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Le forme del Sacro
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Le forme del Sacro

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“Le forme del sacro. La performance del rito romano” è lo sviluppo ulteriore della tesi di laurea che l’autore ha discusso nel 2011 presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia. Il testo è una ricerca antropologica che vuole analizzare la ritualità cattolica, comparando la celebrazione della messa secondo le due forme del rito romano: straordinaria (detta di S. Pio V, precedente al concilio Vaticano II) e ordinaria (detta di Paolo VI, scaturita dalla riforma liturgica del concilio Vaticano II). L’indagine si muove secondo i presupposti dell’antropologia della performance, quindi, seguendo lo schema di una “critica teatrale”, prende in esame gli aspetti esteriori e percepibili della liturgia. Si intende così far emergere la realtà oggettiva delle due forme del rito romano, al di là delle ideologie (tradizionaliste - progressiste). Il testo è fedele al pensiero di Joseph Ratzinger il quale non risparmiando i giudizi sulla liturgia rinnovata in seguito al Concilio Vaticano II, al contempo ragiona secondo un'ermeneutica della continuità con il passato proponendo una "riforma della riforma" per arginare la crisi liturgica contemporanea.
LanguageItaliano
Release dateAug 12, 2014
ISBN9788899121013
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    Le forme del Sacro - Luigi Martinelli

    liturgia)

    PREFAZIONE

    Il saggio di Luigi Martinelli ha l'obiettivo di indagare la liturgia nei suoi aspetti formali ed esteriori, esaminando il linguaggio dei segni, dei simboli e dei gesti propri della celebrazione eucaristica. L’autore, pur non essendo teologo o liturgista, ma un giovane studioso con una formazione artistico-letteraria, in specie sulla storia del teatro e della performance, grazie a questa sua predisposizione all’osservazione del mondo vissuto e dei corpi in azione nello spazio, ha potuto mettere per iscritto, come fosse una «critica teatrale», le sue impressioni sulle «due forme» del rito romano, secondo il dettato di Benedetto XVI nel motu proprio Summorum Pontificum, operando un confronto comparativo tra gli elementi espressivi di ciascuna delle due forme, valutandone le potenzialità e i limiti. È messa in risalto la «forma straordinaria» poiché in essa, secondo l’autore, forma e contenuto sono in equilibrio, mentre invece, nella forma ordinaria scaturita dalla riforma liturgica postconciliare, prevalgono quasi esclusivamente i contenuti, indebolendo, in tal modo, la nozione stessa di rito.

    L’opera, che è lo sviluppo ulteriore della tesi di laurea dell’autore presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia, permette di constatare, come anche al di fuori dei seminari, delle facoltà teologiche e degli uffici liturgici si assista ad un rinnovato interesse nei confronti della liturgia, specialmente tra i giovani, in particolare verso quelle forme tradizionali che la Santa Chiesa ha conservato e trasmesso fino ai giorni nostri. Un tale fermento culturale è la condizione ideale per lo sviluppo di quel Nuovo Movimento Liturgico teso a recuperare la ricchezza del patrimonio rituale cristiano per ristabilire il senso del sacro e del mistero nella liturgia cattolica.

    In una società come quella attuale, sempre più informatizzata ed ipertecnologica, in cui le persone, soprattutto giovani, sono continuamente interconnesse fra loro, le informazioni che ricevono raggiungono numeri smisurati, divenendo così il bersaglio di un vero e proprio bombardamento informativo da parte di molteplici canali multimediali. A fronte di questo sovraccarico di informazioni che rende l’uomo contemporaneo confuso, frastornato e talvolta disorientato per effetto della sempre più ricorrente sovrapposizione tra mondo virtuale e mondo reale che spersonalizza l’essere umano affossandolo in un individualismo esasperato, è quanto mai necessario che la Chiesa trasmetta il messaggio di salvezza di cui è portatrice non solo affidandosi ai linguaggi scritti e verbali della catechesi, della parenesi, della predicazione, del discorso chiaro e astratto, con il rischio sempre maggiore che le verità annunciate si disciolgano nella baraonda delle informazioni alle quali l’uomo è esposto quotidianamente, ma anche attraverso l’esperienza concreta dell’azione salvifica di Dio per mezzo della liturgia. Gli studi più recenti dicono che oggi, l’uomo, per reagire all’asfissiante società dell’informazione, è più sensibile al dato esperienziale piuttosto che a quello puramente dottrinale, occorre quindi ribadire la centralità dell’azione liturgica come luogo dell’incontro con Dio.

    I Lineamenta del Sinodo sulla Nuova Evangelizzazione hanno chiaro che «trasmettere la fede significa creare le condizioni perché l’incontro tra gli uomini e Gesù Cristo avvenga. La fede come incontro con la persona di Gesù Cristo ha la forma della relazione con lui, della memoria di lui (nell’Eucaristia)»¹. La liturgia, quindi, è prima di tutto il contesto entro cui si instaura una concreta relazione con Dio, essa non tende primariamente a far approfondire l’atto di fede, a far riflettere, ad insegnare qualcosa, ma a far incontrare l’uomo con Dio proprio perché «all’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva»². È dunque necessario tornare a vivere la liturgia come esperienza di incontro con il mistero di Dio, una relazione che coinvolge tutto il nostro essere, tutta la nostra persona mediante azioni simboliche, gestualità, partecipazione del corpo, dei sensi e dello spirito. I tentativi di snaturare la dimensione simbolica della celebrazione, surrogandola con la loquacità e la comunicazione razionale, hanno ridotto la sua significatività. Tuttavia la gestualità, i movimenti, l’organizzazione dello spazio, i suoni, le immagini valgono quanto le parole e quasi sempre più di esse, infatti «la trasmissione della fede non avviene solo con le parole, ma esige un rapporto con Dio attraverso la preghiera che è la stessa fede in atto. E in questa educazione alla preghiera è decisiva la liturgia con il suo proprio ruolo pedagogico»³. Oggi, in cui l’approccio alla liturgia sembra essere in bilico tra un intellettualismo raffinato ed un attivismo snervante, rimettere al centro della vita cristiana l’esperienza liturgica come ambito in cui si manifesta ed annuncia l’azione di Cristo, e che quindi si pone anche come prezioso strumento per la Nuova Evangelizzazione, significa dare finalmente compimento alla Sacrosanctum Concilium secondo la quale «la liturgia è il culmine verso cui tende l'azione della Chiesa e, al tempo stesso, la fonte da cui promana tutta la sua energia»⁴. Questo proposito opera nella direzione di quel «ritorno alle fonti» auspicato dal Concilio Vaticano II e teso a recuperare «lo studio dei santi Padri d'Oriente e d'Occidente e delle sacre liturgie»⁵.

    Consolidare il valore dell’esperienza rituale significa muoversi verso una pedagogia dei sensi, cominciando quindi da un’esperienza celebrativa efficace, evocativa, che suscita domande e come chiave d’accesso alla comprensione del mistero salvifico di Cristo. Questo processo è alla base della mistagogia. I padri della Chiesa, come Cirillo di Gerusalemme, Ambrogio di Milano, Giovanni Crisostomo, Teodoro di Mopsuestia, hanno richiamato la centralità del mistero di Cristo, convinti che solo la fede in lui, celebrata, professata e vissuta, avrebbe potuto rispondere alle aspirazioni spirituali del loro tempo. Caratteristica del metodo mistagogico è di non fare una catechesi sui sacramenti se non dopo la loro celebrazione. Questo, perché l'esperienza deve precedere la spiegazione. Fare mistagogia significa «scoprire le valenze dei gesti e delle parole della Liturgia, aiutando i fedeli a passare dai segni al mistero e a coinvolgere in esso l'intera loro esistenza»⁶. Il suo metodo consiste nel procedere «dal visibile all'invisibile, dal significante a ciò che è significato, dai sacramenti ai misteri»⁷.

    Il motivo che spingeva i padri a riferirsi costantemente al rito è espresso molto bene da Teodoro di Mopsuestia, quando afferma: «Ogni mistero è l'indicazione in segni e simboli di cose invisibili e ineffabili». In occidente, gli fa eco S. Agostino: «Queste cose, fratelli, si chiamano sacramenti proprio perché in esse si vede una realtà e se ne intende un'altra. Ciò che si vede ha un aspetto materiale, ciò che si intende produce un effetto spirituale». Se con la modernità si assiste ad un’enfasi sulla catechesi e sulla morale, l’arte mistagogica prende le mosse dal rito, legandolo alla Scrittura e all’esistenza. In questa logica emerge chiaramente il valore educativo dell’esperienza concreta; la vita di fede non s’impara efficacemente dalle nozioni, ma dall’esperienza diretta. Per i padri della Chiesa la mistagogia, prima d’essere spiegazione del mistero nascosto nella liturgia, è innanzitutto avere occhi per contemplare l'agire di Dio nell'azione sacra. Secondo questa prospettiva la liturgia «celebra ed esprime il mistero di Cristo, quale mistero di salvezza che si realizza oggi nella Chiesa, nell'azione sacramentale, significativa ed efficace. La viva partecipazione all'azione liturgica consente ai credenti di penetrare sempre più nel mistero di Cristo, di coglierne l'ampiezza e la mirabile unità»⁸. È dunque indispensabile favorire l’esperienza oggettiva del rito, poiché «la migliore catechesi sull'Eucaristia è la stessa Eucaristia ben celebrata. Per natura sua, infatti, la liturgia ha una sua efficacia pedagogica nell'introdurre i fedeli alla conoscenza del mistero celebrato. Proprio per questo, nella tradizione più antica della Chiesa il cammino formativo del cristiano, pur senza trascurare l'intelligenza sistematica dei contenuti della fede, assumeva sempre un carattere esperienziale in cui determinante era l'incontro vivo e persuasivo con Cristo annunciato da autentici testimoni»⁹.

    La liturgia accompagna a relazionarsi con il mistero non attraverso una comprensione intellettualistica, ma immergendosi in una tradizione di segni, di parole, di gesti. Per questo il rito ha le sue regole che vanno rispettate con scrupolosità. La mistagogia ci chiama proprio a riconoscere nei segni liturgici la presenza viva di Cristo e la Sua azione di salvezza. Dunque «riscoprire la metodologia dei padri è importante per rispondere al bisogno visivo di immagini e simboli, che contraddistingue l’uomo contemporaneo»¹⁰. In proposito così si esprime Giovanni Damasceno: «La bellezza e il colore delle immagini sono uno stimolo per la mia preghiera. È una festa per i miei occhi, così come lo spettacolo della campagna sprona il mio cuore a rendere gloria a Dio»¹¹.

    È quindi fondamentale ridare bellezza al segno perché attraverso i segni e i riti agisce la grazia del Signore, che non tocca solo l'intelligenza, ma coinvolge tutto l'uomo con i suoi sensi. Rivalutando i segni la liturgia deve riappropriarsi di quel senso del sacro e del mistero necessario affinché l’uomo attinga alla grazia che offre luce e forza perché possa fare esperienza della salvezza nell'oggi della celebrazione liturgica e nel vivere d’ogni giorno. In questa prospettiva già il Sinodo del 1985, ha sottolineato che «nonostante il secolarismo, esistono anche segni di un ritorno al sacro. Oggi infatti ci sono segni di una nuova fame e sete per la trascendenza ed il divino. Per favorire questo ritorno al sacro e per superare il secolarismo dobbiamo aprire la via alla dimensione del divino o del mistero»¹². Il sacro si fa presente in una bellezza normativa (rito = ordo) a cui bisogna prestare servizio a tutto vantaggio della cattolicità del culto, infatti il rispetto di un ordo e la sua ripetizione dà forma, forgia lentamente e gradualmente l’unico corpo di Cristo.

    Purtroppo ai giorni nostri la liturgia della Chiesa attraversa una profonda crisi teologico-dottrinale e rituale, quindi si sono smarriti i contenuti e la forma. Nonostante le buone intenzioni del concilio per rilanciare il valore della liturgia al fine di collocarla al centro della vita della Chiesa, occorre prendere atto che solo in parte i grandi obiettivi della Sacrosanctum Concilium sono stati soddisfatti. Nel panorama liturgico contemporaneo si è perso il senso del sacro, quindi i fedeli non si accostano più alla liturgia con il timor di Dio. I segni, i gesti, le azioni sacre che elevano l’uomo alla contemplazione della profondità del mistero celebrato sono state ridotte, manipolate e in alcuni casi cassate o reinventate secondo idee dell’ultima ora, improvvise, creative e spontanee. Il risultato è quello di una liturgia banale, discontinua e multiforme, che non è più in grado di elevare le anime alla contemplazione dei tesori celesti. Tutto ciò è il prodotto della razionalizzazione della liturgia, in cui predominano i contenuti e di un umanesimo desacralizzante che rifiuta il confronto con il mistero divino. Si pensi anche al fatto paradossale che, pur avendo tradotto l’intera liturgia dal latino alle lingue nazionali per facilitare ai fedeli la comprensione del mistero che viene celebrato, molti ignorano il fine ultimo della Santa Messa o sono quantomeno confusi circa il suo significato. Per invertire la rotta è necessario rimettere Dio al centro della liturgia, e contemplarla come azione sacrificale divina rivolta a Lui. Quindi, come afferma il teologo ortodosso Karl Christian Felmy, per ovviare all’appiattimento del rito, occorre «mettere di nuovo in maggior rilievo la dimensione del mysterium tremendum nella celebrazione dell'azione liturgica. La liturgia non è mai una manifestazione solamente umana, ma irruzione di Dio nella nostra realtà e partecipazione d'onore dell'uomo al servizio divino celeste, celebrato già prima di noi e anche senza di noi. Ogni azione liturgica ha perciò qualcosa di sacro in s黹³.

    Benedetto XVI, con l'esemplarità delle sue celebrazioni, ha inteso ricordare a tutti il grande valore della tradizione della Chiesa, in particolare l’efficacia dell’antica liturgia romana che, disponendo sapientemente i gesti, i simboli, i segni all’interno del rito, conduce l’uomo all’incontro con la Verità. La forma straordinaria del rito romano, celebrata con buone e sante disposizioni tese a glorificare Dio, per mezzo di molteplici fattori come la lingua latina, il silenzio, il canto gregoriano, i gesti intensi e ieratici, favorisce un’autentica partecipazione con il corpo, il cuore e la mente, permettendo ai fedeli di vivere un’esperienza contemplativa e rivelatrice. Essa, quindi, è un patrimonio prezioso che non deve essere relegato al passato, ma a cui si deve attingere nel presente e nel futuro. Così facendo, si realizza quella riforma della riforma, vale a dire l'applicazione alla liturgia di quella «ermeneutica della riforma nella continuità dell'unico soggetto Chiesa», alla quale il saggio del dottor Martinelli porta un importante contributo.

    Nicola Bux

    Bari, 24 gennaio 2014

    San Francesco di Sales

    INTRODUZIONE

    Performance è un termine inclusivo, che si estende su tutta la gamma dell’azione umana, infatti spazia dalle ritualizzazioni animali (esseri umani compresi) alle performance della vita quotidiana (saluti, manifestazioni di emozioni, scene familiari, ruoli professionali, e via dicendo) fino al gioco, agli sport, al teatro, alla danza, a cerimonie, riti e performance di grande magnitudine¹⁴. In particolare il presente studio intende indagare la performance rituale religiosa perché

    la religione, come l’arte, vive solo nella misura in cui viene tradotta in performance, cioè nella misura in cui i suoi riti «hanno buon mercato». […] Infatti la religione non è esclusivamente gnoseologica, un insieme di dogmi, ma è anche un’esperienza significativa e un significato esperito. Nel rito vengono vissuti fino in fondo gli eventi, o l’alchimia delle loro strutturazioni e simbolizzazioni, e vengono rivissuti gli eventi semiogenetici, le parole e le gesta dei profeti e dei santi o, se questi mancano, i miti e le epopee religiose¹⁵.

    L’obiettivo è quello di ribadire l’originarietà del rito cristiano come azione e performance al fine di conoscere il mondo religioso concreto, quello cultuale e rituale appartenente all’ambito antropologico-religioso, guardando a quella realtà umana e religiosa che fa da sfondo primo e precategoriale all’accettazione stessa della Parola¹⁶. Per raggiungere quest’obiettivo, la forma ordinaria elaborata dalla riforma liturgica seguita al concilio Vaticano II e, la forma straordinaria corrispondente all’antica liturgia in vigore fino al 1970, verranno considerate come un evento performativo, dunque saranno analizzate seguendo la traccia di una «critica teatrale», ovvero utilizzando gli schemi della performance al fine di capire la funzionalità degli elementi formali che le compongono: la drammaturgia, il suono, la voce, la musica, il corpo, i gesti, i movimenti, le azioni, lo spazio, ecc. Questo modo di procedere è dettato dal fatto che il rito, in quanto performance, intrattiene da sempre forti relazioni con altre attività performative, in particolare con il mondo del teatro, non per niente il teatro ha origini rituali e il rito ha un retroterra teatrale¹⁷. Dunque quest’analisi si ispira ai presupposti della «teoria della performance», elaborata dall’antropologo Turner e dall’etnodrammaturgo Schechner, che ha cambiato i modi di concepire il fatto teatrale rispetto ai metodi tradizionali occidentali. In particolare Schechner che, come dice il regista Eugenio Barba, possiede un punto di vista «dislocato», nel senso che conosce dall’interno non il teatro, ma le «trasformazioni» del teatro, infatti

    al centro della riflessione teorica di Schechner non c’è tanto il teatro (ortodosso o sperimentale che sia) quanto piuttosto i suoi meccanismi base, o ancora meglio, il problema della tensione dialettica che sempre si crea tra il bisogno umano (di espressività, di combinare efficacia e intrattenimento) e le forme di espressione culturale che questo bisogno riceve a seconda delle pressioni che le circostanze storiche, ambientali, politiche, economiche, ecc., esercitano sui gruppi e sulle comunità organizzate¹⁸.

    I meccanismi base del teatro, dunque, sono quegli aspetti formali efficaci, di natura fisico-percettiva, che ricorrono in ogni espressione culturale, in ogni performance, a maggior ragione nelle performance rituali religiose e negli ordinamenti liturgici che, in molte culture, hanno condiviso o condividono una storia comune con il teatro, anche se i due ambiti non si confondono mai pienamente. Questa relazione fraterna tra rito e teatro è stata conosciuta anche nella storia del cristianesimo che, limitatamente al medioevo, ha prodotto una riscoperta e reintroduzione del teatro in una ritualità sacra così che si potesse far forza su uno scopo edificante¹⁹. Di conseguenza, il presente studio, ripercorrendo le attinenze e le differenze che hanno contraddistinto il rapporto tra liturgia e teatro nel corso della storia occidentale, intende proprio individuare i meccanismi base del teatro nelle «trasformazioni» della performance liturgica, prendendo quindi in considerazione lo svolgimento del rito cattolico della Messa nei suoi aspetti esteriori, visibili e percepibili. In definiva, analizzando il sistema in cui gli elementi rituali tipici della tradizione cristiana sono declinati e distribuiti all’interno delle due forme del rito romano, si vuole misurare lo «stato di salute» della liturgia della Chiesa da un punto di vista performativo per comprenderne i limiti e le potenzialità.

    Lo studio è dunque suddiviso in quattro capitoli. Il primo capitolo tratta temi strettamente antropologici e storici concentrandosi sul rapporto tra liturgia e performance: il valore del rito in quanto necessità dell’uomo mediante l’esplorazione dei suoi caratteri essenziali; il significato del rito e della liturgia in ordine alla performance; il rito in quanto forma, ossia come insieme di mezzi comunicativi e simbolici esteriori; infine si esamina il rapporto tra rito e teatro. Nel secondo capitolo si tracciano i contorni della liturgia cattolica, passando in rassegna i principali elementi performativi che compongono la ritualità cristiana, i quali servono da guida per l’analisi performativa delle due forme del rito romano che occupa i due capitoli successivi. In tal senso nel terzo capitolo si analizza la forma straordinaria e nel quarto la forma ordinaria. La struttura dell’analisi è identica per entrambe le forme ed è ripartita in cinque paragrafi: il primo studia il contesto socio-storico-ecclesiale che ha originato la forma liturgica; il secondo individua gli obiettivi della forma liturgica, la mission, i motivi per cui viene celebrata, attraverso una considerazione generale degli aspetti teologici; il terzo analizza l’esito performativo degli obiettivi per capire in che modo vengono tradotti nella celebrazione. Questo paragrafo costituisce l’analisi performativa vera e propria perché intende esaminare le coordinate fondamentali del rito: la drammaturgia, ovvero la scrittura drammatica per capire in che modo è strutturata la celebrazione e quali sono i suoi contenuti; il suono, l’uso della voce, del canto e del silenzio; il valore dello spazio e la sua funzionalità; l’uso del corpo, le azioni, i movimenti e i gesti con una descrizione analitica dello svolgimento del rito al fine di conseguire una visione olistica della celebrazione. L’ultimo paragrafo è la conclusione del capitolo, infatti consiste in un bilancio storico-antropologico per comprendere l’evoluzione della forma liturgica in rapporto alla sua efficacia e agli influssi esterni (in particolare gli eventi socio-culturali che hanno segnato la storia occidentale moderna e contemporanea).

    L’obiettivo finale vuole essere quello di comparare il mondo della liturgia cristiana e quello del teatro, non soltanto sotto il profilo di presunte analogie, ma per suggerire una rivalutazione della performance rituale in ambito liturgico. Infatti, frequentemente, i liturgisti, i teologi o gli uomini «di Chiesa»,

    snobbano il rito in quanto lo ritengono una categoria minore, incompleta, non autentica, legata al mondo delle religioni non cristiane e dunque essi volgono volentieri lo sguardo altrove e cioè verso la liturgia che considerano invece l’unico vero oggetto di riflessione del mondo teologico. Questo è un pregiudizio interno al mondo teologico ancora più difficile da sfatare²⁰.

    Tuttavia è necessario comprendere che

    la ritualità è il sostrato comune di ogni liturgia, è il background di ogni azione religiosa e liturgica e gli schemi d’azione della ritualità ripropongono tels quels le coordinate del mondo liturgico sia che i liturgisti acconsentano a questo fatto sia che lo neghino per motivazioni allotrie e pregiudiziali²¹.

    RINGRAZIAMENTI

    Prima di tutto desidero rendere grazie al pescatore di uomini Benedetto XVI che, con il suo magistero, mi ha pescato dal mare delle tenebre tirandomi con pazienza sulla sua luminosa barca, a bordo della quale mi viene offerta la possibilità di vivere una nuova vita abbeverandomi alla fonte della Verità. Questo mi ha permesso di recuperare ed approfondire una fede di cui non avevo piena coscienza e conoscenza.

    Sono grato inoltre al professore di Storia del Teatro ed Antropologia Teatrale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia, dott. Carlo Susa, per avere accettato di assistermi all’elaborazione di questo studio, per i preziosi consigli, per l'aiuto nella ricerca delle fonti bibliografiche. Un sincero ringraziamento lo rivolgo anche a tutti i membri del movimento liturgico Benedettiano di Brescia per avermi condotto alla scoperta dei tesori della liturgia, ai soci dell’Amicizia San Benedetto Brixia, e a tutti coloro che, in vari modi, mi hanno prestato il loro aiuto e la loro assistenza nella realizzazione di questo lavoro. Grazie alla mia famiglia per l’immancabile sostegno morale e materiale. Grazie infine all’editore Cristian Cavinato, persona intraprendente, libera e coraggiosa.

    CAPITOLO I

    LITURGIA E PERFORMANCE

    «Nessuna religione, vera o falsa, può esistere senza riti».

    Agostino di Ippona, Contra Faustum, XIX, II

    1.1 Il rito: necessità dell’uomo

    Nella sessione XXII, sulla dottrina del sacrificio della Messa, il concilio di Trento, riconosce formalmente che

    cumque natura hominum ea sit, ut non facile queat sine adminiculis exterioribus ad rerum divinarum meditationem sustolli, propterea pia mater Ecclesia ritus quosdam, ut scilicet quadem submissa voce, alia vero elatiore in Missa pronuntiarentur, instituit; caerimonias item adhibuit, ut mysticas benedictiones, lumina, thymiamata, vestes aliaque id genus multa ex apostolica disciplina et traditione, quo et maiestatis tanti sacrificii commendaretur, et mentes fidelium per haec visibilia religionis et pietatis signa ad rerum altissimarum, quae in hoc sacrificio latent, contemplationem excitarentur²².

    I padri conciliari avevano ben chiaro di come la necessità del rito sia radicata nella natura dell’uomo, infatti il rito è necessario perché l’azione rituale è il primo momento di organizzazione dell’esperienza che facciamo al mondo e fa capo ad una pragmatica trascendentale in base alla quale si vuole evitare la logica dei doppi pensieri facendo chiarezza tramite un’azione simbolica che ristabilisca il cosmos. Il rito è l’organizzazione dell’esperienza di senso dell’uomo nel mondo, quindi la conoscenza di sé che si costruisce intorno al corpo e in rapporto al mondo. Questa organizzazione non viene dal pensiero, ma, come suggerisce il concilio tridentino, dagli «aiuti esteriori» e dagli «atti visibili», in altre parole dalla forma e dall’azione, perché il rito non significa comprendere il mondo attraverso il pensiero, al contrario vuol dire decodificare il mondo attraverso la propria esperienza percettiva pre-categoriale, tradotta sempre da azioni. Con il rito si supera una visione concettualizzata del mondo, poiché tutto è fondato sull’azione e sulla corporeità dell’uomo con tutti i legami connessi con la terra, le percezioni, le sensazioni, con la necessità di soddisfare i bisogni primari e le esigenze comunicative che lo pongono in grado di tutelarsi e di avere un primo habitat. Il rito, in quanto azione, dà la priorità al corpo, quindi con il rito l’uomo pensa attraverso il corpo. La rappresentazione del reale come puro pensiero vale soltanto per noi occidentali post-industriali che non conosciamo più l’importanza del corpo, infatti nel contesto tecnico-razionalista i riti appaiono realtà secondarie e spurie perché è stato delegittimato il corpo umano e la sua realtà psicosomatica. Nel rito l’esperienza con il corpo parla prima delle parole e diventa simbolica prima che sia comunicativa a livello linguistico. Si tratta di ritornare ad una concezione epistemologica antica: comprendere qualche cosa attraverso la percezione e l’azione su qualche cosa²³. In questo senso la studiosa americana Susanna Langer, vede il rito come una necessità primaria, un’attività spontanea che sorge senza intenzione, senza adattamenti, senza uno sviluppo pianificato, secondo moduli naturali. Tale attività non è mai stata imposta alla gente che invece ha agito da sola, nessuno ha fatto il rituale, perché le forme degli atti espressivi sono trasformazioni simboliche che la mente produce naturalmente. In definitiva, l’uomo ha da sempre formato una struttura simbolica rituale basata sul distacco dal linguaggio fattuale, sul distacco dall’azione comune e ordinaria, che porta l’uomo a capirsi all’interno del suo mondo attraverso la creazione di stilizzazioni del modo di agire e di essere²⁴. Il rito religioso, quindi, è necessario perché traduce l’azione nel mondo in un’azione orientata a dimenticare il mondo, o a cambiare il mondo, per questo si esprime in forma ludico-simbolica così che si possa cogliere con gesti e segnali vari che il mondo non è tutto il mondo, perché ci sono altri mondi possibili e mondi simbolici che il rito ha bisogno di ostendere²⁵.

    1.2 La performance rituale

    Il termine rito deriva dal latino ritus che significa ordine stabilito. Si collega al greco "artys (prescrizione, ordinamento") e rimanda a una doppia radice indoeuropea: una, ar- armonica disposizione delle parti con il tutto – produce la parola sanscrita rta e l’iranico arta rinviando ai nostri termini di arte, rito, rituale, evocando il concetto profondo di armonia restauratrice e della sua funzione terapeutica; l’altra ri (scorrere) rinvia ai termini come ritmo, rima, riva – da cui l’inglese river (fiume) – e quindi evoca il fluire ordinato rispettivamente delle parole, della musica, delle acque. Entrambe le radici rimandano a una visione religiosa del mondo come ordine dell’universo e dei suoi abitanti stabilito dagli dei, ordine al quale ogni essere vivente si deve conformare per stare bene. Il rito, quindi, prescrive le azioni da compiere per attuare l’ordine del cosmo, per rispettarlo o restaurarlo in modo da ottenere il benessere del mondo, della società e degli uomini ed evitare il caos²⁶.

    Analizzando le origini del termine, si notano due concetti fondamentali che convergono a comporre la parola rito: uno di carattere ideale e soprannaturale, ossia l’armonia cosmica restauratrice a cui il rito si riferisce; l’altro riguarda la realtà e l’azione, cioè l’ordine, il flusso, il ritmo e la rima. Quindi il rito è un’azione sacra ripetitiva, la quale, come dicono Pausania e Plutarco, è composta da un drόmenon (azione) e un legόmenon (parola, mito), in cui l’azione cerca di realizzare il mito²⁷. «Si gioca in profondità il rapporto tra mondo reale e quello ideale»²⁸ o per dirla come l’antropologo Clifford Geertz, tra il «mondo come immaginato» ed il «mondo come vissuto»²⁹. Infatti nel rito si attua una mediazione profonda tra fattori non strumentali, sovrannaturali, che si riferiscono a credenze in esseri mistici, e fattori concreti, naturali, ossia l’azione espressivo simbolica. In definitiva, il rito è un’azione sacra ripetitiva, composta da azione/gesto e da parola/mito, la cui congiunzione manifesta un agire totale, sullo sfondo della percezione di elementi mistici e sacri, che cerca di realizzare il mito attraverso la strutturazione di un gioco simbolico-mistico dove qualche cosa sta per qualche altra cosa³⁰. Questo agire totale, che realizza il gioco simbolico-mistico rituale, non è altro che la performance, ossia l’azione simbolica rituale, che si distingue dalle azioni normali e quotidiane perché ha in sé un valore simbolico e totale, quindi si costituisce come qualcosa di creativo, compiuto e trascendente rispetto al corso degli eventi. Nell’azione performativa si possono distinguere tre connotazioni fondamentali: la prima è la coscienza, infatti la performance non è un’azione che risponde all’automatismo quotidiano, ma corrisponde ad una riflessività sull’azione stessa, che dà luogo ad una rappresentazione, un’imitazione o una trasformazione della realtà; la seconda è il flusso, cioè l’intensità dell’azione performativa, il totale coinvolgimento in essa, una sensazione olistica che immerge totalmente nell’evento; la terza è la relazione, ossia l’interazione che la performance è in grado di stabilire tra attori e spettatori, uno scambio di esperienze e conoscenze tra individui³¹. Secondo Schechner ciò che costituisce il nucleo e la caratteristica essenziale di tutte le specie di performance, dalle più semplici alle più complesse, dalle più brevi e circoscritte alle più lunghe ed estese è una speciale modalità di azione individuale e sociale, un meccanismo di base chiamato restoration of behaviour e restored behaviour che in italiano viene tradotto nei termini «comportamento recuperato» e «recupero del comportamento»³². Si tratta di alcuni tipi di comportamento (sequenze organizzate di eventi, sceneggiature, testi conosciuti, movimenti codificati) che esistono «indipendentemente dai performer che li eseguono, per cui si possono conservare, trasmettere, manipolare, trasformare»³³. In altre parole

    là dove, nelle azioni umane, rintracciamo in qualche misura comportamento recuperato, allora siamo in presenza di performance e , viceversa, c’è performance in quelle azioni (tanto se appartengono alla sfera dell’arte quanto alla vita) in cui siamo in grado di cogliere l’attivazione di dinamiche di recupero di comportamenti³⁴.

    Le performance dunque sono atti che, come ha detto Victor Turner, avvengono nel modo congiuntivo, il famoso «come se». L’etimologia del termine può aiutare a capire meglio il significato della performance:

    il termine performance, deriva dal medio inglese parfournen, poi parfourmen, che a sua volta deriva dall’antico francese parfournir, composto da par («completare») e da fournir («fornire»).³⁵ To perform significa quindi produrre qualcosa, portare a compimento qualcosa, o eseguire un dramma, un ordine, un progetto³⁶.

    Indagare la performatività del rito o della liturgia, significa concentrarsi sull’azione e non a caso

    S. Ambrogio usa il verbo agere o offere per indicare il celebrare la Messa, e con ciò si vuole intendere il compiere l’azione sacra. Per questo tale vocabolo viene adoperato in seguito per indicare in senso proprio la Messa dei fedeli, riferendolo al canone che viene chiamato Canon actionis. Si usò anche il termine agenda per significare la celebrazione della Messa, e qua e là si indica tale atto con l’espressione agere agendam. Tutte queste denominazioni riguardano l’azione³⁷.

    Nel rito, grazie alla performance,

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