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Making Movies
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Making Movies

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About this ebook

Un pittore dorme nel suo letto, ha l’ombra della morte tra le pieghe del volto e una pallottola sta per entrare dalla sua finestra. Il proprietario del proiettile è El Niño, il killer. E presto il pittore scoprirà che successo e fallimento sono parte della stessa medaglia. Un vecchio cammina solitario nelle strade notturne di New York, ha le scarpe sformate ed è disarmato. È un celebre ladro che si prepara per l’Ultimo Piano, la sua Opera Finale. Al Café des Arts un mercante d’arte senza remore e un tranquillo avventore italiano fondano la loro intesa sulla menzogna reciproca. Ma ora mettetevi comodi perché un film sta per iniziare, e parla anche di quest’ultima notte, prima della fine dei colori.
LanguageItaliano
Release dateJul 16, 2012
ISBN9788895744919
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    Book preview

    Making Movies - Hector Luis Belial

    Tavola dei Contenuti (TOC)

    Copertina

    Frontespizio

    Colophon

    Nota di traduzione

    Primo Tempo

    I. I Colori

    II. Il Colore Nero

    III. La Giungla d’Asfalto

    IV. By a Waterfall

    V. Berlin

    VI. La Conversazione

    VII. Café des Arts

    VIII. Citizen Quix

    IX. Making Movies

    Secondo Tempo

    X. Picturebook / Das Modell

    XI. Frammenti di una notte

    XII. Seaside Rendez-vous

    XIII. New York Phone Conversation(s)

    XIV. Nel Maelstrøm

    XV. Shine on You Crazy Diamond

    XVI. Daelirium (Ghost Track)

    Biografie

    Il Rinascimento

    Consigli di lettura

    Lettera dell'editore

    Hector Luis Belial

    Making Movies

    i jackpot 10

    seconda edizione: novembre 2017

    direttore editoriale: Andrea Malabaila

    progetto grafico: Chiara Scavino

    quarta e sinossi: Elena Di Mizio

    ufficio stampa: Carlotta Borasio

    ISBN eBook 978-88-95744-91-1

    ISBN Cartaceo: 978-88-95744-43-8

    www.lasvegasedizioni.com

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    Note di traduzione

    Mi piacerebbe avere, qui sul palco, un macinino per romanzi. Una macchina che riesca a inghiottire un libro e a spararvelo addosso sottoforma di un milione di coriandoli.

    Così vi costringerei ad avere un contatto fisico con il romanzo. Sentireste quant’è tagliente, quant’è ruvida la carta, e quanto amaro il sapore dell’inchiostro. Perché sono queste le sensazioni che proverete leggendo le pagine seguenti...

    Queste annotazioni autografe, tracciate con inchiostro verde sulla prima pagina dattiloscritta di Making Movies, rappresentano l’unica, scarna presentazione che Belial ha voluto lasciarci del suo romanzo più cinematografico.

    La grafia spasmodica, quasi illeggibile, ci restituisce l’immagine di un Belial già gravemente disturbato, malato, eppure ancora dolorosamente intento all’esercizio della scrittura.

    Stando a Paul Mingus, curatore dell’edizione americana per la Taboo Books (2007), la pubblicazione del primo romanzo postumo dell’autore prematuramente scomparso non ha presentato particolari problemi filologici. Hector Luis Belial, scrive Mingus, era giunto a una stesura definitiva del testo ben prima che le sue condizioni di salute diventassero d’ostacolo alla scrittura.

    Più problematico si è rivelato tradurre in italiano l’opera di un autore dichiaratamente votato all’eccesso, specie linguistico. Come l’immaginario macinino per romanzi, la scrittura di Belial era tesa a una programmatica, quasi sadica esasperazione della lingua, spesso ridotta a brandelli paratattici, o, di contro, forzata in un periodare iperbolico e allucinato.

    Particolare difficoltà ha presentato la ricostruzione del subdolo gioco citazionistico messo in atto dall’autore: nel calderone di Making Movies troviamo, indifferentemente, frasi di Céline e frammenti di liriche beatlesiane, battute cinematografiche e slogan pubblicitari, in una sorta di mantra pop che mescola dissolutamente alto, basso e, non di rado, bassissimo.

    Questa traduzione tenta di apportare il minor danno possibile al gioco di Belial; si è preferito, a questo scopo, mantenere in lingua originale quantomeno le citazioni isolate graficamente, assieme all’apparato di titolazione dei capitoli e del romanzo stesso.

    Roma, 9 aprile 2008

    B. Ortiche

    Per l’edizione italiana di Making Movies, la Dottoressa Ortiche mi aveva chiesto la traduzione di un cruciverba ideato da Belial.

    La richiesta era già di per sé singolare, e, nonostante la lunga esperienza in qualità di giocologo, non ho memoria di precedenti esempi di traduzione di parole crociate. L’operazione risulta infatti impraticabile, a meno che non si voglia accettare la possibilità di lasciare invariato lo schema, limitandosi a tradurre le definizioni.

    Ho preferito, date le circostanze, costruire un nuovo schema da zero, mantenendo sia le dimensioni dell’originale, sia la definizione che appare fondamentale anche nel cruciverba di Belial – ovvero, secondo la numerazione corrente, la 27 Orizzontale.

    E. Bartezzagli

    PRIMO TEMPO

    Non mi sono mai proposto di fare del cosiddetto cinema realistico, né film socialmente impegnati, non in maniera diretta. Per questo motivo, la critica militante degli anni passati mi ha accusato di essere un regista vuoto e borghese, chiuso in un elitario distacco dalla realtà.

    Mi chiedo cosa si aspettino da me questi amanti della verosimiglianza. Dovrei prendere sottobraccio una di queste videocamere leggere, girare per le strade? Riprendere in colori slavati i fatti banali, casuali della vita quotidiana? Senza attori, senza luci, senza una messinscena che non sia del tutto ordinaria? Abbandonare la videocamera sul tetto di un palazzo, per giorni, cambiando meccanicamente il nastro ogni due ore?

    Francamente, preferisco lasciar perdere l’assurda velleità di catturare la realtà dentro una videocassetta. Ho scelto di scrivere di sogni, incubi... di occuparmi di finzioni. Perseverare in quello che ho sempre fatto, e che mi riesce meglio.

    Fare film.

    [Mick Vitali¹]

    1 Da un’intervista apparsa sul Los Angeles Times, 13/08/1981 [N.d.A.]

    I. I Colori

    «Jamar! Jamar! Apri gli occhi, Jamar! Ora puoi guardare!»

    Le palpebre si schiusero, lentamente. Occhi di bambino, spalancati come due falle nello scafo di una nave, nel naufragio in un mare di pastelli.

    Quando Jamar aprì gli occhi, tutti i colori del mondo, in un’unica, pirotecnica ondata, affogarono l’oscurità  dentro la sua testa.

    La voce di Ezra era un puntino nero tra i due cieli. Uno in alto, dove abitavano Dio, il nonno di Jamar e forse anche il padre di Ezra. Un altro in basso, in cui poteva abitare al massimo un girino, cioè una rana piccola. Perché il cielo in basso, sotto le Adidas di Jamar, non era, dopotutto, niente più di una pozzanghera che sgorgava, goccia a goccia, dall’idrante rosso. Un cielo d’acqua piccolo in mezzo a una strada, ok. Ma che serviva, come quello più grande e fatto d’aria, a dipingere di blu il nero dell’asfalto.

    «Jamar! Sali, piscialletto! Sali!»

    Ezra si sporse dall’impalcatura, con un sorriso fresco come una fetta di melone al posto della bocca. Nascondeva dietro la schiena le mani tremanti: guardando in basso, soffriva di vertigini – però Jamar non lo sapeva. E non lo doveva sapere.

    Certo Jamar era strano. Era capace di stare per ore a fissare la bancarella di frutta della signora Sandman, un arcobaleno commestibile, tropicale, sotto una gustosa tenda da sole pistacchio.

    E succedeva ogni volta. Ogni volta che venivano a giocare in quel palazzo abbandonato – quattro piani di mattoni rossi e finestre sbarrate, marcite e ridipinte clandestinamente, tutto chiuso in una gabbia fatiscente d’acciaio. Ogni maledetta volta.

    Il vecchio culo nero di Mary Sandman strabordava da un vestito viola a fiori gialli su uno sgabello di plastica verde. Scacciava il caldo con mani che avrebbero facilmente provocato un tornado, se avessero stretto qualcosa di più solido del ventaglio di carta di riso gadget del ristorante cinese Yin Tao.

    Se ne stava lì, la Sandman, tra un cappello di paglia gialla e degli occhiali marroni, ricordo del suo secondo marito. Se ne stava lì e pensava che, certo, lei, nella vita, ne aveva viste tante

    – ladri di frutta travestiti da pagliacci, il primo uomo sulla luna in un bar di Washington DC, la bianca clinica di Long Island dove le avevano impiantato il pacemaker, i tre funerali degli uomini che per un motivo o per l’altro l’avevano sposata, guerre in numero imprecisato, decine di topi bruciati vivi per strada durante il famoso allagamento delle fogne nel ’57 –

    eppure,

    non le era mai capitato davanti un ragazzino strano quanto quel Marcus Jamar.

    Certo Jamar era strano. A cominciare dal colore della sua pelle, che non era esattamente nero, o meglio, non soltanto nero. Lo stesso Jamar, quando dipingeva se stesso, spremeva il tubetto del marrone assieme a una punta di nero, ma poi ci aggiungeva del rosso, dell’ocra, un po’ di bianco, perfino l’azzurro. Ma nonostante questo, non arrivava mai a ottenere una tinta sufficientemente simile a quella con cui la natura e un imprecisato albero genealogico l’avevano colorato.

    E la cosa, ovviamente, lo faceva imbestialire.

    Ezra aveva assistito più di una volta all’ira di Jamar, capace di strappare se stesso in molti pezzi, gettando la propria faccia in brandelli dalla finestra, lasciando che il vento portasse via i frammenti di carta e colore fresco...

    C’era poi il fatto del nome. Quale bambino si faceva chiamare per cognome da tutti, tranne che da sua madre? Per di più con un cognome inventato – beh, di questo Ezra non era proprio sicuro, ma, a quanto sapeva, esisteva un solo Jamar in tutta la scuola. In tutto il Bronx. Nel mondo intero!

    Eppure Ezra era suo amico, voleva essere suo amico. A scuola, nessuno avrebbe fatto a botte con Jamar. I più grandi, francamente, lo guardavano e lo lasciavano passare, come se, beh, Ezra sapeva che era quasi impossibile, ma. Era come se Jamar li spaventasse.

    Così, senza dire niente.

    Senza muovere un dito.

    Li spaventava con gli occhi.

    Quel Marcus Jamar.

    Si fermava a qualche metro dalla bancarella.

    Se la mangiava con gli occhi.

    Eppure Mary Sandman non l’aveva mai visto comprare una mela. Non una maledetta mela, un po’ di limoni per sua madre, una fetta d’anguria contro il caldo improvviso di quell’aprile crudele. Macché. A volte, la signora Sandman avrebbe preferito che Jamar fosse come quel suo stupido amico, quell’Ezra Rastus. Così per lo meno avrebbe potuto mollargli un paio di benedette ombrellate, di tanto in tanto.

    Davanti a un povero Cristo che ruba per fame, la Sandman avrebbe anche potuto chiudere un occhio. Quell’Ezra, invece, cercava sempre di rubare un’arancia, un kiwi, un frutto della passione. Solo roba di colori sgargianti, ed esclusivamente per fare lo spaccone. La fruttivendola lo pescava ogni volta, naturalmente, fornendogli la sua quotidiana dose d’ombrellate. Che gli entrasse nella zucca una volta per tutte, l’educazione che sua madre non aveva voluto dargli!

    Ah, certo, Mary Sandman sapeva come raddrizzare uno di quei teppistelli concepiti come cani bastardi fuori dalla grazia del Signore. Quel Marcus Jamar, invece... Per Dio! Non faceva niente di male, e lo faceva apposta!

    Spesso la Sandman sfiorava l’idea di allontanarlo dal marciapiede. Eppure, a conti fatti, non gli aveva nemmeno mai rivolto la parola. Per carità, la strada era un luogo pubblico. Inoltre la Sandman non voleva certo passare per la vecchia stregaccia nera che spaventa i bambini. I clienti non l’avrebbero gradito.

    Jamar tornò a scrutare il palazzo rosso e cadente.

    I ragazzini della sua età  avevano contribuito a trasformarlo in un gigantesco puzzle di nomi e colori, scritte oscene e figure straordinarie; e ogni piano, ogni finestra, ogni singolo asse di legno marcio era diventato un mondo, un giardino di disegni che sgorgavano dalla strada e salivano su, sempre più in alto, verso il cielo vero, quello grande, più enorme perfino dell’intera città, anche se gli occhi ne potevano mordere una sola fetta per volta.

    La voce di Ezra non era lassù, ma quasi: il suo amico aveva raggiunto l’ultimo piano, il più vicino al cielo, quello dove nessuno dei due aveva mai osato spingersi.

    «Jamar! Vuoi salire o no!?»

    Jamar era rimasto fermo a guardare la strada, il palazzo, le finestre per minuti lunghissimi e immobili. Aveva esaminato ancora una volta la frutta sulla bancarella. Ma non aveva fame, né sonno, non aveva voglia di arrampicarsi.

    Tutto ciò che desiderava era ascoltare i colori, che erano vivi, che si muovevano come fantasmi danzanti, cambiando di forma come le nuvole. Il sole e la pioggia portavano i colori dei ghiacci dell’artico, della savana africana. Certi colori erano animali più rari di quelli nello zoo del Bronx, altri erano prodotti in serie, riempivano gli scaffali dei supermercati e del frigorifero. Altri ancora erano capaci di parlare e raccontare storie incredibili, i colori erano uomini e donne, erano sogni ed elettricità.

    Ma quando Jamar vide che Ezra, lassù, stava disegnando un grosso sorriso giallo e beffardo sul legno della finestra, quando vide che Ezra stava coprendo l’ultimo spazio grigio prima del paradiso, beh.

    Si diede a scalare l’impalcatura arrugginita come se stesse salendo una scala verso i cieli.

    Mary Sandman poteva ben dirsi una donna di mondo. Il suo terzo marito lavorava in banca, pace all’anima sua. Un vero signore, l’aveva portata in viaggio di nozze a Parigi, Francia.

    E proprio là, a Parigi, Francia, che le guide descrivono come città  di peccatori e artisti, Mary aveva visto la propria immagine riflessa in uno specchio nero. Uno specchio, pare, appartenuto a un pittore, il quale era sì un grande ubriacone e un pericoloso criminale pazzo che non aveva lavorato un giorno in vita sua, ma le sue opere, tuttavia, erano ritenute inestimabili da quelli che ci capivano d’arte, e pertanto conservate in musei protetti da allarmi elettrici e simili diavolerie.

    Ebbene, la guida aveva spiegato che il pittore usava quello specchio nero per riposare gli occhi. Come se la vista, dopo un lungo viaggio attraverso il colore, avesse bisogno di un bagno ristoratore nella tenebra.

    Mary Sandman non ricordava da che materiale fosse stato ottenuto lo specchio. Ma qualunque cosa fosse, si trattava della stessa materia che costituiva il nucleo, profondo e insondabile, degli occhi di Marcus Jamar.

    Non sempre, ma quasi, Ezra riusciva a capirlo. In realtà  non era così semplice, perché, fin troppo spesso, Jamar cambiava d’umore. Prima minacciava di ucciderti in modi troppo fantasiosi, irripetibili e complessi per non essere frutto di lunghe e preoccupanti elucubrazioni. Poi, un minuto dopo, era di nuovo lì a offrirti mezzo Kit Kat e a ridere con te.

    Eppure, quando Jamar si incazzava sul serio – evento non così raro! – era capace di piegare a pugni la lamiera di un armadietto scolastico, o di prendere a calci uno scooter parcheggiato per strada fino a rovesciarlo sull’asfalto.

    Ora che lo vedeva salire l’impalcatura, scalando il palazzo come se avesse la forza di sette gorilla nelle braccia, Ezra Rastus non poteva aveva dubbi. Marcus Jamar era veramente incazzato.

    Là  in alto, l’odore della strada non arrivava. Niente gas di scarico, né puzzo di frittura sudore o cavoli lessi. Il vento portava un’aria troppo trasparente per essere bella, e troppo fresca per non essere curiosa, come un solletico sotto le narici.

    «Ce l’hai fatta, finalmente! Perfino mia nonna ti avrebbe battuto in velocità.»

    Ma perché? Perché Ezra doveva sempre fare il gradasso, anche quando la voce gli impallidiva in quel modo?

    Jamar non rispose a Ezra e non rispose a se stesso. Si limitò a intingere l’indice sinistro nel barattolo di vernice gialla. Seduto a più di dieci metri da terra, decorava un angolo della finestra con un motivo intricato, spigoloso.

    «Andiamo, che ti prende adesso?»

    «Questa finestra era mia. Io la volevo dipingere, e tu lo sapevi. E me l’hai fregata.»

    «Scemenze. I muri non sono mica tuoi.

    «E neanche miei, se è per questo.

    «Sono di chi se li prende per primo. Come tutte le cose di questa città  e del mondo intero.»

    Jamar continuò a dipingere, imperterrito. Il suo arabesco cresceva come un’edera velenosa, arrivando a lambire i contorni dello smile di Ezra.

    «Che stai facendo, adesso? Coprirai il mio disegno, così! Smettila, idiota!»

    «Altrimenti che fai? Mi butti di sotto?»

    Ezra, mordendosi il labbro inferiore, si disse che non valeva la pena di contraddire di nuovo l’amico, se non voleva essere lui a volare dal quarto piano...

    «Andiamo, Jamar, finiamola di litigare... senti, se gli sbirri ci beccano quassù sono cazzi amari. Andiamocene al cinema... danno un film di donne alte quindici metri². È proibito, ma mio fratello ci farà  entrare dal retro, e gratis! Su, Jamar, adesso...»

    Bang. Bang. Bang.

    Perché il cielo non si muoveva? Anche quando era così vicino. Ci vivevano il sole, le stelle, gli uccelli e gli aeroplani. Il cielo era vivo, e conteneva più colori della più gigantesca scatola di pastelli in commercio.

    Eppure, qualunque cosa succedesse quaggiù, che le strade bruciassero, che gli idranti stillassero sangue, oro o coriandoli, il cielo stava là  sopra, un occhio azzurrissimo e muto sopra le macerie del Bronx.

    A volte piangeva, certo, ma non adesso. C’erano appena stati degli spari, per strada, tre colpi di pistola. Jamar aveva guardato Ezra, ed Ezra aveva cercato gli occhi di Jamar. Ma il cielo, quello non si era mosso. Come se non gli importasse.

    Mary Sandman conosceva il suo quartiere. Ci era nata e vissuta per sessantadue lunghi anni. Sapeva riconoscere l’odore dei guai. E non aveva bisogno di orologi particolari per capire qual era il tempo per esserci, e quando veniva il momento di sparire. Anche a costo di abbandonare la bancarella per un po’.

    Questa volta era stato Jamar il primo ad arrampicarsi, era stato lui a salire fino sul tetto, a sdraiarcisi sopra, e a spiare, da dietro la balaustra, quel che stava succedendo dieci metri più sotto, all’interno della videoteca di Mr Green. Ezra, tutto questo, non l’avrebbe fatto, non l’avrebbe voluto fare. Certo non dopo quegli spari. Ma sembrare un vigliacco agli occhi di Jamar, beh. Questo gli sembrava ancora peggio.

    «Ehi LeRoy! Vediamo di tagliare la corda!»

    Naturalmente, Ethan Pane ignorava che quattro occhi di minori lo stavano inquadrando, mentre usciva dalla videoteca di Green sbattendo la porta, tuffandosi in una Chevrolet Monte Carlo nera del ’77 assieme a suo fratello Joel, mentre faceva nervosamente manovra, lasciando una buona mancia di gomma sull’asfalto, sporgendo un braccio mediamente villoso dal finestrino del posto di guida e gridando a piena voce:

    «Ehi LeRoy! Vediamo di tagliare la corda!»

    Al momento, comunque, una coppia di ragazzini spioni sarebbe stata l’ultimo dei suoi problemi. Oltre a un fratello scemo e una macchina rubata, infatti, Ethan Pane si ritrovava con delle fastidiose emorroidi, di tipo psicosomatico, stando alla sua ragazza, che aveva fatto il college. Non ci aveva messo molto, lei, a diagnosticare che il problema si verificava ogniqualvolta Ethan si preparava a una rapina o a un giro di estorsioni. Ancora meno ci aveva messo, lei, a suggerirgli di abbandonare il crimine per dedicarsi, ad esempio, al settore delle pubbliche relazioni.

    Forse, se Ethan avesse avuto l’opportunità  di proseguire negli studi umanistici, avrebbe potuto chiarire alla sua ragazza che il mestiere di mariuolo non era soltanto l’unico in cui vantasse una certa esperienza, ma anche quello che prometteva maggiori profitti a un uomo privo di titoli di studio ma non certo d’iniziativa. Poiché, però, Ethan non aveva trascorso l’adolescenza al college, ma alla macelleria Pistorio, ad appendere carcasse – quasi sempre bovine – ai ganci della cella frigorifera,

    si era semplicemente limitato

    a mandare

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