Vite di ceramica-racconti in riva al lago
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Com'è morto il Conte? Incidente o altro? Fra donnine di facili costumi e personaggi dai soprannomi improbabili, un ritratto goliardico della vita di paese sullo sfondo della Ceramica.
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Vite di ceramica-racconti in riva al lago - Stefania Tavazzani
STEFANIA TAVAZZANI
VITE DI CERAMICA-RACCONTI IN RIVA AL LAGO
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Indice dei contenuti
La dipartita del Conte Naso
L'Amanda
L'Onofrio e il Lampadina
Qualcosa di nuovo
Ul Giulin e l'Eufesia
Tutti al circo Orsini
Facciamo pace e dimentichiamo i vecchi rancori
Il funerale del Conte
La Fiorenza e il carabiniere Lestofanti
La felicità del Giulin
In vista dell'appuntamento
Il matrimonio
Amanda, arrivo!
Arriva l'erede
Come dirlo alla Nini?
La confessione
La gita all'Alpe Devero
La Rama de Rubin
La gravidanza avanza
Il segreto dell'Amanda
Il Kodak e i lumini del cimitero
L'indagine
In Colonia a Pietrasanta
Il Quaglia e la Cesira
La gelosia del Quaglia
L'Ombrone e le sue confidenze
Il ritorno dalla Colonia
Finalmente si consuma!
Gli straordinari in ceramica
A casa dall'ospedale
Emergenza in caserma
La cena pre-natalizia all'oratorio del Ponte
Il vin brulè e il parto della Fiorenza
Si torna a casa col bambinello
La famosa dama
del Conte
La cena di capodanno
Il Severo
I soldi in Svizzera
Gli uomini, che delusione
L'arresto dell'Amanda
La confessione
Speriamo sian soldi ben spesi!
Ringraziamenti
La dipartita del Conte Naso
C’era un gran trambusto quella mattina sul lungolago.
Gente che parlava ad alta voce, che gesticolava come se si stesse provando una pantomima d’altri tempi.
L’Ambrogio si avvicinò curioso, e non fece in tempo a formulare domanda alcuna che L’Oreste gli si parò davanti raccontandogli quello che stava succedendo.
Han trovaa’ il Conte Naso a cò in giò in do l’acqua chi al traghètt. Ier sira, vers i noeuv or
.
L’Oreste era solito parlare il dialetto del posto, e a Laveno per la verità lo parlavano ancora tutti, soprattutto dai 50 anni in su, e gli amici dell’Ambrogio avevano una sessantina di anni o giù di lì.
Si conoscevano tutti, dalle scuole elementari in via Labiena, quelle che avevano frequentato coi calzoni corti d’estate e il grembiulino nero per non sporcarsi i vestiti, come usava una volta.
Il Conte Naso era un uomo alto, dinoccolato, che vestiva sempre in modo impeccabile, con l’immancabile fazzoletto al collo.Ne aveva tantissimi, di vari colori e tessuti, ma quelli che prediligeva erano in raso, tinta unita con qualche pois qua e là.
Dalla sua innata eleganza, il soprannome Conte.
Naso…beh, avevauna canappia che faceva provincia.Un naso luuuungo, che arrivava prima di lui.
Abitava a Laveno alta, vicino alla Chiesa che sovrastava il paese, e dal suo terrazzo dominava lago e montagna.
Gli piaceva invitare gli amici per bere un caffè su quel terrazzo che la Gina aveva riempito di fiori.
La Gina viveva con lui da tempi memorabili, da che chiunque ne avesse memoria.
Si dice che fosse stata la sua tata da piccolo, essendo i suoi genitori di famiglia abbiente, ed era rimasta con lui anche dopo la morte degli amati congiunti, prendendosi cura della grande casa, e del Conte stesso, che non si era mai sposato perché, diceva, un’estranea dentro casa gli avrebbe fatto girare i maroni.
La Gina preparava manicaretti con una fantasia culinaria davvero invidiabile, e teneva la casa uno specchio.
Diceva di soffrire di artrosi,ma quando d’estate si organizzavano le feste di paese, come la festa dell’Unità giù in Gaggetto, non disdegnava valzerini e polke varie, che mettevano a dura prova le anche di una quarantenne.
In quei momenti, anche gli altri sedicenti artritici del posto si dimenavano a ritmo di danza come se fossero stati miracolati nell’esatto momento in cui partivano le prime note.
L’era semper adrè a nettà su,vetri trasparenti che potevi vedere le montagne a Intra, puliti un giorno si e uno no con carta da giornale e ammoniaca, che obbligavano il Conte a girare per le stanze con gli occhiali da sole.
Non di rado ad ogni ospite venivano affibbiate delle pattine per percorrere il lungo pavimento di marmo che portava dall’atrio al resto della casa, e quando la Gina era fuori per commissioni, le giravano le balle se, tornando, trovava qualcuno che camminava senza quella protezione sotto le suole.
Era capace di andare in escandescenze, sembrava posseduta dal demone dello spic e span, e non appena gli ospiti lasciavano la dimora, prendeva uno straccio e puliva le piastrelle finchè il suolo non tornava immacolato e lustro come una superficie riflettente.
Era fissata con la pulizia, diceva che era sintomo di progresso, di decenza, e di rispettabilità.
E che diamine
, ripeteva al Conte chi non ha rispetto per la casa non ha rispetto nemmeno per se stesso
.
La Gina vestiva sempre tailleur grigi o neri, e non dimenticava mai una collana di perle, quando usciva.
Quando si dedicava ai lavori di casa (la maggior parte del tempo), indossava un abito smesso e un grembiulone colorato per non sporcarsi le vesti.
Il Conte possedeva una bella barca con cui andava a pescare sul lago, e durante la bella stagione si spingeva fino all’Eremo di Santa Caterina del Sasso e ,talvolta, anche verso le Isole.
Un pomeriggio di agosto di qualche anno prima l’aveva ridipinta da cima a fondo, un bel giallo vivo che pareva un sole galleggiante, e sui fianchi la scritta tiremm innanz
, nome del natante.
Vicino al Conte Naso abitava il Sergio, detto ul scarpun
, perché portava sempre degli scarponi nr 45, che quando camminava rimbombavano sull’asfalto.
E lui calzava il 41 a dir tanto, ma indossava sempre calzature così grandi perché diceva che gli piaceva sentire i piedi comodi, e che scarpe grandi, cervello fino
.
Chi lo vedeva per la prima volta pensava che, alla nascita, l’avessero tirato fuori per i piedi e che, se mai il vento avesse soffiato più forte del solito, lui di certo sarebbe rimasto eretto, e non a caso qualcuno gli aveva affibbiato anche il soprannome di Ercolino sempre in piedi ,come il mitico giocattolo che, colpito a destra e a manca, ritornava sempre al suo posto.
Boh, certo era strano anche lui.
Ognuno al paese aveva soprannomi improbabili che venivano affibbiati a seconda del lavoro svolto, o delle abitudini e stranezze personali.
A Laveno la vita scorreva tranquilla, cose grosse non erano mai successe, a memoria degli abitanti, e la dipartita del Conte lasciò tutti a bocca aperta, anche perché la dinamica dell’evento non era ancora ben chiara.
Insomma, il corpo senza vita del Conte Naso era stato rinvenuto a faccia in giù nell’acqua all’imbarco dei traghetti, verso le nove di sera.
Cosa fosse accaduto, nessuno ancora lo sapeva.
L'Amanda
I pomeriggi d’estate lo passavano tutti al muro del pianto, giù all’imbarcadero.
Veniva chiamato così perché si faceva un gran chiacchierare, tra uomini, del bello e del brutto,e soprattutto ognuno si lamentava, chi della propria moglie, chi del vicino rompiballe, chi del lavoro, e chi più ne ha più ne metta.
Ci si piangeva addosso l’un l’altro, insomma.
La cosa strana era che non esisteva nessun muro al quale parlare
dei fatti propri, quindi probabilmente era un modo di dire che qualche buontempone si era inventato lì per lì.
Fu proprio fuori dall’imbarcadero che videro passare per la prima volta l’Amanda.
Veniva da Milano, e si era trasferita sul lago Maggiore da poche settimane.
Era una biondona dall’età indefinibile, e lei si guardava bene dal rivelarla a chicchessia, lasciava quell’alone di mistero che non guasta mai, in una donna.
Solo una volta, al Rino macellaio, aveva detto di avere 42 anni.
Si, per gamba
commentò l’Onofrio col suo ciuffo ribelle sulla fronte.
Era stempiato, ma portava quel ciuffo ridicolo che oscillava di qua e di là come un pendolino, e spesso chi lo guardava sentiva che stava per addormentarsi lentamente, così che subito distoglieva lo sguardo.
Amandala pelanda, chela lì si che la sà lunga, t’el disi mì
.
Di certo non aveva 42 anni, ne dimostrava una cinquantina, ma ben portati, eccome se erano ben portati.
L’Onofrio era sposato con la Nini, una ragazzotta emiliana che aveva delle gote talmente rosse da assomigliare neanche tanto vagamente ad una mela della Val di Non.
L’era gelosa ‘me un bècch, diceva sempre lui, e non passava sera che, rientrando dal suo giretto con gli amici, lei non gli facesse il terzo grado.
Si era trasferita a Laveno subito dopo il matrimonio, e aveva imparato benissimo il dialetto del luogo, tanto che lo parlava spesso.
"Allora, chi hai incontrato stasera? Quante donnette hai concupito?.
Ma muchela Nini, cosa vuoi che me ne freghi delle altre? Lo sai che ci sei solo tu nel miocuore
.
Si,le balle, credi che non lo sappia che le guardi tutte?Non dirmi che non hai fatto un pensierino su quella nuova,quella là bionda che pare la Marilyn Monroidi, c’at vègna un cancher
.
Diciamo che per gli epiteti più coloriti usciva fuori la parlata emiliana in tutto il suo splendore.
Così la chiamava, Marilyn Monroidi, e a nulla erano valsi i tentativi del marito di farle capire che il cognome della bellissima attrice Hollywoodiana era Monroe,lei andava avanti per la sua strada, di americanate non voleva saperne.
Comunque era vero, l’Onofrio un pensierino sull’Amanda ce lo aveva fatto sul serio, e aspettava solo l’occasione giusta per fare un passo avanti con la prosperosa signora.
L'Onofrio e il Lampadina
L’occasione si presentò qualche sera dopo, quando rincasando tutto solo e un po’ in brindisi, come si conviene ad un uomo di 60 anni appena uscito dall’osteria del paese, vide arrivare da lontano a passo spedito proprio l’oggetto del suo desiderio.
Porca vacca, mi scappa anche da pisciare
, pensò l’uomo ed ora come faccio? Ho la vescica che sta per avere le doglie, non posso reggere ancora a lungo.Ma se vado a urinare dietro l’albero, quella lì mi passa davanti senza neanche vedermi e buonanotte ai suonatori
.
Decise di tenersi la sua vescica che implorava pietà, e si fermò accovacciandosi fingendo di allacciarsi le stringhe delle scarpe.
Solo allora si rese conto di non avere le stringhe, e nel piegarsi sentì una fitta al basso ventre che per poco non se la fece addosso.
L’Amanda lo vide tutto raggomitolato per terra e pensando stesse male, gli si avvicinò.
Signor Onofrio, ha bisogno di aiuto?
"Eh? No no, grazie pensavo di aver