Quaderno di un partigiano
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No, questa testimonianza è distantissima dallo stile retorico o ideologico di altre opere. Non ha pretese storiche, ma racconta vicende vissute.
L'inizio della narrazione fa già capire lo stile con cui si dispiega il racconto di vita vissuta: "Era il mese di giugno del 1944 quando io, Mino Chelo, mio fratello Carlo e l'amico Roberto Scotti decidemmo di andare sui monti. Io e Roberto eravamo renitenti alla leva, mio fratello, allora diciassettenne, si aggregò. Avevamo sentito dire che sui monti si riunivano coloro che non aderivano alla Repubblica Sociale Italiana: i cosiddetti partigiani. Uscimmo di casa con i soli indumenti che eravamo soliti indossare, non avevamo viveri, non avevamo soldi e anche le scarpe erano quelle "da passeggio"".
Uno stile semplice, sobrio e autentico che non lascia spazio a dietrologie di alcun genere.
L'incontro con i partigiani dei monti sopra La Spezia, la relazione non facile con il comando inglese, la genuinità di alcuni e la durezza di altri protagonisti fanno da cornice al racconto: l'esperienza di un giovanissimo ragazzo che si trova a dover fare i conti con i processi ai gerarchi catturati, le fucilazioni, il confronto col nemico. Tutto intrecciato con delicate vicende umane.
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Quaderno di un partigiano - Giacomo Matteo(tti) Chelo
978-88-97458-06-7
CAPITOLO I
Era il mese di giugno del 1944 quando io, Mino Chelo, mio fratello Carlo e l’amico Roberto Scotti, decidemmo di andare sui monti. Io e Roberto eravamo renitenti alla Leva, mio fratello, allora diciassettenne, si aggregò.
Avevamo sentito dire che sui monti si riunivano coloro che non aderivano alla Repubblica Sociale Italiana: i cosiddetti partigiani
.
Uscimmo di casa con i soli indumenti che eravamo soliti indossare, non avevamo viveri, non avevamo soldi e anche le scarpe erano quelle da passeggio
.
Eravamo allegri, era la prima volta che ci allontanavamo da La Spezia e assaporavamo il senso dell’avventura. Fuori porta ci inoltrammo nella campagna, non avevamo una meta precisa se non quella di raggiungere le montagne dove avremmo trovato i partigiani e poterci aggregare a loro.
Evitavamo di addentrarci nei paesi che incontravamo sul cammino, potevamo imbatterci in carabinieri o in camicie nere e sarebbe stato oltremodo pericoloso.
Gli unici alimenti che riuscimmo a trovare lungo i sentieri della campagna furono dei pometti selvatici. Ci nutrimmo di quelli, del resto per noi il mangiare non era un problema, abituati come eravamo a una dieta piuttosto scarsa.
Avevamo camminato per parecchie ore, ma le montagne apparivano sempre lontane. Non avevamo orologi, il tempo non ci interessava. Non eravamo mai stanchi, né avevamo perso l’entusiasmo per l’avventura che ci attendeva.
Al calar del sole iniziai ad avvertire delle fitte allo stomaco che più tardi si sarebbero tramutate in vere e proprie coliche. Non eravamo molto distanti da un piccolo paese al limite del quale trovammo un fienile dove ripararci e attendere che mi passassero i dolori.
Mio fratello uscì in perlustrazione e quando ritornò, aveva con sé un secchio con del latte che aveva trovato in una stalla. Io ne bevvi più degli altri e, data la tarda ora, decidemmo di trascorrere la notte nel fienile. I dolori si acquietarono e la notte passò tranquilla.
Alle prime luci dell’alba, riprendemmo il cammino senza aver perso il nostro buonumore. Eravamo totalmente disorientati, sapevamo di dover proseguire in salita e fidarci del nostro senso di orientamento. Eravamo sempre fiduciosi, e non a torto, perché nel pomeriggio scorgemmo in lontananza un contadino che, armato di un lungo fucile militare, sopraggiungeva sul dorso di un mulo.
Poiché era tassativamente proibito possedere armi, se non si trattava di un tranello, dovevamo trovarci in un territorio libero
.
Ci avvicinammo e senza indugio gli chiedemmo se esistevano partigiani da quelle parti. La risposta fu affermativa e il contadino ci diede tutte le indicazioni per raggiungere il loro insediamento.
Lungo il cammino fummo fermati da un piccolo gruppo di partigiani che, con armi in pugno, sbucarono da dietro dei cespugli. Ci sottoposero a una serie di domande e quindi ci scortarono alla cascina del comando. Camminammo a lungo prima di raggiungere l’accampamento che in seguito sapemmo collocarsi nel paese di Rossano, nell’alta Lunigiana. Un partigiano, il capo del gruppo, entrò nella cascina e dopo cinque minuti uscì in compagnia di un ufficiale inglese. Era costui un tipo molto alto, dall’atteggiamento superbo che, dopo averci squadrato, rientrò nella sua stanza senza proferir parola; fece solo un piccolo cenno al partigiano.
- Siete i benvenuti , ci disse costui, potete entrare e arrangiarvi, se avete fame abbiamo del pane e del formaggio. Siete agli ordini del Maggiore Gordon Lett.
Il gruppo era formato da una dozzina di partigiani. Noi eravamo delle reclute e come tali non ci veniva data molta confidenza, era chiaro che avremmo dovuto fare della gavetta.
- Questa sera sarete di guardia, ci disse il partigiano che sembrava essere il capo, vi darete il cambio ogni quattro ore. Domani leggerete l’ordine del giorno per conoscere le mansioni che vi saranno assegnate.
Il nostro entusiasmo era enormemente calato. La notte non fu per nulla piacevole. Fare la guardia di notte al buio pesto in mezzo alla vegetazione che al minimo alito di vento ci suggeriva la minacciosa presenza di qualcuno, infondeva tensione e paura. Io e mio fratello Carlo trascorremmo la notte insieme, confortandoci l’uno con l’altro. Avevamo già deciso che l’indomani mattina ce ne saremmo andati. La nostra idea dell’attività del partigiano era molto diversa da quella che ci si