Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

Le stanze del tempo
Le stanze del tempo
Le stanze del tempo
Ebook452 pages6 hours

Le stanze del tempo

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

Una storia vera? Probabilmente. Forse tu che leggi potrai aiutare l’autrice a scoprirlo e a darci indizi sempre nuovi sulla vera identità di Berta, la straordinaria protagonista di questa storia. Questo romanzo è frutto di una serie di sogni dell’autrice, dove la protagonista le ha narrato la sua vita sorprendente.

Genga (AN), fine ’800. Salvo, poco più di un bambino e già orfano di madre, mentre sta rientrando a casa dopo una giornata di lavoro nei campi, trova il padre a terra, morto. Salvo non si perde d’animo e per sopravvivere si barcamena tra vari lavori, fra cui quello di bracciante presso Domenico e Annetta, proprietari di un vasto podere e genitori di due sue coetanee, Berta e Clotilde. Berta e Salvo finiscono per innamorarsi e una sera Berta rimane incinta. Un matrimonio riparatore è l’unica soluzione possibile. Salvo, orgoglioso e testardo, nonostante sia quasi privo di mezzi, chiede a Domenico di potersi occupare della propria famiglia da solo, senza aiuti economici dal suocero.

Nel paese viene costruita una fornace e il giovane riesce a farvisi assumere. Nascono due figli, Antonio e Giuseppe, detto Pino. Passano gli anni e Antonio, al quale nonno Domenico ha trasmesso la passione per lo studio, parte per la Germania per diventare professore, con somma ira di Salvo.

Nasce un’epopea degli umili, una vicenda di generazioni che coinvolgerà Salvo, Berta, le loro famiglie e i loro discendenti, in un percorso durissimo e toccante attraverso un pezzo fondamentale di storia italiana ed europea e attraverso le due grandi guerre che, nel “Secolo Breve”, sconvolsero il mondo.

Federica Bernardini vive a Jesi, nelle Marche. È sposata e madre di due figlie. È costantemente in giro per il mondo per il suo lavoro di imprenditrice ma la passione per la scrittura la segue ovunque. Ha iniziato scrivendo poesie e vincendo numerosissimi e qualificati premi, poi passata alla narrativa con il libro Un paese da vendere, seguito da una raccolta di racconti, La donna che voleva volare, vincitore di un prestigioso premio internazionale. Le stanze del tempo è nato da una lunga serie di sogni nei quali una donna misteriosa è apparsa all’autrice narrandole la storia della sua vita e chiedendole di scriverla. Da questi fatti sorprendenti è nata una ricerca sulle orme di una persona che, secondo gli indizi finora raccolti, sembra sia realmente esistita.
LanguageItaliano
Release dateApr 28, 2014
ISBN9788869092121
Le stanze del tempo

Read more from Federica Bernardini

Related to Le stanze del tempo

Related ebooks

European History For You

View More

Related articles

Related categories

Reviews for Le stanze del tempo

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    Le stanze del tempo - Federica Bernardini

    1946

    Introduzione

    Ancora una notte che si lascia sopraffare dalla cinica serenità del silenzio, mentre aspetto il beneficio di un sonno liberatore che non arriva. Fessure di luce opaca filtrano dalle persiane e si proiettano sui muri, costanti testimoni della mia insonnia. Un bagliore di sole s’introduce nella stanza e mi trovo immersa nella calura estiva di una pianura sconfinata.

    Un casolare si erge sull’apice di un colle, accanto a una fatiscente chiesa di campagna. Una donna scura di capelli, chiusa in un lungo abito grigio, mi osserva e mi sorride ma so di non conoscerla. Cammina verso me, più si avvicina e più aumenta l’andatura. Posso sfiorarla e ho paura.

    «Ti ho cercato dappertutto…»

    «Chi sei, cosa vuoi da me?»

    «Sono Berta. Voglio raccontarti una storia.»

    Un vento freddo penetra nel mio corpo, capisco che sto sognando e ho ancora più paura.

    «Perché hai scelto me?»

    «Ti sono accanto da molto tempo, voglio che tu scriva la mia storia.»

    Gli occhi azzurri, cupi come il mare d’inverno, mi fissano.

    La paura si sta dissolvendo.

    «Come farò? Non conosco il luogo dove ci troviamo, quali personaggi devo descrivere…»

    «Fidati di me, sarà facile, vedrai ed io ti sarò accanto ogni volta che tu ne avrai bisogno.»

    Le parole si rincorrono e ascolto rapita. Mi ritrovo in luoghi del mio territorio che non ho mai visto e la curiosità si unisce al fascino del racconto. La mia testa assorbe ogni dettaglio e i personaggi si fanno notare con dovizia di particolari, perfino le caratteristiche fisiche si rivelano al mio sguardo.

    Ancora vento freddo dentro il mio corpo e mi ritrovo stupita nella camera illuminata dal giorno. La testa pulsa, colma d’idee, e il cuore batte forte. Combatto contro me stessa e vinco. Oggi inizio il mio libro. E se Berta non si farà più vedere? No, Berta ritornerà.

    Impugno la penna e le parole fluiscono senza la incertezze. La storia di Berta si snoda fra eventi ogni volta più eclatanti. Ormai lei mi appartiene e temo che ogni incontro possa essere l’ultimo.

    Mentre scrivo, in un angolo del salotto, percepisco una presenza accanto. Mi guardo attorno, Berta è qui a pochi passi da me, doveva accadere, ne ero certa, doveva accadere. Non parla ma la sua presenza è attiva, il suo sguardo è attratto da un quadro di donna, posto sopra il pianoforte. Si sofferma davanti all’immagine, gli occhi lucidi. Perché è attratta da quel quadro? Cosa c’entra la nonna Stamira con lei?

    Scompare e mi manca il respiro.

    Stanza I. 1886-1918

    Mentre il giorno si congedava dietro una cortina d’azzurro, un piccolo gatto grigio era sdraiato sotto una fila di girasoli. Il suo corpo immobile era in contrapposizione con lo sguardo, rivolto verso i pendii traboccanti di ulivi. Nelle iridi cerulee si riflettevano i movimenti di un uomo intento a tagliare legna da ardere.

    Nel momento in cui il sole si arrendeva alla notte nel rosso furore dell’orizzonte, Egidio, fabbro e maniscalco del paese di Genga, nelle Marche, stava confezionando una sigaretta. Da un sacchetto di tela grezza aveva estratto trinciato di tabacco, l’aveva avvolto in una cartina e acceso con un fiammifero di legno.

    Egidio non aveva mai abbattuto alberi, per rispetto; portava a casa solo rami secchi, che legava insieme e caricava sulle spalle, ma non era l’unica ragione per cui si trovava in quel bosco. Amava restare solo ed evocare il passato e il silenzio assoluto era per lui un amabile compagno.

    Il gatto si alzò, le orecchie erano rivolte all’indietro mentre le narici si aprivano e chiudevano ritmicamente, lo sguardo fisso sull’uomo e il corpo privo di movimento. Le vette dei monti si proiettavano come torri di guardia di un antico castello sulle macchie di colore dei terreni e sui casolari di campagna, collegati da sentieri tortuosi.

    La sigaretta si consumava fra le dita di Egidio e dalle sue labbra si sprigionava un fumo biancastro nel quale gli pareva di scorgere le sembianze della moglie. Da quando era morta di parto, quindici anni prima, lui non aveva più avuto una donna. "Eri bella tanto eri timida e io ti spogliavo con gli occhi. Pettinavo i tuoi capelli illuminati dal mattino e mi bastava un tuo sguardo per trascorrere un giorno felice. La notte non riesco a dormire. Salvo ha sentito i miei lamenti e si è infilato nel mio pagliericcio. ‘Perché piagnede? Se ho fatto qualcosa de male ditemelo, lavorerò de più, farò tutto quello che vorrede, ma non voglio che soffrite.’ Per la prima volta l’ho abbracciato. ‘Non sei tu che mi fai piagne, è la vita che non è stata bona con me.’ Una rapida carezza sul viso e la mia voce ha riacquistato il tono di sempre. ‘Forza, torna al tuo posto, domà dovemo fadigà.’ Dicono che io so un tipaccio ma a me non me ne frega niente di quello che pensano l’altri. Quando riesco a guadagnà un pezzo di pane bianco, un uovo fresco o un po’ di formaggio io sono a posto e mi diverto a stuzzicà mio fijo. ‘Anche oggi ti ho portato da mangià perché devi crescere e qui c’è bisogno di qualcuno che lavora.’

    Salvo non è impressionato. ‘Il pane so guadagnammelo da solo, perché corro tutto il giorno nei campi dei nostri vicini, abbevero l’animali, pascolo le pecore, aiuto i grandi nella raccolta delle olive e la sera, quando torno, ho sempre qualcosa da magnà per tutti e due’ mi ha detto." Egidio se n’era andato contento di quella risposta, ma non gliel’aveva fatto capire. Mille altri ricordi, mille pensieri disperati si alternavano nel cuore di un uomo solo nel breve tempo di una sigaretta.

    Le prime ombre, silenziose sentinelle della notte, strisciavano sui terreni coltivati per annientare l’ultima carezza del sole.

    Il gatto grigio emise uno strano miagolio, quasi un lamento, poi quatto quatto cominciò a muoversi verso il pendio degli ulivi, camminando quasi raso terra, lo sguardo fisso sull’uomo.

    Egidio si caricò il fardello sulle spalle e si diresse verso casa. La notte possedeva il giorno in un abbraccio di fuoco. Un forte dolore al petto lo fece sobbalzare. «Signore mio, che c’ho?» La fascina cadde a terra e lui sedette accanto a un masso, era ormai vicino a casa. «Non riesco a respirà, perché?» Il sudore grondava dal corpo.

    Il gatto grigio correva con le falcate di un leone, in pochi secondi aveva raggiunto l’uomo e leccava la sua mano.

    «Perché non riesco a moveme?» Il viso contratto si rilassò alle carezze del gatto. L’uomo riuscì a toccarlo e piano piano appoggiò la testa sul masso. La bestiolina saltò sopra di lui e continuò a lambirlo con la lingua.

    Siamo arrivati Dina, quello è il tetto della nostra casa. Siediti accanto a me, tra poco spunteranno le stelle.

    Com’era bella Dina nel suo abito bianco. Egidio morì nel primo impulso della notte, accarezzando il gatto e pensando al figlio che avrebbe voluto stringere tra le braccia.

    Salvo correva felice tra i campi calpestando a zig-zag l’erba ispida che gli solleticava i piedi nudi. Stasera se magna, stasera se magna, e me lo so guadagnato io. Il signor Domenico non me lassa mai a bocca asciutta. Babbo sarà contento e forse non brontolerà. Teneva ben stretto il cartoccio il cui contenuto avrebbe riempito il suo stomaco vuoto e quello di suo padre. A pochi passi da casa si bloccò di colpo. Sotto la vecchia quercia giaceva un uomo, il capo appoggiato sopra un masso. Si avvicinò e si accorse che era suo padre, lo sollevò con tutte le sue forze e lo scosse ma era inerte. Un gattino grigio gli stava accanto, e non si era mosso nel vedere Salvo. «Babbo, parlateme, non me potete lassà solo. Fadigherò ancora de più. Babbo, stademe a sentì.»

    Gli occhi dell’uomo erano spenti, lontani, persi nel grigio del cielo. Forse per sempre. Per la prima volta la vide, quella era la faccia della morte.

    Cominciò a correre e correre. Le ombre affannate del buio, nello scontro con gli ultimi bagliori di luce, rendevano meno visibile il corpo del ragazzo che sembrava volare in quella campagna che si stava concedendo alla notte. Vicino alla piazzetta del paese, in preda a una crisi di pianto, gridò con tutta la voce che poteva avere in gola. «Babbo sta morenno, babbo sta morenno, iudademe.» Bastò uno sguardo e tutti si mossero verso la casa di Egidio.

    * * *

    Salvo era solo in quella casa dove aveva vissuto con suo padre per tanti anni. Sul tavolo, in bella vista, c’era il cartoccio che gli aveva regalato il signor Domenico. L’istinto e la fame lo spinsero ad aprirlo. La sua coscienza lo rimproverava, però la fame era così forte che mise in bocca un pezzo di formaggio e un boccone di pane. Da un angolo buio della casa uscì il gatto grigio che aveva trovato accanto al cadavere di suo padre e gli saltò sulle ginocchia. Salvo lo guardò stupito, poi gli parlò convinto che l’animale potesse capirlo. «Perché sei venudo da me, proprio oggi, perché stavi lì?» Il gatto lo fissava con occhi azzurri simili a quelli di Egidio.

    «Forse è stato lui a facce incontrà e noi non ce lasceremo mai.»

    Mangiarono insieme. Salvo percepiva qualcosa di strano in quel gatto che lo osservava con sguardo quasi umano. «Dormimo insieme, ti va? Prima però fammi unire i pajericci.» Il ragazzo si sdraiò, il gatto si infilò sotto la coperta e si girò di fianco, come una persona. Le piccole e morbide zampe si appressarono al viso del ragazzo e lo accarezzarono con la tenerezza che solo una madre sa dare.

    «Hai lo stesso odore de mi padre, quel sudore che se sentiva anche quando ’l freddo facea strembolì. Ma chi sei te chi sei? Voglio chiamatte Pio. Tu devi giurare che non mi abbandonerai mai.»

    Il gatto Pio si stiracchiò, poi si fece spazio sotto il suo braccio e si addormentò. Anche Salvo voleva dormire e voleva sognare di ritrovare sua madre in compagnia di suo padre, ma non sognò. Da quel giorno non ci riuscì più. Il giorno seguente, dopo la funzione religiosa, gli uomini del paese seppellirono Egidio accanto a sua moglie. Al momento del commiato, il gatto Pio si accostò al cumulo di terra e ci si sedette sopra mentre il suo sguardo non si staccava da quello del ragazzo.

    Salvo rientrò a casa la sera, dopo il funerale. Mamma Nella, una delle cinque mamme che l’avevano adottato, lo accompagnò e cercò di sistemare la stanza dove avrebbe abitato da solo.

    Avrebbe voluto tenere il ragazzo con sé ma gli altri cinque figli avrebbero trovato da ridire, soprattutto considerato il periodo di estrema miseria che stavano attraversando. Poi, in fondo, era certa che Salvo non sarebbe mai andato da lei, conosceva il suo orgoglio, sapeva che lo spingeva ad accettare qualcosa dagli altri solo quando era sicuro di esserselo guadagnato.

    Per la prima volta, quando Nella se ne andò dalla casa non si sentì chiamare mamma. Mentre Salvo cenava con un pezzo di formaggio e due fette di pane, Pio lo raggiunse e gli si acciambellò in grembo.

    Il ragazzo percepì di nuovo l’odore di suo padre.

    * * *

    Qualche tempo dopo, mentre attraversava un campo riarso dal sole, Salvo afferrò un baccello rinsecchito e lo aprì, ne uscirono dei semi giallognoli che parevano morti anzitempo. Avveniva lo stesso per gli altri campi lì intorno, la siccità comprometteva il raccolto di un anno.

    Raggiunse un casolare per vedere se ci fossero lavori da svolgere e per l’ennesima volta trovò solo gente stanca sugli usci con lo sguardo perso lontano nella speranza di veder apparire qualche nuvola.

    Gli offrirono un tozzo di pane e un pezzo di formaggio, ma lui, nonostante digiunasse da giorni, come d’abitudine li rifiutò.

    A casa, le sue mamme si accorsero del suo stato e pur sapendo che toglievano cibo ai loro figli lo costrinsero a mangiare quel poco che potevano offrirgli.

    Salvo riprese un po’ le forze e decise di andare nel bosco a preparare le fascine per l’inverno, come aveva visto fare ogni anno da suo padre. Finita la raccolta, si era seduto su un masso al limitare del bosco quando a un tratto si sentì sfiorare le gambe. Era il gatto Pio. Lo accarezzò, poi s’incamminarono sui sentieri illuminati da squarci d’azzurro.

    Giunti a casa, Salvo iniziò a sistemare la legna sotto una tettoia per farla asciugare, in modo che fosse pronta per l’inverno.

    Quando una luce improvvisa preannunciò il borbottio di un tuono, si affrettò a rincasare sotto cirri rosati che si rincorrevano nel fulgore di un tramonto appena appannato. In lontananza intravide uno strato grigio piombo solcato di striature argentate che opprimeva gli angoli del cielo. Piano piano l’azzurro si ridimensionò e il grigio catturò le nubi biancastre. Un lampo di luce e un boato scossero l’aria tesa, rarefatta. Un esercito di figure scomposte, angeli dalle trombe impazzite sopra cavalli bizzarri, uomini in caduta libera verso la terra si intrecciarono in un urlo di pioggia che sarebbe durato un giorno intero, all’inizio in maniera travolgente poi lentamente.

    Salvo si alzò convinto che quel giorno avrebbe trovato da lavorare.

    Cercò nella vecchia cassapanca qualcosa da mettersi addosso ma i pochi indumenti che aveva gli andavano stretti.

    «Mejo cuscì tengono più caldo.»

    Si rivolse a Pio. «Io vado a lavorà, tu guarda la casa.»

    Il gatto si sistemò davanti al focolare e Salvo se ne andò sorridendo, quel giorno poteva rendere bene. Passò ai piedi alla collina che sovrastava il paese. Domenico, il proprietario, la faceva coltivare a grano, ortaggi e legumi nella parte a nord. Sull’altro versante invece facevano capolino uliveti e vigneti.

    Giunto al casolare, trovò la porta aperta.

    «Buongiorno, c’è da fare qualcosa?»

    Annetta, la moglie di Domenico e una delle cinque mamme di Salvo, lo guardò sorridendo. «Hai mangiato?»

    «Be’, io veramente… sì.»

    «Non si dicono le bugie!»

    Lo strinse tra le braccia e Salvo sentì il profumo del sapone con il quale si faceva il bucato, la pelle di lei era morbida e il ragazzo si scioglieva tra le sue braccia. Teneva nella mano grassottella un pezzo di stoffa ricamato. Salvo lo indicò. «L’avete fatto voi?»

    «Sì, devo ancora terminarlo.»

    «E poi che ci fate?»

    «Ne faccio tanti nelle poche ore del giorno che posso, poi in primavera e in estate li andiamo a vendere a Jesi.»

    «Con il calesse?»

    «Sì, Domenico lo tira a lucido, la prossima volta ci vieni anche tu.» Pochi minuti dopo una tazza di latte fumante era davanti ai suoi occhi. Salvo aveva uno sguardo malinconico e lei ne intuì il motivo.

    «Non ti preoccupare, dopo avrai da lavorare, sta’ tranquillo. Il temporale ha distrutto il pollaio e Domenico sta cercando di rimetterlo in piedi, ma le galline sono scappate. Clotilde e Berta le stanno cercando, ma non conoscono le strade come te, quindi adesso mangia poi vai a da’ loro una mano.»

    Annetta lo seguiva con lo sguardo mettersi in bocca il pane con voracità e s’inteneriva pensandolo solo, senza una madre.

    Dopo la colazione Salvo uscì. Le due figliole di Annetta e Domenico avevano i piedi in mezzo al fango mentre cercavano le galline disperse. Il ragazzo si tolse gli zoccoli di legno e li appoggiò di fianco alla cascina, poi le raggiunse e disse loro di tornare verso casa. Clotilde, che sua coetanea, aveva tre anni più di Berta e non le somigliava per nulla. Le due non sembravano neanche sorelle.

    La più piccola all’arrivo di Salvo fece subito un balzello, poi si girò a guardarlo e si fermò. Pur essendo una ragazzina era già femmina. La sua era una bellezza prepotente, messa in risalto da un corpo snello e nervoso che non teneva mai in ozio.

    Clotilde, invece, per qualche secondo se ne restò immobile, lo sguardo ipnotizzato dal fango. Pareva che facesse la bella statuina, anche se a dire il vero tanto bella non era, o meglio la sua pacata bellezza si nascondeva dietro un comportamento severo, privo di emozioni. Non sapeva sorridere.

    «Allora Monachella, voi stà lì fino a domattina?» fece Berta. La canzonava con quel nomignolo perché per lei ogni consiglio dei genitori era un ordine, seguiva con costanza le approssimative lezioni del padre e ben presto l’alunna aveva superato l’insegnante. La ragazza trascorreva interi pomeriggi a leggere.

    Berta ritornò nei pressi di Clotilde e le diede una spintarella, poi si rivolse ancora verso Salvo e di nuovo si mise a fissarlo.

    Era quasi l’imbrunire quando il ragazzo ritornò con l’ultima gallina in mano. Domenico nel frattempo aveva finito di sistemare il pollaio. Salvo portò a casa mezza forma di cacio e una fila di pane, oro per qualche giorno.

    * * *

    Gli anni trascorrevano senza fretta nell’attesa di qualcosa di nuovo che mai giungeva. I mesi si alternavano e le stagioni, a volte magnanime a volte disastrose, condizionavano la vita degli abitanti del paese e di conseguenza quella di Salvo, che aveva bisogno di certezze, stanco di mendicare un pasto per sopravvivere e di vestirsi con gli indumenti già vecchi di suo padre. Avvertiva cambiamenti nel proprio corpo e nuove esigenze e desideri nascere in lui.

    Si coricò nel suo giaciglio una notte d’inverno in cui il freddo scendeva fino all’anima. Dio, se tu esisti, perché mi hai creato? Perché devo continuà a vive? E perché non riesco più a sognà?

    Prima di rimettere in funzione la bottega di fabbro e maniscalco appartenuta a suo padre, Salvo si consultò a lungo con Domenico. L’uomo cercava di incoraggiarlo però si rendeva conto, e lo fece capire al ragazzo, che non ci sarebbe stata una gran mole di lavoro considerate le caratteristiche, il numero degli abitanti del paese e la crisi economica che l’Italia stava attraversando.

    Un giorno, quando Berta si accorse che Salvo stava parlando nell’aia con suo padre si precipitò per le scale e se la ritrovarono di fronte con le sue grandi perle azzurre spalancate e il sorriso sulle labbra carnose.

    Il ragazzo la vide e arrossì. Il fatto non sfuggì a Domenico, come non gli sfuggì lo strano comportamento della figlia.

    Salvo avvertì un calore incontenibile salire dalla parte bassa verso il centro del corpo e fu costretto a scappare lasciando Berta sgomenta e Domenico perplesso.

    Come previsto, all’officina non giunsero molti clienti e Salvo decise di andarsene da quel paese. Non poteva più continuare a sognare una vita diversa mentre se ne restava con le mani in mano.

    Il desiderio di emigrare in un’altra nazione, magari in America, era forte. Avrebbe però dovuto affrontare un viaggio lungo e costoso, e poi… poi c’era Berta. Quando la ragazza volgeva verso di lui il suo sguardo dolce e il suo sorriso, in Salvo svaniva del tutto la voglia di partire.

    Lo sguardo di lei, corteggiata invano dai giovani del paese, si posava solo su di lui.

    Un giorno s’incontrarono al pozzo dove lei andava d’estate e d’inverno.

    Lui, quando la vide arrivare, longilinea e fiera, con il suo passo veloce e la brocca sul capo come una regina, sentì la necessità di andarsene, convinto che il tumulto che gli scoppiava dentro si percepisse dal rossore del volto.

    Si incontrarono molte altre volte al pozzo, era ormai divenuta un’indispensabile e dolcissima abitudine, la brocca sulla testa di Berta traballava, le parole non uscivano ma gli occhi e le mani che si sfioravano quasi con paura erano capaci di trasmettere ciò che la bocca non poteva mormorare. Salvo non riusciva a immaginare come sarebbe vissuto in un paese straniero lontano da lei e da quel luogo che era diventato ormai l’unica vera ragione di vita e riscatto. Sapeva che la posizione economica di Berta era molto diversa dalla propria. Anche se Domenico lo aiutava e gli voleva bene, certamente pretendeva per la figlia un uomo più importante.

    Pensava alle mani di lei, che spesso toccava di sfuggita alla fonte, e il cuore non sapeva più regolare i suoi battiti.

    Il giorno in cui decise di emigrare, la attese al pozzo poco prima dell’imbrunire.

    «Parto, Berta, vado nelle Germanie.»

    Gli occhi della ragazza, due fessure azzurre piene di rancore, lo fissavano come fosse un estraneo. Il fazzoletto, che lei portava arrotolato sopra la testa per sistemarvi la brocca, cadde a terra e i lunghi capelli neri le scesero sulle spalle. Si allontanò correndo senza una meta precisa, in lei c’era la collera dell’animale ferito.

    Salvo non capì subito la sua reazione, ma cercò di raggiungerla e ci riuscì. La fermò di fronte a sé e le scoprì il viso. Era tiepido di lacrime.

    Allora la rovesciò su di un prato di papaveri rossi, ne raccolse qualcuno, intrecciò per lei una collana e gliela mise al collo.

    Inesperti e sinceri, teneri e delicati, offrirono alle mani il loro desiderio d’amare e le mani donarono al corpo la loro sapiente innocenza.

    Il primo contatto fisico giunse inaspettato e vi si abbandonarono con la speranza di mettere a tacere la loro disperazione.

    In una notte di luglio, testimone una luna ruffiana tra le cime silenziose delle montagne, Salvo e Berta, giovani, quasi bambini, e inesperti amanti su un campo profumato di fieno, rubarono al tempo infiniti momenti d’amore.

    Quando Berta ritornò a casa, con notevole ritardo, la madre la guardò a lungo, aspettando che la ragazza si giustificasse, ma lei non disse nulla.

    * * *

    I giorni trascorrevano e gli incontri si ripetevano.

    Salvo non fece più cenno alla sua decisione di partire.

    Ogni settimana Berta e la sorella andavano al fiume per lavare la loro biancheria e gli abiti. Le altre donne del paese, tra una chiacchiera e l’altra, non dimenticavano di controllare che nel da bucato delle ragazze vi fossero anche le pezze che si usano durante le mestruazioni.

    Da circa due mesi Berta non lavava le sue.

    La notizia in poco tempo si diffuse per il paese.

    Un sabato mattina il padre della ragazza si presentò nella piccola bottega di Salvo. Domenico, con il viso rosso per il freddo che cominciava a farsi intenso, entrò e gli si pose davanti.

    «Berta è incinta. Che cosa vuoi fare?»

    «Lo so, io voglio sposarla.»

    «Una moglie e un figlio costano, come farai?»

    L’uomo guardava il ragazzo, che lo fissava fiero.

    «Dove andrete ad abitare? Potete venire da noi.»

    Salvo chinò lo sguardo a terra e Domenico provò tenerezza per quel ragazzo che in paese tutti amavano e stimavano. Conosceva il suo orgoglio, non avrebbe accettato la sua offerta, ne era certo.

    «Signor Domenico, sono io il padre del bambino e sono io che lo devo mantené. Anche Berta è d’accordo. Il vostro aiudo ce potrebbe fa comodo nte nantro modo. Di chi è quella casetta vicina al vecchio mulino?»

    «Di nessuno, credo. Perché?»

    «Ve potede informà?»

    Dopo due giorni, Domenico tornò nell’officina e confermò che la casa non aveva un proprietario.

    «Mi accompagnate a vederla?» Domenico annuì e si avviarono insieme, in silenzio.

    La costruzione, gravemente deteriorata, era su due piani e, forse, aveva un sottotetto. La muratura di pietra non aveva intonaco ed era legata con malta e calce.

    Domenico guardò il tetto.

    «Vedi? È fatiscente, l’hanno fatta con i coppi di argilla cotta. Proviamo a vedere dentro.»

    «Non ho capido la parola che avede detto ma vabbè, lo stesso.»

    Aprì la porta cigolante ed entrarono in una stanzina dotata di un’unica finestra.

    Uscirono e salirono per una scala esterna di pietra. Il piano superiore era identico a quello di sotto ma con due finestre e un grosso focolare addossato alla parete. Sul ballatoio un vecchio treppiedi di legno tarlato conteneva i barili per l’acqua. Domenico fulminò Salvo con lo sguardo.

    «Cosa vuoi tirar fuori da questo disastro?»

    «Pensavo peggio. Sotto sistemerò la mia bottega e sopra la nostra casa.»

    Salvo aveva gli occhi lucidi e Domenico non se la sentì di contraddirlo.

    «Voglio aiutarti a ristrutturarla, lavoreremo insieme, almeno questo mi permetti di farlo per mia figlia?»

    Il ragazzo sorrise e Domenico capì che acconsentiva.

    I lavori iniziarono il giorno seguente. Come prima cosa ricoprirono il tetto con altri coppi che andarono a comprare nella vecchia fornace della vicina città. Salvo obbligò Domenico ad acquistare quelli di scarto perché secondo lui andavano bene ugualmente.

    Si passò poi alla ripulitura delle porte e delle finestre, che vennero carteggiate. Domenico sistemò il camino e risultò un capolavoro. Salvo pitturò le due stanze con un impasto di sabbia e calce, aggiustò il pavimento e poi per un giorno intero scomparve.

    Quando ritornò chiese in prestito a Domenico il carretto e lo pregò di andare insieme a lui nel bosco vicino. Una catasta di legno pronto per essere lavorato li aspettava. Lo sistemarono sul carro e Domenico gli chiese dove avesse intenzione di scaricarlo.

    «Alla bottega di Giulio, per lavorarlo. Ne ho tagliato di più, così lo ricompenserò per avemme prestato le macchine.»

    Salvo si dedicava al legno di notte per non impegnare le macchine dell’amico di giorno. Ultimato il lavoro, chiese di nuovo a Domenico in prestito il carro per trasportare il tutto alla nuova casa. L’uomo rimase stupito nel vedere l’armadio, il tavolo e le sedie costruite dal ragazzo. Ebbe il magone quando vide il letto. Quattro tavole inchiodate insieme, ma molto più comode di un pagliericcio.

    «Chi ti ha insegnato a fare il falegname?»

    Salvo sorrise. «Io il mestiere lo rubbo con l’occhi.»

    Per completare l’opera, con il legno avanzato costruì alcuni ripiani che Domenico incassò nel muro. Li avrebbero usati per sistemare gli utensili da cucina.

    * * *

    Le nozze erano state fissate per la mattina presto, perché un matrimonio riparatore è una vergogna, non un motivo di festa.

    La sera prima, dopo che Salvo se ne fu andato, Domenico condusse Annetta a vedere la casa degli sposi.

    Mancava un tocco femminile e la donna si diede subito da fare. Domenico aveva preparato una travetta in legno che congiungeva due pareti della stanza. Vi appesero una tenda colorata che separava la cucina dalla camera. Una specie di materasso gonfio di crine era stato cucito da Annetta e sistemato sul letto con coperta e lenzuola di tela. La dote della sposa era chiusa in una cassapanca posta accanto all’armadio.

    Dall’altra parte della stanza c’era la piccola panca di Salvo con dentro le sue poche cose e quelle appartenute a suo padre. Annetta, timorosa, tirò fuori da una canestra un po’ di biancheria, qualche camicia, due paia di pantaloni e un vestito da sposo comprato a occhio, senza neppure una misura.

    «Sono certa che non accetterà.»

    «Sta’ tranquilla, penserò io a calmarlo, anzi, dammi l’abito, glielo porterò prima che si svegli.»

    L’indomani, all’alba, tirò fuori il calesse delle grandi occasioni e andò a casa di Salvo.

    Il ragazzo lo sentì arrivare e corse ad aprire la porta. Domenico se lo trovò davanti felice e con un sorriso smagliante, strizzato in un vestito che quasi non lo faceva respirare.

    «Ma dove vai, conciato a questo modo?»

    Il sorriso scomparve.

    «Mi padre lo portava quanno s’è sposado…»

    «Salvo, quanti anni sono passati? Tu sei il doppio di tuo padre…»

    «Non ho altri vestidi, o questo o… questo.» E chinò il capo.

    «O questo» disse l’uomo, tirando fuori l’abito comprato da Annetta. «Per mia figlia non voglio un uomo che sembra insaccato come un salame.» E scoppiò a ridere di gusto, ma Salvo era rimasto serio. Il ragazzo si girò per non far vedere le lacrime. Domenico se ne accorse e si pentì subito della battuta.

    «Quest’abito te lo manda Annetta, vorresti rifiutarlo? Lo ha scelto Berta.»

    Salvo non riusciva a smettere di piangere.

    Lasciò che il turbamento del giovane si consumasse da solo, poi, quando si accorse che non piangeva più, gli si piantò davanti. «Solo quando Berta vivrà con te potrai fare ciò che vorrai. Prima di quel momento decido ancora io per mia figlia. Stanotte Annetta e io abbiamo portato nella vostra casa molti oggetti che vi saranno utili. Non vi ho mai rimproverato per la sciocchezza che avete fatto, anche se sono amareggiato, ma siete ancora due ragazzi e non possiamo lasciarvi alla ventura.»

    Salvo si girò di scatto, afferrò il vestito dalle sue mani e lo gettò sopra una sedia, poi lo guardò fisso negli occhi.

    «Accetterò sto vestido per amore di Berta,» disse con un filo di voce «ma ora, qui, nella mia casa, dovete prometterme che sarò io a occupamme del bene e del male della nostra vita. Un mestiere ce l’ho e tutto quello che potrò fà per mi moglie e per mi figlio lo farò senza il vostro aiuto. Se non me lo promettede io non sposerò Berta.»

    L’espressione piena di dolore del ragazzo toccò il cuore di Domenico che dovette schiarirsi più volte la voce per non piangere a sua volta.

    «I genitori non possono abbandonare i propri figli.»

    «Non vi ho chiesto di abbandonacce, vi ho chiesto il permesso di vive la nostra vita.»

    «Adesso vestiti, arriveremo tardi.»

    «Aspetto una risposta.»

    «Va bene.»

    Berta, seduta sul calesse che l’accompagnava in chiesa, pensava ai giorni trascorsi senza avere il coraggio di uscire di casa per la vergogna che provava nel sentire il mormorio delle donne al suo passaggio. Aveva sognato un matrimonio con amici e parenti e si ritrovava con una funzione religiosa all’alba e con i soli familiari stretti.

    Le notizie di Salvo, della casa dove sarebbero andati a vivere, giungevano sempre per interposta persona, non aveva più visto il suo amore. Il tragitto per arrivare in chiesa non finiva mai. Era stanca, il bambino scalciava nella sua pancia e il pensiero che di lì a poco avrebbe rivisto Salvo le faceva battere il cuore.

    Il sole era appena sorto, il cielo plumbeo prometteva pioggia. Il prete non l’aspettava sulla porta della chiesa come per le spose caste, era seduto dietro l’altare e sbadigliava assonnato.

    Mamma Annetta guardava la sua bambina, bella nell’abito color panna con sopra il bel cappotto nero. Niente vestito bianco per le peccatrici.

    Clotilde era rimasta a casa, le sarebbe stato consentito di farsi vedere in paese assieme alla sorella solo dopo le nozze.

    Quando Salvo avvistò Berta fu subito certo che i sogni sarebbero tornati a fargli compagnia.

    La cerimonia breve e di circostanza lasciò tutti con l’amaro in bocca.

    Lungo la strada che li portava a casa i due ragazzi non smisero di guardarsi neppure per un attimo. La delusione iniziale aveva lasciato il posto al desiderio di ritrovarsi e di stare insieme.

    Salvo aiutò Berta a scendere dal calesse, la prese in braccio e salì la scala esterna. Giunto davanti alla porta, la depose a terra. Le coprì gli occhi con la mano, la fece entrare e la liberò. Berta si guardava intorno meravigliata e felice, Salvo guardava il suocero e la suocera accigliato.

    La mano di Annetta, che aveva lavorato tutta la notte per sistemare la stanza, e le migliorie apportate da Domenico si notavano e Salvo si sentiva tradito.

    «Vi ho già detto che vojo pensacce io a mi moje, a mi fijo e alla casa, ma me pare che nisciuno me vole sendì.»

    Annetta gli si avvicinò e gli passò una mano tra i capelli. «Non dimenticare che tu sei una parte di me, ti ho allattato anch’io, forse più delle altre, quando è morta tua madre. Ho il dovere di aiutare i miei figli. Capisco il tuo orgoglio, noi non interverremo più, ma saremo pronti se voi ci chiamerete.»

    Appoggiò un fagotto avvolto in un fazzoletto a scacchi sopra il tavolo. «Qui c’è qualcosa da mangiare, avevamo pensato di pranzare assieme ma, siccome non siamo graditi, ce ne andiamo subito.»

    Salvo, in un turbine di emozioni, guardò Berta, Annetta e poi Domenico che, ancora sull’uscio, non si decideva a entrare.

    «E allora che spettamo, avede almeno preparado qualcosa de bono?»

    Il gatto Pio, che era rimasto in disparte dietro il focolare, senza nessuna diffidenza, salì in grembo a Berta e si accovacciò sopra la sua pancia. «Mandalo via,» fece Annetta alla figlia «sei incinta, non si devono tenere gli animali.»

    Salvo, rosso in viso, abbracciò il gatto e si rivolse alla donna. «Chi non ama Pio non ama me.» Tutti ebbero l’impressione che l’animale stesse sorridendo.

    Annetta e Domenico se ne andarono al calar del sole. Berta si affacciò per salutarli e Salvo, che era sceso per accompagnarli, vedendola nel riquadro della finestra bella come una madonna, salì le scale di corsa. Se la trovò tra le braccia.

    La stanza era calda come i loro corpi, ma il ragazzo non osava prenderla perché temeva di far male al bambino.

    Berta si spogliò e Salvo, ormai in suo potere, la vedeva nuda per la prima volta.

    Il cumulo di dolore, che era per lui un macigno, si sciolse dentro il suo corpo.

    * * *

    Il mestiere del fabbro e del maniscalco era poco redditizio e Salvo, per raggranellare qualche soldo, si adattava a compiere anche i lavori più umili.

    Berta coltivava un piccolo appezzamento di terra e le sue mani erano piene di linfa vitale. La giornata era dura, ma tutte le difficoltà si ridimensionavano quando si coricavano stretti sul materasso di crine.

    Antonio, il primogenito, nacque nel giorno in cui sua madre compiva diciassette anni, in una casa di una sola stanza con un grande camino.

    Le doglie iniziarono di notte e Salvo, correndo come un pazzo, raggiunse la casa di Domenico per cercare aiuto. L’uomo tirò fuori il calesse, Annetta vi salì sopra e Salvo si sedette vicino a lei.

    «Correde per carità, Berta urlava mentre io venivo via.»

    «Dobbiamo portare con noi la levatrice.»

    «Cos’è una levatrice?»

    «La donna che fa nascere i bambini.»

    Il barroccio si fermò davanti a una casetta color arancio, Annetta scese di fretta e bussò alla porta.

    «È ora?»

    «Sì.»

    «Arrivo.»

    La donna chiuse la porta alle sue spalle e ricomparve pochi minuti dopo con indosso una gonna nera fino ai piedi e un cappotto scuro col bavero rialzato. Teneva fra le mani una valigetta di cartone. Domenico l’aiutò a salire e in silenzio ripartirono.

    La strada non finiva mai. Salvo, quando giunsero davanti alla casa, salì le scale in un baleno. Berta, seduta sul letto, urlava e piangeva.

    Annetta, con dolce fermezza, costrinse la figlia a sdraiarsi e la levatrice le divaricò le gambe.

    «Sta per nascere, si vedono i capelli. Ho bisogno di acqua calda.»

    Annetta riempì il paiolo d’acqua bollente, l’allungò

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1