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La ragazza che voleva la luna
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La ragazza che voleva la luna

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È pretendere la luna non accontentarsi di un amore che non fa sentire "le farfalle nello stomaco"? Perché mai si dovrebbe rinunciare alla ricerca di un momento d'amore e di passione unico e irripetibile? Per Sara, però, ciò non è facile da realizzare, giacché l'’educazione che le viene impartita le insegna che una ragazza deve conservare la verginità per scambiarla con un buon matrimonio, ed è un baratto che a Sara fa orrore. Il suo torto è di pensare che la luna, un giorno, si sarebbe potuta abbassare per farsi più vicina a lei, ma la luna rimane lontana nel cielo, inafferrabile, per Sara e per tante altre donne, come la zia, come la signora Camilla, l’amica Laura, forse per mancanza di coraggio. Così, se per caso un giorno l’amore arriva, è difficile da riconoscere, e questo vale per le donne, ma vale altrettanto per gli uomini, anche loro imprigionati nella logica del baratto o dell’interesse. E quando ci si rende conto di ciò che avrebbe potuto essere e non è stato, è ormai troppo tardi. Così i sentimenti si logorano, la capacità di amare resta, ma si perde il coraggio e la voglia di lottare, fino ad arrivare a scelte laceranti. Un romanzo in cui tante donne potranno riconoscersi, e che tanti uomini dovrebbero leggere.
LanguageItaliano
Release dateOct 14, 2012
ISBN9788866900948
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    La ragazza che voleva la luna - Fabrizia Garducci

    casuale.

    1 – Oggi mi sposo

    Quel giorno la sua immagine allo specchio le rimandava una figura di donna persa in uno splendido abito bianco.

    Ma lei non si riconosceva, e il trucco non riusciva a nascondere le occhiaie. Adesso ci si metteva anche il vestito: così ampio e stracolmo di veli, quasi le impediva di ritrovare quel po’ di sé … che sentiva di stare perdendo!

    Uscendo dalla stanza da letto, trasformata per l’occasione in sala trucco, sfilava tra lo sguardo compiaciuto dell’estetista e le lacrime, unite a sospiri di ammirazione, delle amiche e vicine di casa.

    Eppure, sentiva quell’abito troppo pesante per permetterle di arrivare fino in chiesa. Il mio analista le venne da pensare avrebbe detto che ho scelto un abito così pesante per percepire da subito il grosso peso che dovrò sopportare da sposata.

    Tra gli applausi e i confetti (che tentava di evitare le finissero in faccia), più volte inciampò durante il tragitto fino in chiesa e ogni volta le tornò in mente una scena della Via Crucis durante il periodo pasquale appena trascorso. La Naca quell’anno era uscita dalla chiesa di S. Giovanni; la piazza era gremita di gente, anche se, man mano che avanzava la processione, si creavano due ali di folla ai lati della strada..

    L’uomo che impersonava Gesù, più volte inciampava e s’inginocchiava sotto il peso dell’enorme croce e ogni volta c’era lì pronto un giudeo a sostenerlo. Anzi, erano più di uno, tutti prodighi a rialzarlo per farlo proseguire.

    Avrebbero fatto così anche con lei…

    In chiesa, tra l’eccessivo profumo di fiori e gli innumerevoli bagliori degli apparecchi fotografici, non le riuscì di vedere il volto del Crocefisso, che pur dominava l’altare maggiore, né vedeva il volto del prete o quello dei presenti.

    Le voci le pervenivano all’orecchio come un fastidioso ronzio, col sottofondo di una musica troppo triste.

    Chissà, forse, non era poi vero quanto le avevano raccontato da piccola e cioè che le spose (quelle che lei aveva visto, piangevano tutte!) durante la cerimonia piangevano di gioia… Lei non avrebbe pianto, perché non sarebbe servito a nulla, ma sentiva dentro tanta voglia di piangere.

    Da domani le ripeteva con orgoglio sua madre sarai la signora Ferruzzi! Ti rendi conto figlia mia della fortuna che hai avuto? Lui ti darà il suo nome!

    Sara, troppo stanca per ribattere, pensava che lei un nome lo aveva già e di un altro non sapeva che farsene.

    E alla sua amica Laura aveva scritto:

    Oggi mi sposo, e vendo la mia identità a chi si è dimostrato il migliore offerente!

    In cambio di un cognome, di una casa e di altre cose, tutte banali,

    verso la colla sulle mie piccole ali.

    Avrei voluto che fossero già grandi, forti abbastanza da farmi spiccare il volo…

    Invece erano deboli e non mi han dato il tempo di farle irrobustire.

    Oggi mi sposo! E giurerò a un uomo di amare lui, di amarlo eternamente.

    Se poi per caso mi accorgerò che sbaglio e quell’amore non era proprio niente, dirò a me stessa: quest’uomo è mio marito!

    Questa parola farà da toccasana alla mia anima che tenterà di sussurrare: c’è un altro uomo che può farti sognare ancora un po’... può farti volare!!

    Ma io dirò che non ho più le ali, che non le ho mai avute.

    Nessuno si curerà di controllare quanta colla ho dovuto adoperare!

    Oggi mi sposo! Mi han detto che son grande,

    che alla mia età non si può stare a sognare.

    Io ho provato a spiegare che senza sogni potevo anche morire.

    Non mi hanno dato retta.

    Poi mi han detto di andare, verso un destino che non riconoscevo…

    Ti abbraccio.

    Sara

    P.S.

    Da domani sarò la signora Ferruzzi.

    Fino a oggi non ero nessuno… ma ero così felice di esserlo!

    Persa com’era in quei pensieri, Sara si fece più attenta quando tra le navate della chiesa echeggiarono le parole del prete: Da questo momento voi due sarete una cosa sola!

    E a lei venne da domandarsi chi di loro due si sarebbe perso, giacché per diventare una persona sola, uno dei due nella coppia doveva annullarsi. Già, ma chi?

    Io fu la risposta che si diede.

    2 – Una casa di sole donne

    La sua storia comincia da qui.

    O forse no. Questa storia, probabilmente, inizia nell’infanzia di Sara, quando la madre, dopo la morte del marito, aveva fatto di lei la sua unica ragione di vita e le aveva imposto di crescere in fretta per diventare ricca. Avrai così riscattato le ripeteva quotidianamente la mia vita inutile e sprecata. E sì che io avrei potuto pretendere il meglio! Così dicendo, sospirava, ricacciando indietro le lacrime e un ciuffo di capelli che ostinatamente le ricadeva sugli occhi.

    Quando sua madre cominciava a parlare del passato, finiva sempre che litigavano, perché immancabilmente riesumava il ricordo di un uomo ricchissimo, proprietario di una catena di alberghi, che era stato tanto innamorato di lei, ma che lei, per un motivo banale, aveva lasciato.

    Poco dopo aveva conosciuto suo padre, bello ma senza una lira e lo aveva sposato per far dispetto all’altro.

    Quello ripeteva come un disco rotto è stato il mio errore. Perché nella vita l’agiatezza conta molto: quando l’amore finisce, è importante che non finiscano almeno i soldi!

    Sara sapeva che la madre aveva attraversato periodi davvero bui e soltanto la sua capacità di destreggiarsi aveva fatto sì che la famiglia non affondasse. Ciononostante, non accettava che le riversasse addosso il peso di una vita di frustrazioni e, soprattutto, non accettava che si parlasse male di suo padre, che aveva commesso molti sbagli, ma aveva anche pagato prezzi alti, e ora che non c’era più, aveva almeno il diritto al rispetto della memoria.

    In casa con Sara e la madre viveva una vecchia zia, rimasta troppo presto vedova, e una nipote, rimasta troppo presto sola, da quando il marito era scappato in Argentina con la segretaria.

    Sara adorava sua zia, una napoletana D.O.C., come le piaceva scherzosamente chiamarla. Aveva vissuto molti anni a Napoli e, oltre all’accento, le era rimasto dentro il sole e l’ottimismo di quella gente.

    In effetti, lei aveva sempre considerato i napoletani un po’ speciali, perché conoscevano a meraviglia l’arte di arrangiarsi e riuscivano a essere unici nei gesti eroici, come nelle nefandezze.

    Era anche convinta che i napoletani avessero tutti un cuore davvero grande. Come si potevano altrimenti spiegare le stupende tradizioni napoletane in fatto di musica? Così era sua zia. Una donna vissuta troppo in fretta, che aveva attraversato mari burrascosi, riuscendo sempre a rimanere a galla, senza badare se, qualche volta, il rimanere a galla, aveva comportato fare affondare qualcun altro.

    Nel profondo del suo cuore, però, era rimasta limpida come una sorgente di montagna e – circostanza che le conferiva grande dignità – non aveva mai rinnegato nulla di quanto aveva fatto nella sua vita. Neppure di essere diventata amica dei fascisti, mentre il marito li combatteva arruolato tra i partigiani.

    Sua zia raccontava l’episodio dei suoi rapporti con i fascisti con una naturalezza disarmante, che costringeva chi ascoltava a non aver, suo malgrado, voglia di criticarla.

    "Erano gli anni bui del ’40, mio marito impegnato tra i monti a cospirare contro il regime, io sola in casa con quattro figlie, tutte in tenera età.

    La più piccola si era ammalata di tifo e in casa non c’erano né medicine, né soldi per acquistarle. La disperazione mi attanagliava tutte le volte che il medico, toccando la fronte della bambina, scuoteva il capo.

    Fu in uno dei momenti di maggior sconforto che decisi che non sarei rimasta inerte a guardare la mia piccola morire.

    Era una gelida giornata di febbraio quando varcai la porta del Palazzo del Governo; gli occhi febbricitanti per le lunghe notti insonni e il corpo infreddolito raggomitolato in uno scialle grigio.

    Avevo superato senza timore le innumerevoli divise che m’incrociavano e si voltavano a guardarmi incuriosite e mi ero diretta con passo deciso nella stanza del funzionario più alto in grado tra tutti quegli ufficiali. Avevo urlato le mie richieste senza pregare né tentare di commuovere: avevo detto di pretendere che il regime, che tanto predicava la tutela delle famiglie, si addossasse il compito di salvare la mia, che stava per essere distrutta

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