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I ragazzi dalla collana di lamiera
I ragazzi dalla collana di lamiera
I ragazzi dalla collana di lamiera
Ebook361 pages5 hours

I ragazzi dalla collana di lamiera

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About this ebook

Stefania è poco più che diciottenne quando, una notte, Matteo, il suo ragazzo, muore in auto uscendo di strada. Avevano bevuto insieme in un locale e solo per caso, all’uscita, lei non era salita in macchina con lui.

Da questo esatto momento in poi la vita di Stefania cambia per sempre. La disperata tristezza iniziale diventa una intelligente lotta contro la causa che ha determinato la morte del suo amato Matteo: l’alcol.

La battaglia contro il bere, portata avanti prima con se stessa poi nel suo ambiente sociale – dove il consumo di alcol è divenuto, in particolare tra i giovanissimi, un’abitudine normale e socialmente accettata – vedrà Stefania come rinascere fino a un clamoroso quanto inaspettato incontro che metterà in crisi ogni convinzione e ogni idea fino a quel momento sostenuta.

I ragazzi dalla collana di lamiera, lungi dall’essere solo un romanzo adolescenziale, è invece un’incredibile storia contemporanea magistralmente raccontata, dove l’amore e la morte, facce della stessa medaglia, si alternano a caso ai ripetuti lanci di moneta che la vita impone.

Franco Baldo, dopo il fortunato esordio di Dove dorme l’ornitorinco, dimostra con questo nuovo lavoro la sua maturazione letteraria e il suo talento narrativo.
LanguageItaliano
Release dateOct 21, 2011
ISBN9788897268352
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    I ragazzi dalla collana di lamiera - Franco Baldo

    Baldo

    I ragazzi dalla collana di lamiera

    romanzo

    Meligrana Editore

    INDICE

    Frontespizio

    Colophon

    Franco Baldo

    Dedica

    I ragazzi dalla collana di lamiera

    Ringraziamenti

    Copyright  Meligrana Editore, 2011

    Copyright  Franco Baldo

    Tutti i diritti riservati

    ISBN: 978-88-97268-35-2

    Meligrana Editore

    Via della Vittoria, 14 – 89861, Tropea (VV)

    Tel. (+ 39) 0963 600007 – (+ 39) 338 6157041

    www.meligranaeditore.com

    info@meligranaeditore.com

    Seguici:

    Franco Baldo

    Franco Baldo vive a Mori (Tn). Tecnico di Radiologia in pensione, è sposato e ha due figli. Si occupa di problemi legati al consumo di alcol nella sua comunità ma anche nel resto d’Italia dove partecipa spesso a serate informative e convegni sul tema. Collabora con l’Azienda Sanitaria organizzando i corsi previsti per il recupero della patente ritirata per alcolemie illegali. I ragazzi dalla collana di lamiera è il suo secondo romanzo. Il primo Dove dorme l’ornitorinco è stato pubblicato nel novembre 2009 da Erickson.

    Contattalo:

    fnc.baldo@gmail.com

    a mia moglie Mariuccia

    I personaggi, i fatti e le località descritte in questo romanzo sono frutto della fantasia dell’autore. Ogni riferimento a persone e fatti è puramente casuale.

    Vorrei la serenità per accettare quello che non posso cambiare, il coraggio di cambiare quello che posso cambiare e la saggezza per distinguere le due cose.

    C. Frederich Oetinger

    Mentre noi possiamo orientare le nostre mosse verso un obiettivo comune, ognuno di noi deve trovare la sua strada, perché le risposte non possono essere trovate seguendo le orme di un’altra persona…

    Se tu puoi compiere grandi cose quando gli altri credono in te, immagina ciò che puoi raggiungere quando sei tu a credere in te stessa.

    Peter O’Connor, da Ali sull’oceano

    Le lapidi sono allineate in una sorta di ordine maniacale. Rigorosamente in fila come per una parata militare. Niente qui è lasciato al caso, nemmeno la raccolta dei rifiuti. Candele e lumini nel secco, i fiori appassiti nell’umido, i morti sottoterra. Solo i fiori di plastica si sottraggono a questo destino, quasi volessero dimostrare che la morte non è per tutti. Loro sono diversi, loro durano per sempre.

    Un febbraio decisamente freddo. Oramai tanti quelli senza Matteo, eppure sembra ieri. Ci vengo spesso qui e ogni volta sembra la prima volta. Non è vero che il tempo cancella i ricordi, li affievolisce o li stanca a tal punto che dimentichi chi è morto. Almeno per quanto mi riguarda.

    Sono le solite cose che gli dico e lui mi fa mille raccomandazioni. No, non sono fuori di testa e non devo farmi vedere da qualche psichiatra. Sento che è lui che vuole molte cose da me, che mi ha spinto, che mi spinge a fare. Del resto anche l’inconscio e il subconscio non parlano, eppure riescono a convincerti, a farti prendere decisioni impensabili fino a poco prima.

    La mia vita dopo la sua morte è cambiata. Sono cambiate molte cose, forse sono maturata, ma forse matura lo ero anche prima. Mah, chissà. Sarà un’illusione la mia, ma mi sembra che dalla sua morte sia cambiata anche la gente. In tal caso è merito suo perché io, come altri, siamo solo strumenti che lui accorda e suona.

    In questi anni non mi sono mai seduta sulla sua tomba, si potrà? Chi se ne frega, io mi siedo così posso stare rannicchiata e magari sentire un po’ più caldo. Sono appena le quattro e mezza e il sole sta già avviandosi rapido verso le pendici del monte Baldo con la precisa idea di scomparire. Non che oggi si sia dato un gran da fare in quanto a presenza ma prendiamo quello che il meteo ci promette. O quello che decide il padre eterno.

    «Sono triste Matteo. Oggi ho visto tua madre, ci siamo abbracciate in silenzio come del resto ogni volta che ci incontriamo. Poi abbiamo convenuto che comunque sei sempre vivo. Lo so che questa stronzata ti fa ridere ma è così. Non sei morto, sei solo sparito dalla circolazione. Dai, proviamo a rivedere alcune cose assieme. Ti sta sulle scatole questa cosa ma mi serve, porta pazienza. Domani ho un’altra intervista per un giornale di Modena. È già la terza e siamo appena all’inizio dell’anno. Sì, parlo sempre anche di te nelle interviste. Come potrei non farlo Matteo? Sei stato tu a scatenare tutta questa rivoluzione esistenziale. Cazzo, mi vogliono dappertutto! Radio, televisione, giornali. Matteo, in questo momento dovresti vedere la scena: c’è una signora che sta accomodando nel vaso alcuni fiori malconci presi dalla tomba accanto. Roba da non credere, ma in fondo è così carina. Vedessi che cura ci mette nel sistemarli. Cosa stavo dicendo? Ah, sì, dell’intervista…».

    * * *

    «Santa Maria, madre di Dio prega per noi peccatori, adesso e nell’ora della nostra morte. Amen».

    Era la risposta automatica di tutti alla prima parte della preghiera recitata fino a metà da una buffa e minuta vecchietta seduta in terza fila, vicinissima all’altare di S. Giuseppe. Era il quarto mistero doloroso del Rosario, per me invece solo il primo. Un mistero doloroso che stentavo a capire. Quel Cristo appeso ovunque in quella fredda chiesa doveva spiegarmi come mai a morire a diciannove anni era la persona che mi amava e che amavo sopra ogni cosa al mondo. Da poco, ma era passione vera, ve lo garantisco. Ero incazzata con quei Cristi che mi guardavano scuri in volto con la barba incolta. Ma perché mai il colore delle chiese e dei Cristi non va più in là del grigio e del marrone? Che siano stati inventati o scoperti dopo di lui i colori? Quello in alto, appena sopra la volta, aveva uno sguardo strano, sembrava sapesse persino che dentro quella bara c’era Matteo. Già, Cristo sa tutto di tutti come una specie di Novella 2000. Sempre informato di ogni cosa, sempre a decidere il tuo destino qualunque cosa uno faccia per filare dritto e districarsi nelle mille tentazioni di ogni giorno, dal mangiare la seconda brioche dopo il cappuccino o tentare la terza birra prima di tornare a casa o al trattenerti dallo sgozzare la prof di matematica quando scorre il registro per poi fissarti dritto negli occhi. C’era anche lei a metà chiesa con un cappotto scuro. Ero contenta che ci fosse. Aveva sempre avuto un debole per Matteo poiché in effetti Matteo in matematica era un genio.

    Ma adesso non lo è più, non è più nulla, sparito dentro a una cassa di noce che aveva sicuramente scelto suo padre come sfoggio della sua arroganza. Almeno quel giorno piangeva, almeno si stava rendendo utile in qualcosa. Forse stava rivedendo Matteo come la poesia della quercia caduta. Quello di sua madre era davvero dolore. Povera donna, una madre che ognuno si augurerebbe di avere. Molto meglio della mia che nel settimo banco era intenta a chiacchierare con la vicina di casa.

    Lui era sempre là dentro, vestito con la sua camicia bianca che amava indossare in ogni circostanza. Ce l’aveva quando siamo usciti per la prima volta assieme una sera che diluviava, ce l’aveva quando abbiamo fatto l’amore la settimana prima. «Stefania, devo proprio togliermela?» – mi aveva sussurrato in un orecchio mentre con una mano era occupato a sbottonarsela.

    Il Rosario era terminato. Il silenzio amplificava i numerosi colpi di tosse e i raschiamenti di gola. Si contavano a decine. Tra poco sarebbero usciti i preti per la messa.

    Matteo era sempre là e io dentro a soffocare insieme a lui anche se il mio corpo in quel momento era stretto da decine di amici, amiche, compagni di scuola che mi tenevano, mi toccavano, mi sussurravano parole e frasi più o meno convenzionali anche se dette in un certo modo: «Dai, fatti coraggio Stefania», «La vita continua», «Ricordalo com’era», «Non lo scorderemo mai, adesso ci siamo noi».

    Eravamo tutti accovacciati sui tre gradini di un altare laterale. Un posto non convenzionale, forse un modo di stare in chiesa poco ortodosso. Ortodosso fa ridere nel contesto di un funerale cattolico, ma non trovo altri aggettivi. Katia era vicinissima a me e anche a occhi bendati l’avrei potuta riconoscere. Il suo alito era pari a una bomba di Al Qaeda. Per fortuna parlava poco ma purtroppo respirava e questo poteva bastare a stendere tutti.

    La fila delle persone che lo benedivano, spargendo acqua santa fin sulla bara, non sembrava terminare. Ma a casa chi era rimasto? Erano tutti lì, tutto il paese. Dopo la benedizione ognuno passava a dar la mano ai genitori di Matteo, qualcuno li abbracciava, altri s’intrattenevano brevemente a parlare. Dal labiale riuscivo a capire che erano le solite frasi ma dette con gli occhi lucidi. Suo padre era avvolto in un elegantissimo cappotto probabilmente acquistato per l’occasione in qualche boutique di Trento o Rovereto. Mentre lo guardavo pensavo che anche gli stronzi perdono i figli. Eppure Matteo lo aveva creato proprio lui in coproduzione con sua moglie. Ma Matteo aveva fatto incetta di tutti i cromosomi di sua madre, a parte quelli sacrosanti e obbligatori affibbiati dal padre.

    A un certo punto della funzione mi ero decisa a salire vicino all’altare per dire qualcosa anch’io. Non so come ma avevo maturato l’idea ascoltando altri che si erano man mano susseguiti al microfono. Erano parenti, amici di sempre, vicini di casa. Mentre salivo straconvinta, anche se accompagnata dal panico, tutti mi guardavano con curiosità. Nessuno aveva potuto immaginare che era mia intenzione dire qualcosa. Nemmeno io fino a qualche istante prima. Pensato e deciso. Saranno stati poco più di dieci passi per arrivare al microfono posto vicino all’altare e lungo quel percorso avevo raccolto le parole da dire come quando si raccatta da terra quella miriade di cose che ti sono cadute dalla borsetta davanti a tutti: in fretta, a caso e con tanta vergogna. Prima i salva slip, poi il resto. Ma con che parole potevo iniziare? Da dove cominciare? Come finire? Ma soprattutto ne valeva la pena? Ormai sì, perché il microfono era lì davanti a me ad aspettare la mia saliva. Ne avessi avuta di saliva! Ma che sensazione tutte quelle teste! Tutti tristi ma anche curiosi. Ovviamente non tutti sapevano della nostra relazione e questo muoveva in tutti le rotelline del gossip innescando domande ai vicini, cosicché da lì si poteva vedere chiaramente una danza di teste che si piegavano a destra e a sinistra per poi terminare in facce dalle espressioni incredule e dubbiose.

    Due colpi di tosse per schiarire la voce e poi via:

    «Matteo, ti avevo detto fammi un colpo quando arrivi. Sto ancora aspettando… In questo momento mi vengono alla mente tante cose: quello che ci siamo detti, quello che abbiamo fatto assieme ma soprattutto quello che avremmo voluto fare assieme. Ci siamo amati alla follia ma non tanto per fare. Io continuerò ad amarti con la stessa energia. Tutti ti hanno salutato, ti hanno benedetto, ti hanno eletto miglior ragazzo di questa comunità ma lasciami dire che non dovevi farlo, non dovevi andar via così. Non nel senso di morire e andartene da questo mondo, ma proprio nel senso che non dovevi guidare in quello stato. Sì, certo, anch’io ero fatta di birre e solo per caso ho scelto di tornare a piedi. È vero, adesso è troppo comodo dire che non dovevi guidare bevuto. Fammi un colpo quando arrivi ti ho gridato dietro a squarciagola… Adesso riposati. Non so se sei in cielo o all’inferno ma riposati e pensami. Oggi sono solo incazzata con te ma passerà. Ci sentiamo Matteo».

    Fui investita da un’ondata di pianto convulso. Quando scesi per tornare nella navata il brusio della gente si era trasformato in parole chiare e comprensibili dette a voce alta. Spaziavano dal «Chi è quella cretina» a «Come si permette, va denunciata…». Niente applausi. Probabilmente erano rimasti affascinati più dalla retorica del prete poco prima che dalla mia emotività istintiva.

    Mia madre aveva la bava alla bocca al pari del padre di Matteo che aveva raggiunto in volto i colori del collasso; mio padre e sua madre avevano gli occhi bassi e la fronte solcata da canali espressivi non indifferenti.

    Quelli che prima mi contornavano, soffocandomi, non mi toccavano più. Mi guardavano solamente come si guardano le cacche dei cani sui marciapiedi delle strade.

    Nessuno in chiesa aveva parlato di alcol. In quei giorni solo i giornali avevano più volte ricordato che la sua alcolemia era 1,9. Ovviamente tutti offesi, ma era la cruda verità. Sì, forse avrei potuto anche tacere ma avevo dentro tanta rabbia nei confronti di Matteo che sarei riuscita a prenderlo a calci. E poi, perché mai si dovevano coprire le sue responsabilità? Giornali e telegiornali non si erano risparmiati a giocare su quel tasso alcolemico. Ubriaco alla guida, Strada maledetta, chissà perché i giornali avevano potuto dire e stradire mentre io rischiavo di essere lapidata. Forse non dovevo dirlo in chiesa? Ma perché la Chiesa deve solo parlare di anima e paradiso, di come era buono e di come sarà premiato? Premiato con che? Con la morte? E chi resta con cosa viene premiato? Se avesse avuto figli e moglie, questi non avrebbero avuto ragione a incazzarsi un pochino? Matteo lasciava priva la sua famiglia di qualcosa di importante e lasciava me, sola e innamorata, a cercare chissà quanto e chissà dove un suo surrogato con il quale ripensare di nuovo ogni emozione sapendo che il termine di paragone sarebbe stato sempre e assolutamente lui.

    Fuori dalla chiesa cartelloni e striscioni, sul luogo dell’incidente fiori e bigliettini. Incidente! Parola strana per qualcosa di cui si è responsabili. La tegola che ti cade addosso mentre cammini per strada può essere un incidente! Ma gira e rigira qualunque cosa accada un responsabile c’è sempre. Magari il proprietario del tetto sfasciato.

    Pesava una cifra quella bara. Otto amici lo stavano restituendo alla terra, la polvere ritornava a essere polvere. Giungemmo al cimitero sfiniti, quei duecento metri ci avevano distrutto, io non sentivo più la spalla sinistra ma sentivo dentro mille altre cose. La mia mente e il mio cuore non erano indolenziti, non avevano parestesie ma pulsavano dolore e disperazione che a stento riuscivo a trattenere. Piangevo ma le lacrime erano solo un modestissimo iceberg. Matteo scivolava nella terra appeso a delle funi. Per qualche secondo pensai che una fune avrebbe potuto essere la mia via di fuga dal mondo, il mio addio alla stupida vita che avrei dovuto vivere da sola. Baci, abbracci e frasi senza soluzione mi distrassero nel momento in cui riuscivo a immaginarmi penzolante da una trave. Ne uscì un pianto angosciante, tumultuoso e inarrestabile. Mi pare di ricordare che gridai forte rannicchiata accanto al cumulo di terra scura pronta per essere buttata in quella squallida buca. Sua madre mi tirò su prendendomi per le braccia, poi mi strinse forte senza dire nulla. Del resto erano poche le cose da dire, l’unica certezza era il vuoto che ci aspettava per il resto della vita.

    * * *

    Erano ormai le dieci. Si era deciso di passare la serata in un pub a Mori. Angela era indecisa, io no. Figurarsi se di sabato sarei rimasta a casa a guardare Ballando con le stelle o la Maria de Filippi e i suoi piagnistei. Mica sono scema.

    Ma Angela, se la conosci, sai che farebbe questo e altro. È pigra da morire. La sfiga è che è un pezzo di ragazza e non se ne rende conto. Ha una carrozzeria che è uno schianto. Sono anche troppo brava che me la porto in giro perché alla fine guardano tutti lei. Lei, si fa per dire! Guardano il suo culo e le sue tette. Inutile dire che è intelligente e dolcissima. Tutti lì guardano, il resto per la maggior parte dei ragazzi è solo imbarazzo e una noiosa appendice. O qualcosa di scontato che però risulta sempre essere scomodo. Oddio, sono bella anch’io in quanto curve e struttura fisica. È azzardato dire che assomiglio alla Tatangelo? No, non lo è perché in effetti il viso ha gli stessi lineamenti. Insomma, sono bella, via! Mio padre me lo dice sempre: «Sei deliziosa». E io ci credo. Mia madre non dice nulla a questo proposito ma va bene così. Del resto tutto ciò che dice scivola sul piano inclinato della mia indifferenza senza intaccare minimamente la mia autostima.

    - «Esci anche stasera?».

    Mia madre non è affatto avara in quanto a osservazioni su di me e chiaramente ogni occasione di sperpero la utilizza senza lasciarsela scappare.

    - «Quel tuo anche lo trovo ridicolo mamma dato che non esco da sei o sette giorni! Comunque sì, esco, vado al pub con Angela».

    Cosa cazzo dovevo dirle? Me lo avesse chiesto con un po’ di garbo almeno! Sempre con quel ceffo da carabiniere in alta uniforme. E quella sera si era risparmiata sugli orari di rientro. Da dove parti, dove arrivi, dove ti fermi, quanto spendi... Trenitalia.it è niente in confronto.

    - «Ciao Stefania, divertiti con responsabilità».

    No, dico, ma volete mettere questo tipo di saluto? Mio padre è così diverso, intelligente, forse unico nel genere padri di ragazze. Da non confondere con quelli che ti salutano e se ne fregano dell’ora in cui rientrerai. Mio padre è apprensivo quanto mia madre ma lo fa supporre, non te lo propina a ogni sillaba con contratture facciali e posture da attore di teatro.

    - «Certo papà, buona serata».

    Mi sono sempre chiesta cosa potessero avere in comune i miei genitori e cosa fosse a tenerli uniti. Eppure sembrano felici, perlomeno sereni. Forse l’unico contraddittorio sono io alla fine. Il polo positivo e quello negativo, l’essere e il non essere, il bianco e il nero, il paradiso e l’inferno. Si tratta solo di conviverci senza sperare.

    Quella sera Matteo mi aveva promesso che ci saremmo visti. Ormai il nostro rapporto si stava avviando verso qualcosa di serio, come diceva la nonna. Solo in classe non mi andava di averlo tra i piedi. Era due banchi dietro, assieme a Nicola. A scuola volevo essere sola con me stessa, senza interferenze emotive. Sopportavo a malapena Alice come vicina di banco assieme alle sue ossessioni che spesso rasentavano l’ipotesi di un ricovero coatto. A volte mi stupivo di me stessa, di come avevo fatto a non vederlo prima eppure frequentavamo assieme il liceo da tre anni. Stessa classe, stessa città, stesso autobus. Cieca completa. Ma anche lui cieco completo. Fino a quel momento non avevamo avuto contatti di nessun genere che non fossero il «Ciao a domani» quando scendevamo dall’autobus. E fino a quel momento neanche con altri ne avevo avuti. Ero come in trance, forse ancora racchiusa nel bozzolo di un’adolescenza intorpidita. A dire il vero cominciavo a preoccuparmi anche perché tutto intorno a me era un fiorire di relazioni che andavano e venivano come le quotazioni in borsa a Wall Street. Quando poi Angela mi raccontava con dovizia di particolari di come aveva fatto sesso la sera prima con il suo ragazzo di turno, m’insospettivo fino a pensare che la mia vagina fosse là solo per essere vista allo specchio, prima e dopo la doccia. Non nascondo di aver provato una discreta invidia.

    In quel momento invece la mia vita era Matteo, i miei respiri erano Matteo, il mio risveglio era Matteo, il sorgere del sole era Matteo, la minestra era Matteo, Pitagora era Matteo. Ma anche il sesso era Matteo e mi ero immolata su quell’altare in prima assoluta. Almeno per me. Per lui no, ovviamente, ma la cosa non mi turbava, anzi. Il sesso con lui non aveva limiti ma eravamo consapevoli ambedue che era l’amore a dettare ogni legge. Stavamo bene assieme in ogni momento e il nostro parlare era un parlare di tutto pur con idee diverse. E non ci pesava dirci che non eravamo d’accordo su questo o su quello. Ce lo dicevamo e basta. La nostra conoscenza era stata un crescere continuo di momenti indefinibili, di sguardi in autobus o mentre si aspettava l’insegnante in ritardo. E galeotta fu l’occupazione di ottobre e un paio di scioperi che erano stati il terreno propizio alla coltura di quei batteri che poi sarebbero diventati davvero patologici. In senso buono ovviamente. E c’eravamo ammalati d’amore, ammalati forte.

    Ricordo quando lo dissi ai miei. Accadde una sera a cena con mia madre stranamente simpatica. Sembrava fatta di qualcosa. Tutto subito dopo un eccellente minestrone, una prelibatezza nella quale metteva l’anima, l’intelligenza creativa, i sensi, le emozioni, rimanendone poi senza per altri usi.

    - «Mi sono messa con un mio compagno di scuola. Una cosa seria, come dite voi. Ha un anno più di me e… insomma sono innamorata».

    Dopo l’outing ero rimasta in stand-by giocherellando con alcune briciole di pane. Mio padre si era illuminato d’immenso, io stavo come, d’autunno, sugli alberi, le foglie. A mia madre era saltato il salvavita.

    Reazione di mio padre:

    - «Oh, finalmente Stefania! Sono contento, ti do un bacio».

    E si era allungato a baciarmi la guancia con una delicatezza che ricordo ancora.

    Reazione di mia madre:

    - «E con lo studio?».

    Il chi è, cosa fa, di chi è figlio, chi è suo padre, sono di qua o del Sud, furono buttati fuori di getto come una mitragliatrice da mia madre che nel contempo stava litigando di brutto con un’ala di pollo avanzata a mezzogiorno. L’ala ero io. Seguirono a ruota le considerazioni meno inquisitorie ma più profonde prodotte dalla bile che le circolava nel sangue come le auto sul raccordo anulare di Roma. Lei le faceva passare come pillole di saggezza ma erano supposte gelide e appuntite capaci di farti rabbrividire.

    A un tratto raggiunse il suo orgasmo sanzionatorio:

    - «Non lo voglio vedere in casa mia!». Anzi, ne ebbe

    due di orgasmi. Quello che seguiva era del tipo bio-invasivo: «Attenta a non farti mettere incinta, devi studiare!». Poi si accese la sigaretta come nei peggiori rapporti.

    In casi come questo mio padre solitamente preferisce il silenzio. Ma non è mai un silenzio vigliacco. È un silenzio intelligente che preannuncia una considerazione che può arrivare anche il giorno dopo. Quella sera si alzò e fece un paio di giri tra la cucina e il salotto. Lo vedevo nervoso. Assomigliava a un aereo che compie tutta quella serie di giri preordinati per poi prendere la pista di infilata. Lento e maestoso per poi alzarsi sopra a tutto. Direi un magnifico 747.

    La considerazione decollò puntuale.

    - «Debora, mi pare che nostra figlia ci abbia resi partecipi di un evento del tutto normale per la sua età. Non sarei così allarmato. Perché dovresti proibire a una figlia di amare qualcuno? Stefania sa quello che sta facendo, e anche non lo sapesse, rimane un’esperienza da percorrere, che va quantomeno vissuta. Può essere rischioso ma cosa non è rischioso nella vita?».

    Io lo guardai e sentii forte la voglia di saltargli addosso e baciarlo ma in quel contesto non potevo farlo, avrei innescato una pericolosa sceneggiata. Ma giuro che feci fatica a trattenermi.

    Con Matteo era avvenuta la mia prima volta di tante cose. Il primo bacio appassionato, la prima palpitazione, le nostre mani su di noi a percorrerci senza confini, l’addormentarsi pensandolo, il risvegliarsi ripensandolo. Riuscivo a vedere il suo volto persino nel profilo che disegnano a sud le pendici del Baldo contro il cielo azzurro. E poi l’amore del sesso, della voglia di sentirlo ardere, di sentirmi ardere dal desiderio. Che meraviglia la natura! Quante cose ti riserva per farti capire che sei vivo e devi amare assolutamente. Oltre l’amarti ovviamente. Ed è strano come tutto il resto, quando ami qualcuno, sfumi fino a diventare invisibile, impalpabile, opaco. Importa solo lui, sono importanti solo i suoi respiri, i suoi messaggi, le sue chiamate a ogni ora per non dirsi nulla o cose ovvie: «Ti amo», «No, io ti amo di più», «Esisti solo tu nella mia vita» e avanti di questo passo per la gioia della Tim e del suo amministratore delegato. E la rapidità con la quale ti viene da progettare il futuro è incredibile. Pochi mesi prima era un perfetto sconosciuto e ora assieme a lui progetti la vita e le vite che vorresti creare. E ti senti improvvisamente donna matura, pensi a una casa col giardino, alla sedia a dondolo sulla veranda e al camino acceso durante l’inverno. Gli chiedi persino se la pasta la preferisce al dente o un po’ scotta. Praticamente diventi scema assieme a lui che speri condivida tutto nei secoli dei secoli.

    Per fare l’amore dovevamo mettere a punto strategie organizzative degne della Bocconi. Persino mia nonna materna, dalla quale mia madre non ha preso nulla di nulla se non il colore degli occhi, ci facilitava le cose senza farci capire che lo faceva apposta. Da lei conservavo da sempre una mia stanza che nel corso degli anni ho utilizzato per diversi motivi: la preparazione a una interrogazione, un momento di crisi, un giramento di scatole e altri momenti topici. Spesso ci dormivo e lei, sempre composta e discreta, rispettava la mia intimità non entrando mai in quella stanza quando ero là a occuparla. E questo giovò molto al nostro rapporto, intendo dire con Matteo. Si andava lì spesso con la scusa di farle visita ma lei capiva che forse avevamo bisogno di coccole, di intimità. Cosicché, con scuse stravaganti, usciva di casa dichiarando solennemente che sarebbe tornata a un’ora ben precisa e raccomandandoci di non aprire a nessuno. E noi sapevamo che era il nostro tempo, il tempo da dedicare alle nostre intime coccole che ci facevano star bene per i giorni successivi. Il giorno dopo a scuola ci guardavamo complici e soddisfatti. La nostra reciprocità ci appagava e ci faceva stare bene. Cosa si poteva chiedere di più dalla vita? Avevamo il Lucano e altre mille cose da spendere: sogni, progetti, sesso, divertimento. E magari, se possibile, studiare nei ritagli di tempo. Mio padre è un patito del foglio di carta come dote indispensabile anche se io nutro qualche dubbio in proposito. E con Matteo ragionavamo anche di questo e c’eravamo convinti che comunque lo studio doveva avere la priorità assoluta. Era deciso a laurearsi in lingue mentre io facevo la corte a Freud, a Jung e alla psicanalisi in generale.

    Meravigliosa fu quella volta in cui ci dicemmo che eravamo fatti uno per l’altro. Matteo era seduto di fronte a me sull’autobus quasi vuoto. Eravamo saliti assieme senza salutarci ma del resto eravamo in classe da cinque ore per cui sarebbe risultato sciocco il salutarci ancora. Mi bastava essere nella scia del suo spostamento d’aria per annusarlo, per sentirmelo addosso. Non riuscivo a far il primo passo, cazzarola! Entrambi eravamo alle prese con i cellulari. L’avevo appena acceso e stavo verificando i messaggi in arrivo. Vedo la letterina, apro e leggo. La vampata al volto raggiunse temperature in grado di fondere l’acciaio mentre il battito cardiaco veniva percepito dai territori a nord dell’arco aortico fin su nella gola: Sei bellissima e mi piacerebbe che tra noi…. Nient’altro ma era accaduto ciò che avrei voluto accadesse. Il suo concetto era sovrapponibile al mio. Quel messaggio andava completato. E la mia risposta fu la risposta del cuore, non del mio cervello: Ci fosse qualcosa, volevi dire? Cmq piacerebbe anche a me.

    Ci guardammo complici e imbarazzati, convinti che ormai era fatta. Ero sua e lui era mio e in quel momento lo vidi ancor più bello e intrigante anche se la cosa era impossibile per definizione. Dire che era il dio della bellezza è poco. Aveva tutto quello che una ragazza poteva volere: fisico da urlo, occhi color sottobosco, capelli castano chiaro lunghi, ricci e sempre religiosamente scarmigliati. Era alto senza esagerare, forse qualche centimetro più di me ma che incantava erano le sue movenze, il suo parlare, la sua compostezza. Non era dato sapere nulla a riguardo del sesso perché il gossip su di lui era pressoché zero. Nessuna ci aveva mai filato assieme, nessuna che avesse raccontato di un bacio o una pomiciata da qualche parte. Praticamente incensurato stando al gossip. Nutrivo qualche dubbio in tal senso ma ugualmente tutto questo produceva effetti insperabili per la mia autostima. Aver scelto me significava che ero davvero una bella ragazza. Ovviamente era risaputo che lo ero, non mi mancava proprio nulla ma in certi momenti ero critica con Stefania e davanti allo specchio diventavo spesso l’avvocato del diavolo di me stessa: le tette di forma strana, il culo grosso, i capelli troppo lisci, le labbra troppo sottili… Nei controlli somatici il mio sguardo si fermava sempre poco e di sfuggita sulla vagina, come avessi paura che i peli fossero troppi o troppo pochi e del resto mi mancava un paragone cui fare riferimento. Le descrizioni di questi ambiti nascosti sono sempre indicatori inattendibili e tutto a tal proposito è pieno di leggende

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