La Repubblica di Machiavelli. Da Monti a Renzi. L’ultimo scorcio della Seconda Repubblica
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La Repubblica di Machiavelli. Da Monti a Renzi. L’ultimo scorcio della Seconda Repubblica - Andrea Apollonio
© goWare
Aprile 2014, prima edizione digitale
ISBN 978-88-6797-172-5
Copertina: Lorenzo Puliti
Redazione: Gicomo Fontani
Sviluppo ePub: Elisa Baglioni
goWare è una startup fiorentina specializzata in digital publishing
Fateci avere i vostri commenti a: info@goware-apps.it
Blogger e giornalisti possono richiedere una copia saggio a Maria Ranieri: mari@goware-apps.com
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Presentazione
Dalla caduta di Berlusconi all’ascesa di Renzi, sembra essere stato Machiavelli in persona a guidare la lunga transizione politica che sta trascinando l’Italia, faticosamente, dalla Seconda alla Terza Repubblica. C’è un filo conduttore mai interrotto, una stessa trama che si snoda dietro ogni vicenda: è l’atavico, ancestrale desiderio del potere di perpetuare se stesso. Complotti di palazzo, alleanze segrete, assassinii politici, e poi ancora, gli avvertimenti dell’Europa, le contraddizioni del Quirinale, le inchieste giudiziarie più eclatanti: tutto raccontato in trenta sequenze, trenta racconti della politica, suscitati di volta in volta dagli accadimenti.
Un ebook, da leggere in meno di un’ora, per ripercorrere e ricordare una delle stagioni più importanti e turbolente della politica italiana.
Andrea Apollonio è dottorando di ricerca in Giustizia penale presso l’Università di Pavia e opinionista dal 2011 per il Quotidiano di Puglia
. È stato consulente per la Camera dei Deputati e ha lavorato presso la Commissione Giuridica del Parlamento europeo. Tra le sue pubblicazioni: Sacra corona unita (Roma, 2010), Cosa Nuova (Cosenza, 2012), Critica dell’Antimafia (Cosenza, 2013). Ha inoltre curato il volume La mafia, le mafie (Lecce, 2013).
Nota dell’autore
La quasi totalità delle riflessioni contenute in questo libro sono apparse, in un arco compreso tra l’ottobre 2011 e il marzo 2014, sul Quotidiano di Puglia
. La mia gratitudine è dunque rivolta a Claudio Scamardella, direttore dello stesso giornale, che mi ha consentito di usufruire di uno spazio d’opinione così prestigioso.
Introduzione
Nel suo primo discorso alle Camere (primo, beninteso, in termini assoluti), Matteo Renzi ha chiesto e ottenuto la fiducia per il suo governo, che egli ha rivendicato essere un governo politico
. Lo è certamente nelle battaglie che aspira a sostenere, ma soprattutto nella forma della sua composizione: vi sono dentro i segretari del Partito Democratico, del Nuovo Centrodestra e di Scelta Civica.
Con questa elevata caratterizzazione politica della formazione ministeriale, Renzi ha voluto portare a termine, consapevolmente o meno, una lunga fase di transizione della democrazia italiana, costituendone al tempo stesso l’ultima sequenza; rappresentando sì, non v’è dubbio, l’ennesimo (il terzo) governo consecutivo non espresso direttamente dal corpo elettorale, ma facendo ben intendere che il tempo della tecnocrazia è terminato.
Come se, a partire da Mario Monti, si fosse innescata una lenta evoluzione del modello politico-istituzionale: prima un governo tecnico puro
, quello del professore della Bocconi, scelto iure proprio da Napolitano per quei pochi mesi che mancavano alla fine della XVI legislatura; poi un esecutivo tecnico-politico guidato da Letta ma fortemente sponsorizzato (diciamo così, gli eufemismi potrebbero sprecarsi) dal Quirinale, con una prospettiva di durata conteggiata in 18 mesi; infine un governo tutto politico, egocentrato, a trazione Renzi, che oggi si propone (nelle intenzioni) come orizzonte d’azione l’intera legislatura. Se perderemo questa sfida, la colpa sarà solo e soltanto mia
. Senza infingimenti, l’ex sindaco di Firenze si è presentato così alla platea di deputati e senatori che dovranno appoggiare il suo afflato riformista: un uomo solo al comando. L’antitesi perfetta del dream team di accademici e manager di prestigio che era il governo Monti, il compiuto distacco dalla figura di Letta, considerato da tutti – e anche da se stesso – un semplice servitore della patria
.
Tuttavia, se oggi ci risulta piuttosto agevole avanzare distinzioni tra figure e approcci alla carica presidenziale tra loro diversissimi, più complesso – ma ben più interessante – è invece l’inquadramento complessivo di questi due anni e mezzo di crisi del modello politico-parlamentare. È per questa ragione che si è voluto ripercorrere la stagione delle c.d. larghe intese
, adottando non una prospettiva postuma, che guarda indietro sfruttando però il grande vantaggio di considerare come acquisito il risultato finale delle tante partite che in questi anni si sono giocate nel campo della politica, ma cucendo assieme, rapsodicamente, le impressioni suscitate di volta in volta dagli accadimenti. Il rischio che si è voluto correre è quello di imbattersi in porzioni d’incongruenza, certo, anche nel passare da grandi entusiasmi a grandi delusioni (poiché raramente è accaduto il contrario); ma, se si vuole, il risultato che ne consegue è molto più veritiero della migliore ricostruzione storica.
Ebbene, questo racconto mette in luce, a ben vedere, quella caratteristica che accomuna i governi e i parlamenti che si sono susseguiti in questi anni: quell’atavico, ancestrale desiderio del potere di perpetrare se stesso. Infatti, a prescindere dal giudizio che si può avere di Monti, Letta e Renzi, complessivamente e singolarmente intesi, ciò che stupisce è che i loro governi siano stati una diretta conseguenza dell’autoreferenzialità del potere. In termini più prosaici, dell’incapacità della politica di rappresentarsi come servizio alla collettività, invece che di status quo inscalfibile. Nessuna immagine, in questo senso, è più significativa del "Porcellum": una legge elettorale che, in fondo, tutti i partiti hanno salutato con favore e che, a loro volta, sono stati ben attenti a non riformare in questi otto anni di vigenza.
È stato proprio grazie a questa legge elettorale che, puntualmente, venivano individuate maggioranze parlamentari, spesso misurate
e ben poco convinte del proprio ruolo sostentatore. Si pensi – ed è il caso a noi più vicino – all’operazione di Alfano, che ha operato la scissione governista
fondando un partito – il Nuovo Centrodestra – nel quale sono confluiti alcuni (la gran parte) di quei parlamentari che non potevano permettersi, appena cominciata la legislatura, un nuovo, rischiosissimo (per loro) passaggio elettorale. Deputati e senatori su cui si sono costruite fiducie e poggiati governi, che hanno magistralmente fatto proprio, senza saperlo, quel capitolo VII del Principe di Machiavelli, ove è detto:
Coloro e’quali solamente per fortuna diventano di privati principi, con poca fatica diventano [...]. Questi stanno semplicemente in sulla voluntà e fortuna di chi lo ha concesso loro.
È proprio questo il punto, e da qui il titolo del volumetto: vige e impera una concezione puramente machiavellica della politica, ispirata a quelle distorsioni del potere che il pensatore fiorentino è riuscito a individuare prima – e anche meglio – di chiunque altro. E non ci si riferisce, quasi banalmente, al principio secondo cui il fine giustifica i mezzi
(ché, tra l’altro, un’appropriata interpretazione filologica ne imporrebbe un uso meno spregiudicato e semplicistico); piuttosto, come nell’ultima delle sequenze qui inserite che attiene al fratricidio di Renzi ai danni di Letta, si riscontra che i più importanti passaggi politici degli ultimi anni sono meglio compresi se osservati attraverso i dettami dell’opera simbolo
di Machiavelli, Il Principe, di cui nel 2013 si è celebrato il cinquecentenario.
Nel più noto scritto su Machiavelli, Sebastian De Grazia ha scritto che egli
entra in scena nel momento in cui tutto sta per precipitare verso l’abisso, in cui la situazione invoca un salvatore, un redentore, un eroe.
In effetti, il Cinquecento è l’epoca in cui tutti i paradigmi giuridici, statali, ordinamentali del Medioevo vengono travolti e stravolti, e in particolare in Italia, terra di conquista e di domini altrui. Con le dovute proporzioni, l’opera di Machiavelli presenta un indubbio valore per decifrare il nostro tempo e i percorsi involuti della politica italiana degli ultimi anni, tesa e curvata all’idea dell’homo novus, del salvatore, del redentore, per l’appunto.
Recentemente sono apparsi due saggi di validissimi commentatori: il primo, In fondo a destra di Antonio Polito, spiega perché l’Italia non sia mai riuscita a esprimere una destra che fosse davvero tale, liberale, conservatrice ed europea
; il secondo, Chi ha sbagliato più forte di Marco Damilano, racconta gli errori quasi imbarazzanti della sinistra degli ultimi vent’anni, che sostanziano un’epopea di fallimenti. È difficile contestare l’una o l’altra tesi, e a ben vedere, piuttosto, si finirebbe per essere pienamente d’accordo con entrambi. Ma questa è, evidentemente, una contraddizione in termini; in un Paese normale
, se uno schieramento politico è incapace di costruire