Winnie, aveva preso l’abitudine d’alzarsi prima di mezzogiorno e di scendere in sala da pranzo, per cattivarsi la simpatia della futura suocera, che vi trascorreva gran parte della sua immota esistenza. Accarezzava il gatto, riattizzava il fuoco, e vi prendeva i pasti. Abbandonava gli agi di quella saletta, alquanto ingombra, con evidente riluttanza, ma poi, nullameno, restava fuori fino a notte molto inoltrata. Non s’era mai offerto di condurre Winnie a teatro, come avrebbe dovuto fare un signore così distinto. Le sue serate erano sempre impegnate. Aveva spiegato a Winnie che il suo lavoro era di un genere in certo qual modo politico, avvertendola che avrebbe dovuto essere molto gentile con i suoi amici politici. Ed ella, con il suo sguardo dritto ed impenetrabile, gli aveva risposto che così sarebbe stato, naturalmente.

    Quanto altro poi le avesse detto circa le proprie occupazioni, la madre di Winnie non lo seppe mai. Gli sposi la presero con loro, insieme con la mobilia. Però, l’aspetto meschino della bottega la colpì. E l’acciottolato della viuzza di Soho fu nefasto per le sue gambe abituate al lastrico uguale di piazza Belgravia: presero proporzioni addirittura enormi. Ma, d’altra parte, fu sollevata d’ogni cura materiale. La pesante bonarietà del genero le diede un senso di assoluta sicurezza. L’avvenire della figlia era evidentemente assicurato e non ebbe neanche più da darsi pensiero per la sorte del figlio Stevie. Ma dato l’affetto di Winnie per il delicato fratellino, e la gentile e generosa disposizione di Verloc, ella sentiva che il povero ragazzo era abbastanza al sicuro in questo mondo violento. E in cuor suo, forse, ella non fu affatto dispiaciuta, quando, passato qualche anno, si convinse che i Verloc sarebbero rimasti senza figli. Siccome quella circostanza sembrava lasciar Verloc assolutamente indifferente, e visto che Winnie riversava sul fratello un affetto quasi materno, per il povero Stevie, forse, non sarebbe potuto accadere nulla di meglio.

    Era molto difficile, infatti, metterlo a posto, quel ragazzo. Era gracile, e sarebbe stato anche bello, se il labbro inferiore, cascante in modo particolare, non avesse dato qualcosa di vacuo al suo viso. Ma, grazie al nostro ottimo sistema d’insegnamento coercitivo, aveva imparato a leggere e a scrivere, nonostante quel suo aspetto sfavorevole. Però, come fattorino d’ufficio, non ebbe successo. Dimenticava i messaggi verbali, abbandonava la retta via del dovere per seguire cani e gatti randagi, per anguste viuzze, in certi cortili maleodoranti: per contemplare a bocca aperta, e con evidente danno agli interessi del padrone, le commedie della strada o i drammi dei cavalli caduti, che, quand’erano eccessivamente patetici o violenti, gli facevano cacciar urla strazianti in mezzo alla folla, alla quale, si sa, non piace essere turbata da suoni simili, nel suo cheto godimento d’uno spettacolo nazionale. E quando poi un grave e paterno poliziotto lo conduceva via, veniva quasi sempre constatato che il povero Stevie aveva dimenticato il proprio indirizzo, almeno per qualche tempo. Una brusca domanda provocava in lui un balbettio quasi soffocante. E quando vedeva qualcosa d’insolito, sgranava gli occhi in modo orrendo. Però non aveva mai avuto crisi, il che era molto confortante; e di fronte ai naturali scatti del suo genitore spazientito, aveva sempre trovato, nei giorni della sua infanzia, un sicuro riparo dietro le gonne succinte della sorellina Winnie. Ma a volte, sembrava proprio che, sotto sotto, nascondesse un fondo d’incredibile malvagità. Quand’ebbe quattordici anni, un amico del suo defunto genitore, rappresentante d’una fabbrica estera di latte condensato, se lo prese come fattorino. E un brumoso pomeriggio, assente il padrone, fu sorpreso sulla scala ad accendere fuochi artificiali. Aveva già fatto partire, uno dopo l’altro, tutta una serie di razzi, girandole e assordanti petardi; poco mancò che le conseguenze non fossero gravissime.

    Un terribile panico s’era propagato in tutto l’edifìcio. Impiegati stralunati e soffocanti si precipitarono tumultuosamente negli anditi ripieni di fumo; tube di seta, appartenenti ad affaristi anziani, ruzzolarono indipendenti giù per le scale. Nessuno, naturalmente, fu grato a Stevie di quel suo estro originale, i cui moventi furono molto difficili da determinare. Solo più tardi, Winnie ottenne una confusa, nebulosa confessione. Altri due fattorini, impiegati nello stesso stabile, avevano sconvolto la sua sensibilità con storie d'ingiustizia e d'oppressione, al punto da spingerlo a tale colmo di frenesia. Ma l’amico del suo defunto genitore lo licenziò, naturalmente, sui due piedi. Dopo quella prodezza altruistica, Stevie fu incaricato di lavare i piatti e di lustrar le scarpe dei signori che soggiornavano alla pensione di piazza Belgravia. Occupazioni, queste, evidentemente senza avvenire. I signori, di quando in quando, gli davano uno scellino di mancia. Verloc si era mostrato anche più generoso. Ma tutte sommate, queste mance non bastavano a costituire un reale guadagno atto ad assicurare il suo domani; cosicché, quando Winnie annunciò alla madre il proprio fidanzamento con Yerloc, venne fatto a questa di domandarsi, con un sospiro e un’occhiata verso la cucina, che cosa ne sarebbe stato del povero Stevie.

    Ma, per fortuna, Verloc fu disposto a tenerselo in casa insieme con la suocera e la mobilia, la (piale era l’unica fortuna palese della famiglia. Verloc abbracciò tutti quelli che si strinsero al suo ampio e bonario petto. La mobilia fu ripartita in tutta la casetta nel modo più conveniente, ma la suocera fu confinata in due stanzette, in fondo al piano superiore. Lo sfortunato Stevie dormì in una di queste. Allora, una tenue peluria gli luccicava, come una nebbiolina d’oro, sulla piccola mascella inferiore. Aiutò con cieco amore e docilità la sorella nelle faccende di casa. Verloc pensava che un’occupazione seria gli avrebbe fatto bene. Il ragazzo occupava le ore a tracciare, col compasso e a mano libera, un gran numero di circoli su pezzettini di carta. S’applicava a questo passatempo con gran diligenza, tutto curvo sulla tavola di cucina. E Winnie, dalla bottega, gli lanciava, di tratto in tratto, per l’uscio aperto del retro, occhiate di materna vigilanza.

    [1] Case per solo uffici, con un ultimo piano, il quinto o su di li, affittato per abitazione a qualche famiglia, per lo più di modeste condizioni. 

    II

    Queste erano la casa e le faccende che Verloc si lasciò dietro, avviandosi a ponente, alle dieci e mezzo del mattino. Era un’ora insolitamente mattiniera per lui. Tutta la sua persona spirava un’aria di rugiadosa freschezza. Portava il soprabito turchino tutto abbottonato. Le sue scarpe erano ben lucidate, e le sue gote, rasate di fresco, avevano un loro proprio lustro. Perfino gli occhi dalle palpebre grevi, rinfrescati da una notte di placido sonno, gettavano sguardi relativamente vivaci. Attraverso la cancellata del parco, questi sguardi colsero signori e signore cavalcanti nel galoppatoio, coppie che procedevano a un trotto armonioso, altre che incedevano compostamente al passo, gruppetti fermi, cavalieri soli, dall’aspetto insocievole, e amazzoni solitarie, seguite a distanza da un servo con la coccarda al cappello e l’attillata livrea stretta da un cinturone. Carrozze signorili si susseguivano di continuo, per lo più broughams a pariglie, e ogni tanto una vittoria con dentro una pelle di belva e una testa femminile dal cappello emergente sopra il mantice ripiegato. Un sole tipicamente londinese, di cui non si poteva dir altro, se non ch'era iniettato di sangue, glorificava ogni cosa con gli scialbi suoi raggi. Stava sospeso sopra Hyde Park Corner con un'aria di scrupolosa e bonaria vigilanza. Perfino il lastrico, sotto i piedi di Verloc, aveva una tinta d’oro antico in quella luce diffusa, in cui nè case, nè alberi, nè bestie, nè uomini gettavano ombra. Verloc andava a ponente attraverso la città, in un’atmosfera d’antico oro polverizzato. Bagliori rossicci guizzavano sui tetti delle case, sugli angoli dei muri, sugli spigoli delle carrozze e perfino sul manto dei cavalli e sulle ampie spalle del soprabito di Verloc, dove facevano un singolare effetto di ruggine. Ma egli non aveva la benché minima idea di essere arrugginito. Guardava, attraverso le sbarre della cancellata, le testimonianze dell'opulenza e del lusso della città, con occhio approvatore. Tutta quella gente doveva essere protetta. La protezione è la prima necessità dell'opulenza e del lusso. Dovevano essere protetti: tutti i loro beni, i cavalli, le carrozze, le case, i servi, dovevano essere protetti: le stesse fonti delle loro ricchezze, nel cuor della città e nel cuor del contado, dovevano essere protette; tutto l’ordine sociale, favorevole al loro ozio igienico, doveva essere protetto dal livore del lavoro antigienico. Doveva — e Verloc si sarebbe certo fregato le mani con soddisfazione, non fosse stato costituzionalmente contrario ad ogni movimento superfluo. TI suo proprio ozio non era punto igienico, ma gli si adattava a meraviglia. Gli era devoto con una specie d’inerte fanatismo, o meglio con una fanatica inerzia. Generato da gente laboriosa per una vita di fatiche, aveva abbracciato l’indolenza, seguendo un impulso profondo, inspiegabile e imperioso come quello che spinge l’uomo a preferire una donna tra mille. Era troppo pigro anche per essere un demagogo, o concionare nei comizi, o fare il leader dei lavoratori. Erano occupazioni che richiedevano troppa fatica. Egli aveva bisogno d’una vita più facile, o forse era una vittima di quella filosofia che nega l’efficacia d’ogni sforzo umano. Ma un’indolenza di tal genere, richiede ed implica una certa dose d’intelligenza. Verloc non era privo d’intelligenza, e al pensiero d’una reale minaccia incombente sull’ordine sociale, avrebbe forse fatto una strizzatina a se stesso, se non avesse avuto da compiere uno sforzo per fare quel segno di scetticismo. Infatti, i suoi grossi occhi prominenti non erano fatti per le strizzatine. Erano piuttosto di quelli che sogliono chiudersi solennemente, sotto il peso del sonno, con un effetto maestoso.

    Antidimostrativo e massiccio alla maniera dei maiali molto grassi, proseguì per la sua via, senza nè fregarsi le mani nè strizzar gli occhi a certi suoi pensieri. Camminava pesantemente con le sue lucide scarpe, come avviato a una qualunque faccenda consuetudinaria. Sembrava uno qualunque dei tanti individui che si classificano tra il corniciaio e il fabbro; insomma, un datore di lavoro in scala molto ridotta. Però, c’era anche in lui qualcosa d’indicibile, che non poteva derivare da nessuna attività macchinale, per quanto disonestamente svolta; quel non so che comune a coloro che sfruttano i vizi, le follie e i più bassi timori dell’umanità: l’aria di annientamento morale che hanno i tenitori di bische d’infimo ordine o di case equivoche, i detectivs privati, gli agenti informativi, i venditori di bevande alcooliche, e credo anche i venditori di cinture elettriche rinvigorenti e gli inventori di medicine miracolose. Circa questi ultimi non sono sicuro, non avendo portato le mie indagini fino a tali profondità. Per quel che ne so io, però, l’espressione di costoro potrebbe essere perfettamente diabolica. Non mi sorprenderebbe. A me, quel che importa soprattutto affermare, è che l’espressione di Verloc non era affatto diabolica.

    Giunto nei pressi di Knightsbridge, svoltò a sinistra, passando dalla grande arteria percorsa da moltitudini di veicoli assordanti, in un quartiere quasi silente. Sotto il cappello, un po’ di sghembo sulla nuca, i capelli erano stati accuratamente spazzolati e pettinati, poiché doveva recarsi in un'Ambasciata. Ora, tozzo come una roccia — specie di roccia molto molle — camminava per una via che a giusto titolo avrebbe potuto chiamarsi privata. Ampia, vuota, lunga, essa aveva tutta la maestà della natura inorganica, delle cose che non muoiono mai. L’unico residuo di mortalità era rappresentato dal brougham d’un dottore, fermo in augusta solitudine contro l’orlo del marciapiede. I battenti dei portoni luccicavano a perdita d’occhio, e i nitidi vetri delle finestre rilucevano d’un lustro cupo, opaco. E tutto era silente. D’un tratto, un carretto di lattaio infilò fragorosamente la lunga prospettiva; poi un garzone macellaio, sferzando il suo cavallo con l’eroico fervore d’un corridore di biga, scantonò seduto in alto, sopra due grandi ruote rosse. Un gatto dall’aria colpevole, sbucato da sotto il selciato, corse per un po’ davanti a Verloc, poi s’immerse in un altro sotterraneo; e un grasso poliziotto, certo refrattario a qualsiasi emozione, come facesse parte esso pure della natura inorganica, e apparentemente uscito dalla colonna d’un lampione, passò accanto a Verloc senza badargli per nulla. Svoltando ancora a sinistra, Verloc proseguì per un’angusta traversale, fiancheggiata da un muro giallo, che, per ima ragione imperscrutabile, portava il numero uno di piazza Chesham, scritto in grandi lettere nere. La piazza Chesham era lontana almeno una sessantina di yarde, e Verloc, abbastanza cosmopolita per non lasciarsi ingannare dai misteri topografici di Londra, continuò diritto, senza manifestar nè sorpresa nè sdegno. Infine, con la persistenza di chi va a sbrigare un affare improrogabile, giunse alla piazza, che attraversò diagonalmente, puntando cioè diritto verso il numero dieci. Questo apparteneva a un gran cancello imponente, fiancheggiato da un alto muro sbiancato di fresco e da due case, di cui una, abbastanza irrazionalmente, era contrassegnata dal numero nove, e l’altra dal numero trentasette; e il fatto che quest’ultima apparteneva alla via Porthill, una via molto nota del vicinato, era proclamato da un cartello posto sopra una finestra d’ammezzato dalle autorità incaricate di tener d’occhio tutte le case sbandate di Londra. Perchè poi nessuno, in Parlamento, si sogni di far tornare quelle case là dove dovrebbero stare (basterebbe un piccolo decreto), è uno dei tanti misteri dell’amministrazione municipale. Ma Verloc non vi badò, poiché la sua missione in questo mondo era di proteggere il meccanismo sociale, non di perfezionarlo e ancor meno di criticarlo.

    Era ancora tanto presto, che. il portiere dell’Ambasciata uscì precipitosamente dalla portineria infilandosi la giacca della livrea. Aveva tutta l’aria di voler avventarsi su Verloc; ma questi lo trattenne, mostrandogli semplicemente una busta portante lo stemma dell’Ambasciata. E passò oltre. Si servì dello stesso talismano di fronte a un lacchè, il quale gli aprì l’uscio e si scansò per lasciarlo entrar nell’ampia sala.

    Un gran fuoco scoppiettava allegramente in un alto caminetto, e davanti, con le spalle alle fiamme, un uomo piuttosto anziano, in abito da sera e con una catena al collo, alzò il capo da un giornale che teneva spiegato con ambo le mani davanti al viso calmo e severo. Non si mosse: ma un altro lacchè, in livrea bruna orlata di giallo, avvicinò Verloc, ascoltò il nome pronunciato sottovoce, girò sui tacchi in silenzio e s’incamminò senza mai voltarsi. Verloc, così guidato lungo un corridoio del pianterreno, fino alla sinistra di uno scalone monumentale, fu bruscamente invitato ad entrare in una stanzetta contenente una pesante scrivania e alcune sedie. Il servo richiuse l'uscio, e Verloc rimase solo. Non si sedette. Con cappello e bastone in una mano, si guardò attorno, passandosi l'altra tozza mano sui capelli lisciati.

    Un altro uscio s'aprì silenziosamente, ed egli, immobilizzando lo sguardo in quella direzione, vide dapprima soltanto delle vesti nere, un cocuzzolo calvo e due scarne mani tra due grige fedine cascanti. La persona ch'era entrata si teneva davanti agli occhi certe sue carte che sfogliava mentre s'avvicinava alla scrivania a lenti passettini. Il Consigliere segreto Wurmt, Cancelliere d'Ambasciata, era piuttosto miope. Deponendo le carte sulla tavola, l'apprezzato funzionario scoprì una faccia pastosa di una melanconica bruttezza, incorniciata da una moltitudine di sottili e lunghi peli grigiastri, pesantemente sbarrati da grosse e folte sopracciglia. Si mise un paio di occhiali cerchiati d'argento ossidato sul grosso naso informe, e parve colpito dalla presenza di Verloc. Sotto le enormi sopracciglia, i deboli occhietti ammiccarono pateticamente attraverso gli occhiali.

    Non fece alcun segno di saluto; e Verloc, che pure conosceva il suo dovere, non si mosse neppur lui. Solo un’alterazione quasi impercettibile nel profilo delle spalle di quest'ultimo potè far supporre una lieve inclinazione della schiena sotto la vasta superficie del soprabito. Ne conseguì un effetto di fredda deferenza.

    — Ho qui alcuni vostri rapporti, — disse il funzionario con voce singolarmente dolce e stanca, puntando forte l’indice sulle carte. Fece una pausa e Verloc, che aveva subito riconosciuto la propria scrittura, attese in silenzio, quasi senza respirare. — Il contegno della polizia di qui non ci soddisfa, — riprese l’altro, con evidenti segni di stanchezza cerebrale.

    Le spalle di Verloc, senza realmente muoversi, accennarono una scrollatina. E per la prima volta, in quel mattino, da quando era uscito di casa, le sua labbra si dischiusero.

    — Ogni paese ha la sua polizia, — sentenziò filosoficamente. Ma poi, come il funzionario d’Ambasciata continuava ad ammiccare, si sentì costretto a soggiungere: — Permettetemi di farvi osservare che non è in mio potere d’influire sulla polizia di qui.

    — Quello che si desidera, è l’attuazione di qualcosa di definitivo, che stimoli la loro vigilanza. Ciò sarebbe di vostra competenza, vero?

    Verloc rispose solo con un sospiro, che certo dovette essergli sfuggito involontariamente, poiché subito cercò di dare al proprio viso un’espressione gioviale. Il funzionario ammiccò come abbagliato dalla penombra di quella stanzetta, e soggiunse:

    — La vigilanza della polizia... e la severità dei magistrati. La larghezza di manica di queste procedure e la totale mancanza d’ogni misura repressiva sono uno scandalo per tutta l’Europa. Quello che si desidera in questo momento, è un’accentuazione del senso d’irrequietezza... di fermento che indubbiamente esiste...

    — Indubbiamente, indubbiamente, — si affrettò a dire Verloc, con una deferente voce di basso profondo, denotante spiccate qualità oratorie, ma così totalmente diversa da quella di prima, che il suo interlocutore rimase profondamente sorpreso. — Esiste infatti a un grado veramente pericoloso. I miei rapporti di quest’ultimo anno vi hanno accennato ripetutamente.

    - I vostri rapporti di quest’ultimo anno, — disse il Consigliere Wurmt, nel suo gentile tono spassionato, — li ho letti io stesso. Però, sapete, sinceramente, avreste potuto fare a meno di mandarceli.

    Per qualche istante regnò un

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