Oltre ... l'Apparire
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Oltre ... l'Apparire - F- Pio Palazzolo
vite.
1
L’isola madre
era quasi al centro del suo arcipelago che formava un vasto estuario dal paesaggio incantevole. Dal lato ovest formava un corridoio con un’altra isola e la costa scoscesa sembrava rotolare verso il mare nel quale andava a tuffarsi in una miriade di scogli bianchi e luccicanti di sale che si levavano dal mare immobile che si orlava e prendeva le loro forme. Bassi fondali, facevano intravedere le ultime propaggini di praterie di posidonie, si aprivano in golfate discontinue che racchiudevano un fondo di sabbia corallina che faceva assumere all’acqua una colorazione color smeraldo fino a toccare il bianco candido delle brevi spiagge che rompevano la corona di roccia granitica solcata dallo scalpello del vento e delle mareggiate. L’isola, nonostante fosse abitata appariva da questo lato ancora selvaggia e niente avrebbe fatto presagire che dietro quella estrema punta di roccia, si apriva l’abitato: arroccato sulla bassa collina, in un tripudio di tetti che, da quella angolazione, sembravano appoggiarsi l’uno sull’altro in modo caotico, irrazionale, asimmetrico, quasi sfidando le leggi della statica in un pittoresco presepe marino che defluiva sulla costa e la seguiva per ampio tratto segmentando abitazioni a tratti di scogliera.
La mattina oramai chiara si alzava pigra, si stirava lungo le banchine e mostrava i primi segni di vita, i primi rumori, i primi stridii di gabbiani. Il lungo mare era semideserto e gli alberi si scrollavano di dosso la brina della notte, la calma era assoluta. Di fronte l’altra isola si incorniciava nel chiarore ascendente del sole e quel tratto di mare era solcato in lontananza da scie bianche di barche da pesca che rientravano attorniate da una nuvola di gabbianelle chiassose, pronte ad acciuffare i pesci di scarto che i pescatori gettavano in mare mentre smagliavano le reti. I motori borbottavano, e gli scafi avanzavano aprendosi il varco in quel mare stranamente di pietra che lambiva, frantumandosi, i loro fianchi e finiva per allargarsi arrotolandosi su se stesso quasi all’infinito fino a sparire inglobandosi nella calma d’olio. La notte era stata umida e faticosa. Come sempre l’acqua ti entrava nelle ossa, ti arrugginiva le articolazioni, ti inchiodava le mani che, nonostante l’estate, la notte gelavano e si aggrinzivano al contatto con le reti bagnate, si tagliuzzavano al contatto con i pesci e i detriti che tiravano su dal fondo. Le reti erano ammonticchiate al centro dell’ampia poppa, abbisciate sapientemente in cerchi concentrici continuamente uguali, che sembravano scandire le vite di sempre. Quelle vite passate da padre in figlio, segnate dai solchi nella pelle seccata dal sale e arsa dal sole, impressa nei movimenti sempre uguali a segnare arabeschi nell’aria: mentre si costruiscono gli arnesi, mentre li si fila nell’acqua o mentre, con estrema perizia, li si ripara, o quando li si tira su nella speranza di un mare meno avaro ma che spesso lascia solo fatica, sudore, delusione ma che, a volte, inaspettatamente ripaga delle secchiate gelide nella tormenta del maestrale, quando gli spruzzi sono spilli sul viso e il corpo è un tremito misto di freddo e paura per l’improvviso esplodere degli elementi. Allora è meglio tagliare tutto e scappare verso il porto, con la barca vuota, gli arnesi persi, ricchi solo della speranza di portarsi dietro la vita. È una vita che prosegue con il ricircolo delle stagioni sempre identica nella ritualità ancestrale del levarsi del sole e delle fasi della luna, attraverso il loro eterno percorrere l’incavo del cielo, a scandire, giorni, settimane, mesi, anni, sempre lì fissi nella loro monotonia inchiodati in quel cielo ora bonario ora pesante come il piombo.
I pescatori seduti sulla murata, sigaretta tra le labbra assaporavano il sole che saliva, che rendeva scagliosa e tremula la superficie del mare e scaldava le ossa. Ingoiavano l’aria pulita che odorava di pesce appena pescato, di fumo, di nafta, di legno impregnato di sale e fatica. Oggi era una giornata che si annunciava bella, la pesca era stata ricca: il pesce di qualità brillava nelle casse e faceva bella mostra di sé, al mercato il prezzo sarebbe stato buono e la fatica di questa notte bianca ricompensata ampiamente
!
Il molo era già in vista: l’insenatura naturale era larga e profonda protetta da una diga frangiflutti a ovest che si incrociava con un’altra posta a est, garantiva rifugio ottimale nelle giornate di burrasca. Le barche si infilarono rallentando e lo specchio acqueo iniziò ad incresparsi con ondine gelatinose che si frangevano sui lati granitici delle banchine, li percorrevano rincorrendosi e rimbalzavano tornando, come un boomerang, verso gli scafi che lentamente stavano prendendo terra disponendosi in modo ordinato ai loro posti. Si erano formati già capannelli di curiosi che sul limitare della banchina allungavano gli occhi per vedere meglio il pescato. Qualcuno faceva commenti, qualche altro azzardava a proporsi per l’acquisto, a buon mercato, di qualche bella cattura; qualche altro aspettava più in la lo sbarco della merce, altri si affrettavano con un carrettino con l’evidente intenzione di trasportare la merce al vicino mercato. C’era tutt’intorno un allegro chiacchiericcio fatto di commenti, battute, risate, pacche sulle spalle, strette di mano che siglavano l’affare fatto
; voci perentorie che dettavano gli ultimi ordini ai marinai per pulire, rassettare, sbarcare, di mano in mano, le cassette con dentro il lavoro di una notte; qualcuno si toglieva la cerata e gli stivaloni che lo avevano protetto dalla bruma notturna e li riponeva con cura sopra le murate ad asciugare, per essere pronti all’uso il pomeriggio quando tutto ricominciava daccapo e un’altra lunga notte sarebbe arrivata. Per molti non ci sarebbe stato riposo, o meglio ci sarebbe stata solo qualche ora di riposo; bisognava controllare le attrezzature, ripararle se necessario, bisognava fare gasolio, controllare i motori e l’idraulica dei verricelli che tiravano su le reti, ognuno aveva il suo da fare e doveva farlo presto e bene: il mare … il mare dà la vita … a volte la toglie … bisogna che tutto sia sempre al massimo dell’efficienza per limitare al massimo l’intervento del destino.
Ci videmmu stasera … vagu in casa a ripusà
va beh’ Nico’…
Nicola era il capobarca del motopeschereccio S. Giuseppe, un tipo chiuso, generoso, tutto mare e casa. Aveva un’età indefinita, si diceva che era figlio del mare, poiché nessuno sapeva dove era nato e da chi. Era capitato in quest’isola che era, forse, poco più che trentenne, con una carretta a vela, un due alberi malconcio e rattoppato che stava a galla per miracolo, aveva detto che proveniva dal nord africa, non aveva meta, si sarebbe fermato solo qualche tempo per riparare lo scafo e metterlo in condizione di riprendere il mare. Poi, pian piano, si era legato a questi posti, aveva stretto qualche distaccata conoscenza e si era inserito
in questa società chiusa, isolana che lo aveva accettato per quel che era, come si accetta un naufrago al quale gli si butta una gomena e lo si tira su per la murata della nave, non gli si chiede chi è, lo si asciuga, lo si riscalda, lo si rifocilla e poi … durante la navigazione finisce per diventare uno dell’equipaggio, uno dei tanti che contribuiscono al buon andamento della nave. Difficile, per lui, sarebbe poi sbarcare al primo porto, difficile dimenticare chi ti ha sottratto agli artigli gelidi delle onde, difficile recidere quel cordone
di gratitudine. Forse lui era stato conquistato dalla solidarietà isolana che aveva ricevuto spontaneamente una volta superata la barriera della diffidenza iniziale che gli era stata mostrata in quanto straniero, in quanto diverso. È bastata una piccola scintilla iniziale, una piccola onda che si ingrossa con l’abbassarsi del fondale e si ingigantisce mentre frange sulla costa; era diventata quasi una gara per aiutarlo a rimettere in vita quella barca, stracciata dalle onde e agonizzante tra i flutti della banchina: la avevano tirata su, rappezzata a dovere, calafatata, pitturata, rammendate le vele, rinnovato il sartiame, rimesso in movimento quel ferro arrugginito che era il motore. Quando l’avevano calata a mare fu quasi una festa paesana! L’aveva provata e riprovata era pronta a ripartire per trasportarlo chissà dove, non lo sapeva neanche lui dove, avrebbe affidato, come sempre, la sua sorte ai venti. Era eccitatissimo durante i preparativi, ognuno gli portava quel che poteva e la cambusa fu presto piena. A lui bastava andare, trovare altri lidi, conoscere altre genti, solcare i mari, aveva un’anima randagia, sembrava dovesse fuggire da qualcosa, e cominciava a sentirsi stretto in quel francobollo di terra nonostante avesse trovato quasi un paese intero disposto ad adottarlo. Un giorno decise, non salutò nessuno per paura di non avere … di non trovare la forza di partire, mollò gli ormeggi e si allontanò con il favore dei venti. Era una giornata di quasi metà luglio un periodo dove il vento, qualche volta, si alza inaspettato e in quegli stretti solleva il mare in onde alte e schiumose come fossero montagne. All’improvviso l’otre si aprì di colpo e uscirono furie scatenate da nord-ovest, la barca andò in briciole sulla scogliera di Cala d'Inferno, lui si buttò a mare per tempo, lo salvarono per caso dei pescatori che scappavano dalla tempesta … Da quel momento smise di essere randagio e si scoprì sedentario
, divenne quasi un simbolo pe’ u culu chi avia autu
a salvarsi dalle onde delle Bocche, e tutti gli volevano bene, forse più di prima, ma lui teneva le giuste distanze era ed è un’isola nell’isola: lavora come dieci uomini, parla di rado con un linguaggio essenziale, mangia solo pesce, non beve vino, non fuma, non va a donne, non è fidanzato nonostante sia un bel tipo: ben piazzato, alto con gli occhi azzurri, lo sguardo penetrante e qualche volte triste, qualche altra inquieto, la capigliatura incolta e brizzolata, un fare distinto che a volte cozza con l’abbigliamento da lavoro che costantemente indossa.
Lasciò la banchina e si inerpicò su per una stradina ripida che terminava ai piedi di una scalinata ancora, se possibile, più ripida. Alzò lo sguardo come per misurare la distanza, e con falcate larghe e sicure iniziò l’ascesa. Ai lati della scalinata sorgevano case umili, tutte bianche con intonaci cadenti che sputavano salsedine; qualche fico spuntava dai cortiletti che si aprivano umidi tra un isolato e l’altro e si intrecciava con piante di fico d’india che ostentavano le loro infiorescenze gialle e i fiori ancora verdi che sarebbero maturati a settembre e pronte a mangiare dopo le prime piogge, come voleva una vecchia tradizione locale. La scalinata era interrotta di tanto in tanto da pianerottoli ampi, ricchi di gerani, lui aveva l’abitudine di fermarsi, non per riposare, ma per gustare il panorama che, di pianerottolo in pianerottolo, si allargava sempre più a mostrare un paesaggio incantevole, sempre affascinante anche se visto e rivisto quasi da un’eternità. Era la magia di quel luogo! Un male oscuro
che s’impadroniva dell’anima, offuscava la mente e la rendeva schiava di quei luoghi selvaggi e millenari dove il tempo sembrava essersi fermato in un turbinio d’eternità. Si fermava, si voltava, si appoggiava al muretto e stava lì in estatica contemplazione, di quei tetti, di quel braccio di mare che confinava con l’isola di fronte, poi spostando lo sguardo verso est, seguiva l’acqua che si restringeva in un passetto
e poi si slargava come in un grande lago fino a toccare l’altra isola laggiù che si ergeva alta, lussureggiante e selvaggia e si ritagliava un segmento frastagliato nel cielo che ora aveva assunto un colore turchino con striature di nubi leggere, alte e trasparenti. Altre scale, sempre più su, altre tappe sino all’ultima dove la vista ora spaziava su un orizzonte più ampio quasi a 360°. Ora vedeva la costa della terra ferma
come la chiamavano gli isolani che poi non era altro che un’altra isola ma molto più grande. Le case, sull’altra costa, si vedevano nitidamente; alle loro spalle un ascendere di colline che si appoggiavano l’una sull’altra e più in la le montagne che si inerpicavano in un cielo sempre più scuro. A Nord altre montagne, di un’altra isola, molto più grandi, molto più alte conficcate tra nubi a cavolfiore che scendevano dalle loro pendici e si disperdevano in vista del mare. Era quasi arrivato, la sua casetta era l’ultima e dominava su tutto da li si potevano vedere anche le altre isole ad ovest dell’arcipelago, il paese sottostante, il porto, le stradicciole che si intrecciavano in carrugghi stretti e umidi, che si allargavano in piccole piazzette fatte, come tutte le strade, di lastre di granito sistemate con perizia e ritagliate con precisione dai mastri scalpellini, per incastrarsi perfettamente tra di loro a formare una enorme e serpeggiante lisca di pesce. A destra del