Stardust, qualcuno come me
By Rhoma G.
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Stardust, qualcuno come me - Rhoma G.
Stardust
Qualcuno come me…
L’ultima "seconda" possibilità.
Questo libro parla delle seconde ultime
possibilità. Di come, alle volte, si ripresentino, e di come sia complicato ignorarle. Narra dei sensi di colpa, dell’amore, del dolore e dell’amicizia. Racconta anche delle innumerevoli scelte cui la vita ci sottopone.
La fine e l'inizio
Grace
22 Febbraio 2011
Angela mi guardava con apprensione, il suo viso era una maschera di preoccupazione. La mia, ero certa, era di disperazione.
Josh se n’era andato senza neppure darmi la possibilità di capire. Avrei dovuto essere furiosa con lui, invece ero solo rammaricata di non esser riuscita ad abbracciarlo, prima che scappasse via. Per non aver conservato l’odore della sua pelle o il suono della sua risata. Avrei dimenticato anche il suo viso?
La sola idea mi terrorizzava.
Non avevo reale cognizione di quanto tempo fosse passato dal momento del mio ferimento, forse giorni, forse settimane, certo era che la sua mancanza mi distruggeva. Mi sentivo in astinenza da Josh, perciò depressa.
Al mio risveglio, dopo l’intervento chirurgico, non c’era, così pensai che Maureen fosse riuscita nel suo intento di ucciderlo.
«È stato colpito anche lui? Non è vero? È morto e non volete dirmelo!»
In fondo era possibile. Non ricordavo nulla degli attimi successivi al colpo di pistola. I miei ricordi s’interrompevano al momento dello sparo.
«No, Grace, no!» risposero in coro i miei genitori e Angela. Tutti traditori.
«Perché non è qui, allora?»
«Te lo abbiamo detto, cara, è ammalato.»
«Bugiardi!»
«Grace, calmati» mia madre, paonazza, si fece aria con la mano, Angela si rosicchiò le unghie, mentre mio padre non diede tregua ai baffi. Mentivano tutti quanti. «Perché non mi parla al telefono? Neppure una chiamata» esclamai, provando quasi un senso di umiliazione per quella verità.
«Non vuole stancarti... »
«Andate al diavolo! Andate via! Andate tutti via!» Brandii in aria il braccio sano, con fili e tubicini attaccati, e sferrai un pugno al nulla. Mi guardarono esterrefatti.
«Se non viene entro un’ora, mi stacco tutto e scappo da qui» minacciai.
«Non puoi farlo.» Angela mi lanciò un’occhiata di sfida. «Non ti reggi in piedi.»
«Ne sei davvero sicura, Moore?» Certo, era sicura, perché era vero. Non ero in grado di reggermi neppure su un gomito.
Tuttavia ero decisa: sarei fuggita reggendomi sulle dita della mano destra. «Margareth!» urlai dal mio letto di dolore, e la capo infermiera si materializzò sulla soglia della stanza quasi istantaneamente. Ebbi la sensazione che stesse origliando, in attesa del momento opportuno per sedarmi con una massiccia dose di Lexotan. «Sono stanca» sospirai, in modo teatrale, «puoi far uscire i visitatori?».
«Oh, ma Grace!» mia madre, basita, si tenne la testa come se temesse di perderla. Mio padre impallidì, i baffoni curvati all’inverosimile, mentre Angela mi guardò come se meditasse di portare a termine il lavoro lasciato a metà dall’attentatore pasticcione.
Io non avevo alcuna intenzione di desistere: o Josh o la fuga.
«E va bene, verrà nel pomeriggio» Angela parlò non mostrando neppure un briciolo di convinzione. Pessima mossa la sua. Ciò m’indusse a pensare, di più!, a un peggio
che mi era tenuto nascosto.
Che cosa poteva esserci peggio di un buco nel mio petto?
Un buco nel petto di Josh, naturalmente.
Feci a Margareth un cenno col capo, è tutto a posto
. Tuttavia lei mi guardò, indecisa.
«Buttala via, Maggie, non mi serve.» Quando spalancò gli occhi, fui certa di aver ragione riguardo all’iniezione di calmante. Senza dire una parola, il mio diretto superiore si avvicinò al cestino dei rifiuti medici, e vi gettò dentro l’intramuscolare. A testa bassa, uscì.
«Gil, se non lo vedo qui alle quattro, questo pomeriggio, andrò da lui. Chiaro?»
Angela e mia madre si scambiarono un’occhiata comprensiva, ed io le odiai immensamente per quella muta complicità.
Se Josh non fosse venuto, sarei scappata su da una sedia a rotelle.
Josh non venne.
A quel punto, il fatto che non fossi morta sotto i colpi di una pistola, mi lasciò indifferente.
Divenni apatica; vivere o lasciarmi morire era uguale. Cominciai a non dormire, non mangiare, non manifestavo alcun interesse per i progressi di guarigione. Finii per maledire la pessima mira del mio quasi assassino.
Josh
21 Febbraio 2011.
Mi svegliai di soprassalto col fiato corto e brividi di terrore lungo la schiena, alzai gli occhi e vidi le palpebre di Grace tremolare. Stava per svegliarsi. Dovevo fare in fretta, se si fosse svegliata, non avrei più avuto la forza di allontanarmi da lei. Facendo meno rumore possibile, scostai la sedia, mi alzai e mi sporsi per baciarle la fronte. Pensai, però, che sarebbe stato imprudente toccarla, allora mi avvicinai al viso, le tolsi il respiratore, e acciuffai un respiro tiepido, appena uscito dalle sue narici. Non era come toccarla, non era come baciarla, ma potevo accontentarmi. Le rimisi a posto il respiratore e uscii dalla stanza d’ospedale. Nel corridoio, trovai mio padre seduto su una panca, sonnecchiava con la testa appoggiata alla parete. Audrey e Tom, stremati, erano andati a casa, per farsi una doccia e mangiare un boccone. Sarebbero tornati presto. Angela li aveva accompagnati.
«Papà, svegliati» lo scossi piano e lui sgranò gli occhi.
«Che succede?»
«Si sta per svegliare» mormorai «ed io devo... ». Vidi mio padre deglutire a forza. Aveva intuito cosa intendevo fare e ne era rimasto sconvolto.
«Non puoi farle questo!» si affondò le mani nei capelli, «quella ragazza ha bisogno di te, Josh!»
«Lo so, ma…» ero dilaniato dal senso di colpa e, allo stesso tempo, convinto di stare agendo nel giusto. «Ha più bisogno di essere al sicuro. Con me non lo è.»
Senza voltarmi indietro, me ne andai.
Capitolo 1 Doni
Premessa: L’amore si cela dietro maschere imperfette
.
Diario di Grace.
Caro diario, m’imbottiscono di calmanti. Pensano che presto sbroccherò e tenterò la fuga da Alcatraz. In verità, ieri ho provato a farlo. L’IDIOTA ha staccato il telefono. L’utente da lei contattato non è raggiungibile. Si prega di riprovare più tardi
. Ho pensato: Forse ho esagerato.
In effetti, ho lasciato cinquanta messaggi in segreteria, trentacinque dei quali farneticanti e minacciosi, gli altri quindici imploranti e remissivi. Lo so, lo so, in realtà ho bisogno del Lexotan e tutta l’altra robaccia che mi danno. Impazzirò e sarà tutta colpa sua. Che rabbia!
E pensare che avevo studiato la mia fuga nei minimi dettagli. Tony ha distratto l’infermiera di turno, mentre me la svignavo dal corridoio centrale. Un paio di occhi azzurri tornano sempre utili. La mia intenzione era di fiondarmi al suo appartamento, quello dell’idiota intendo. È là che si nasconde! Codardo…
Stamattina, accanto al cuscino, ho trovato un pacchetto con un biglietto. Scusa se ho impiegato tanto a restituirtelo
. Dentro c’eri tu.
Per tutti questi anni, ho pensato di averti perso, invece... Lui ha questo vizio di raccattare tutti gli oggetti che smarrisco, ed è fastidioso!
A ogni modo, se non si decide a presentarsi qui per chiarire le cose, appena esco da questo posto, non mi rimarrà altro da fare che arruolarmi nella legione straniera (ammesso che abbiano deciso, di non essere più sessisti) perché lo ucciderò per quello che mi ha fatto.
Diario, dopo tutto quello che abbiamo passato, come ha potuto?
Ci siamo rincorsi per anni, e quando la corsa era finalmente finita, lui getta tutto alle ortiche. Ancora non mi capacito che abbia rinunciato a noi. Okay, è stata quella psicopatica della sua ex a tentare di farmi fuori, ma non è sua la colpa, maledizione! Forse un tempo avrei considerato la sua azione nobile e romantica, oggi, dopo essere stata a un passo dalla morte, la reputo un’autentica idiozia. La vita è troppo breve e preziosa, merita di essere vissuta nel modo migliore.
Me lo riprenderò.
A costo di beccarmi un’altra pallottola in petto.
Josh
Seattle, nei pressi del NORTHWEST HOSPITAL & MEDICAL CENTER. Notte fonda.
Strinsi il pacchetto al petto. L’avevo avvolto con un’orrenda carta marrone. Ero quasi tentato di tornare indietro e avvolgerlo col paginone centrale di playboy. Era dedicato alla fenomenale Kendra Wilkinson. La tentazione passò subito. Meglio la carta da imballaggio. Kendra poteva tornarmi utile durante una delle mie notti solitarie sulla poltrona.
‘Come mi sono ridotto…’ pensai, tristemente cosciente di non fare sesso da un sacco di tempo.
La notte era fredda e scura. Della luna nessuna traccia, e il cielo era appesantito da nuvole pronte a vomitare cascate d’acqua. Il mio umore era pessimo. Rabbrividii e accelerai il passo, stringendo più forte il pacchetto al petto. Ciò che conteneva era prezioso.
Grace aveva un talento innato nel perdere gli oggetti proprio quando mi trovavo nelle sue vicinanze. Una volta, avevo ritrovato un suo braccialetto. Era accaduto l’ultimo anno di liceo, la sera del ballo del diploma. C’eravamo baciati per la prima volta quella sera, poi avevamo litigato e lei era scappata via piangendo. Di lì a poco ci saremmo persi di vista. Il braccialetto me lo ero tenuto. Così come mi ero tenuto il suo diario, dimenticato su una panchina della stazione degli autobus di Fort Lauderdale, un’estate lontana. Grazie a quel diario avevo appreso che era innamorata di me. Sette anni dopo, l’avevo rincontrata e, come per magia, lo era ancora; come anch’io di lei.
Le avevo restituito il braccialetto.
Arrivai davanti all’ospedale fradicio di pioggia, il pacchetto era asciutto e al sicuro, dentro il giubbotto. ‘É la seconda volta che le ridò qualcosa di cui mi sono appropriato indebitamente’ pensai, scrollandomi l’acqua dai capelli. ‘Non succederà più. Le ho già preso tutto’.
Le restituii anche il diario.
Capitolo 2 L’Inizio della fine
Anni luce lontani, eppure stretti nello stesso abbraccio.
Grace
Chiusi il diario. Ero furiosa. Non sapevo se perché si fosse tenuto un altro mio oggetto per tutti questi anni, o per essersi intrufolato nella mia stanza, di notte, come un ladro. Non aveva il coraggio di parlarmi, di affrontarmi. Non sarebbe riuscito a guardarmi negli occhi. Non sarebbe riuscito neppure ad andar via sulle sue gambe però, perché, se me lo fossi trovato davanti, l’avrei preso a calci da qui all’eternità. L’avrei distrutto di pugni. L’avrei costretto a baciarmi, sfidandolo, a ogni bacio, a dichiarare che non gli mancavo per niente e che non mi amava più.
A me mancava da morire.
La nostalgia di lui, alle volte, faceva più male delle ferite che lentamente si rimarginavano sul mio corpo. Spesso, nel mio lettino d’ospedale, restavo sveglia la notte cercando una giustificazione a quanto era accaduto. Non l’avevo mai trovata. Odiavo Josh quasi quanto lo amavo.
Era convinto che chiudendo con me, tutti i nostri problemi si sarebbero risolti. Non aveva pensato che il suo abbandono mi avrebbe spezzato il cuore?
Lui era troppo ossessionato dai sensi di colpa, per dar peso a quell’inutile groviglio che rappresentavano i miei sentimenti.
Avevo provato a perdonarlo, a non giudicare terribile il suo comportamento e crudele la sua decisione, ma non c’era stato verso. Da qualsiasi prospettiva analizzavo la questione, il suo modo di agire mi appariva un vile tradimento.
Certo, avrei dovuto vuotare il sacco a proposito di Maureen e del suo comportamento psicotico, molto prima rispetto a quando mi ero decisa a farlo. Nelle settimane precedenti il mio ferimento, avevo avuto l’impressione che qualcuno mi spiasse e seguisse, ovunque. Anche quando non ero da sola. Quel qualcuno era Lei.
Non aveva mai accettato l’idea che Josh l’avesse lasciata per me. Più volte, avevo rassicurato me stessa raccontandomi la bugia, che alla fine se ne sarebbe fatta una ragione. Josh non la amava più, forse non la aveva mai amata.
Allora perché ostinarsi a volerlo per sé?
Ne era ossessionata; e dopo che lui mi aveva chiesto di sposarlo, era ossessionata anche da me.
«Se n’è andato Gil» confidai alla mia migliore amica, mentre lo sconforto prendeva di nuovo il sopravvento. «E senza voltarsi indietro!» Un attimo prima stavamo per sposarci, quello dopo Joshua mi aveva cancellata dalla sua vita.
Avrei voluto vederlo un’ultima volta…
No, lui non era morto. Aveva semplicemente deciso per entrambi. Mi aveva abbandonata dopo che aveva giurato che non l’avrebbe fatto mai. Strano modo, tutto maschile, di intendere l’amore.
‘Ti amo, ma ti lascio per proteggerti’.
Mi aveva lasciato perché era un essere spregevole.
«Su, su, Grigrì, stai tranquilla» m’incoraggiò Angela, porgendomi un fazzoletto di carta, «è solo incazzato nero. Anzi deve essere proprio fuori di sé dalla rabbia» aggiunse, facendo spallucce. «Dopo tutto devi capirlo; ti ha quasi vista morire sotto i suoi occhi, e pensa che sia tutta colpa sua.»
«Oh, per piacere!» Il sangue affluì velocemente al mio viso, accalorandolo. «Si può sapere da che parte stai?» Mi portai il fazzoletto alla bocca e depositai lì la mia disperazione. «Poteva parlarne con me» strepitai, «poteva darmi la possibilità di...» non riuscii a proseguire, tra un risucchio di muco e un altro, le lacrime sgorgarono copiose e confluirono dentro la bocca.
«Tesoro, ma certo che sono dalla tua parte!» Angela occupò posto accanto a me, sul letto, e mi strinse. Tanto forte che sentii le ossa scricchiolare. Affossai la testa dentro la sua spalla, e mi lasciai trasportare dal placido mare della commiserazione.
«Che farò adesso?»
«Come che farai?» domandò, col sorriso da inguaribile ottimista disegnato sulle labbra carnose. ‘Lui non mi vuole più!’ urlai nella mia testa, sebbene mi sembrasse un’assurdità.
«Con Joooshhh, dimmelo tuuu». Angela sospirò, e mi sistemò i capelli dietro le orecchie.
«Si aggiusterà tutto, biscottino, è naturale che sia così. Devi essere paziente. Asciugati questi lacrimoni inutili e preparati: presto tornerai alla vita.»
Nutrivo un sacco di dubbi in proposito. Che vita era senza Josh?
In ogni caso, dissi a me stessa che quello era l’ultimo pianto che consumavo su quel letto d’ospedale. Ancora qualche settimana e i medici avrebbero stilato il referto delle mie dimissioni, la terapia medicinale da seguire, e le scadenze delle sedute di fisioterapia cui avrei dovuto sottopormi per rieducare la spalla e il braccio sinistro.
Poi, sarei potuta andar via.
Ma dove sarei andata?
Al mio appartamento spoglio e desolato?
O alla villetta dei miei genitori, già pronta ad accogliermi.
Probabilmente sarei andata prima al mio appartamento, lì avrei rimesso in ordine le idee, ed escogitato un piano per riportare quell’idiota del mio ex fidanzato da me.
Il giorno successivo, due poliziotti vennero a farmi visita. Nessuno, durante la mia convalescenza, aveva accennato agli sviluppi delle investigazioni.
Io non avevo mai chiesto.
Avevo supposto che Maureen fosse stata arrestata, ma non avevo mai fatto domande. Né i miei genitori, Angela, o i familiari di Josh si erano sognati di far alcun cenno al riguardo. Era già tutto troppo doloroso.
L’indagine circa il mio tentato omicidio era stata affidata a due detective della squadra anticrimine di Seattle. Uno era l’attempato Nick Voss, un ometto basso e tarchiato, con pochi capelli e un pessimo gusto in fatto di profumi. Al suo ingresso, un lezzo terribile di colonia al mentolo rese l’aria irrespirabile. Portava un impermeabile degno del tenente Colombo, e anche la barba di qualche giorno, e un occhio leggermente più chiuso dell’altro, lo accomunavano con il personaggio televisivo. L’altro, molto più giovane, era Martin McFly. Sì, so cosa state pensando: Povero ragazzo! Una vita rovinata!
I genitori, alle volte, sono proprio incoscienti.
Aveva un viso gentile, profondi occhi blu e un sorriso caldo e sincero. Avevo bisogno di sorrisi caldi e, soprattutto, di sincerità.
Trovai strana questa visita.
«Allora, signorina Wilson» esordì l’ometto attempato, prendendo in mano un mozzicone di matita e un taccuino sgualcito. Tale e quale a Colombo! «Siamo qui per farle qualche domanda.»
McFly, di un’altra generazione, teneva in mano uno di quei telefoni/mini computer, piatti, super tecnologici e poco ingombranti, sul quale prendere appunti.
Non ero interessata alle domande, figuriamoci a dare delle risposte. Speravo solo che Maureen rimanesse al fresco per un bel po’, e che fosse curata a dovere. E, comunque, da me non avrebbero cavato un ragno dal buco. Non ricordavo, in concreto, nulla di quella sera, se non il chiasso del pronto soccorso e la faccia stravolta di Josh. Tutto ciò non aveva importanza, no?
C’erano altri mille indizi che portavano alla colpevolezza di Maureen.
«Fate pure.»
«Che cosa ricorda della sera del suo ferimento?» Iniziò Voss.
«Non molto; le immagini nella mia testa sono piuttosto confuse.»
«Ha visto chi ha sparato? Può darci una descrizione?» chiese McFly, andando dritto al sodo.
La domanda m’inquietò. Maureen era ancora… in libertà?
Piccoli brividi, affilati come lame di coltello, s’insinuarono sotto la pelle.
«Ho un vago ricordo di un’ombra e un luccichio. Credo di aver visto la pistola.»
«Il Signor Carter asserisce che lui era davanti a lei, e che lei si è spostata un momento prima dello sparo, per far da scudo col suo corpo.»
McFly riportò le parole per far da scudo col suo corpo
come se non credesse alle proprie orecchie.
«Josh ha esagerato» risposi in maniera distratta. Il cuore aveva preso a battermi forte. Se la pazza era ancora libera, non ero al sicuro. E non lo era neppure Josh!
«É possibile che il bersaglio fosse lei da tutto principio?» chiese Voss. Ascoltai la domanda dell’uomo, mentre una voce nella mia testa urlava:
‘Saaanta Penelope! Non l’avete ancora presaaa?’
«No» risposi con voce tremula, «penso volessero uccidere Josh. Scusi, ma allora non…» stavo per svenire, o dare di matto, quando il sosia di Colombo m’interruppe.
«Il signor Carter non doveva essere in quel parcheggio, quella sera, giusto?» obiettò, e non a torto. Josh non doveva essere lì, quella sera. Tutte le altre sere, la sua presenza era stata plausibile, ma non la vigilia delle nostre nozze. Chi aveva architettato l’agguato aveva sicuramente studiato i nostri movimenti, e non poteva certo prevedere che Josh avrebbe disubbidito al mio ordine di non farsi vedere, presentandosi all’ospedale. Sotto quella luce, l’ipotesi di Voss acquisiva fondamento. Iniziai a sudare freddo perché ‘Merdaaa! La pazza è ancora liberaaa!’.
«Io. Non. Lo. So» scandii lentamente. Mi portai una mano alla gola, ebbi l’impressione che si fosse ristretta di botto, perché cominciò a mancarmi l’aria. Presi un respiro profondo, tuttavia servì a poco. Soffocavo dalla paura!
«Signorina Wilson, si sente bene?» McFly si avvicinò al bordo del letto e mi guardò preoccupato. «É pallida, vuole che chiami il medico?»
«Sta bene» intervenne Voss con supponenza. «Era già pallida quando siamo arrivati. Abbiamo aspettato fin troppo per interrogarla. Navighiamo in alto mare, lo hai dimenticato? Non morirà certo per qualche domanda. Non è morta per una pallottola in petto!» Caspita, quel mostro di gentilezza non si era fermato neppure per riprendere fiato.
McFly si voltò e lo trafisse con un’occhiata, ma quello, impassibile, continuò a fissarmi come se fossi l’Esagerazione in persona.
«Vacci piano, Voss»
«Sto bene, detective» mentii, armeggiando col cuscino dietro la schiena. «Andiamo avanti.» Mi sentivo come se stessi per avere un infarto.
«Guardi che non è obbligata, possiamo tornare» alzai gli occhi e mi trovai il giovane detective chino sul mio letto. Stava sistemando le coperte.
Molto premuroso da parte sua.
«Vedi Martin? Sta bene» disse Voss, «andiamo avanti». Martin non rispose, prima finì di rimboccarmi le coperte, poi si volse e lanciò al collega un’altra occhiataccia. Quest’ultimo gli mimò «Dacci un taglio, pivello» e così McFly si arrese.
‘Che uomo impossibile’ pensai fra me, ‘come fa a lavorarci insieme?’.
Il detective McFly mi guardò di sfuggita, dal lieve rossore delle guance intuii che fosse in imbarazzo. Provai un moto di tenerezza per lui, e uno di astio per l’ometto tremendo e insensibile.
«Prego, Voss» ringhiò a voce bassa, «fai le domande».
E Voss, con un ghigno soddisfatto, ricominciò l’interrogatorio. Volle sapere di luoghi, date, nomi, abitudini. Risposi diligentemente a tutte le domande e tenni per la fine l’unica che avevo intenzione di porre loro.
«Perché Lei non è in galera?» solo a pronunciare la parola ‘Lei’ mi sentii mancare.
«Lei chi?» chiese Voss, con un sopracciglio alzato.
«Maureen Moskowitz» risposi, sforzandomi di non far tremare la voce. Mi faceva ancora paura.
«Il suo fidanzato…»
«Non è più il mio fidanzato!»
Ecco perché Josh non voleva stare con me. Lei era ancora in libertà.
«Il signor Carter» riprovò Voss, «ha fatto subito il nome della signorina Moskowitz, adducendo motivi ed episodi abbastanza gravi, che però non sono stati denunciati per tempo.» Terminò la frase, con un’eloquente espressione di biasimo stampata sulla faccia rugosa. «In ogni caso, per quella sera, la signorina Moskowitz ha un alibi di ferro: era ricoverata presso una clinica,