Non dimenticar le mie parole
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Non dimenticar le mie parole - Paolo Guastone
PAROLE
NON DIMENTICAR LE MIE PAROLE
Non dimenticar le mie parole,
Bimba tu non sai cos’è l’amor
Questa mattina avrei dovuto capire che qualcosa sarebbe andato storto semplicemente guardando il tempo.
Appena uscito dall’hotel piombai in una giornata livida, sferzata da una pioggia densa e fredda che si rovesciava a secchiate sui tetti spinta da un vento senza sosta.
L’alba se n’era andata da un pezzo, ma il cielo era una tavola scura e i lampioni erano ancora accesi. La loro luce scrosciava giù con l’acqua e macchiava l’asfalto con pozze di riflessi pallidi.
Eppure, da parecchi giorni l’alta pressione regnava sovrana. Il sole e la calura avevano scelto la seconda metà di maggio per dare il meglio del loro repertorio; la radio e la televisione sputavano fuori i bollettini meteo come fossero sentenze di tribunale, strombazzando che saremmo passati direttamente dal gelo dell’inverno al torrido dell’estate, senza nemmeno sfiorare lontanamente la mite primavera, con grande gioia di chi, nei week-end, mollava tutto e correva a imbottigliarsi sulle autostrade.
Ma già da ieri pomeriggio grosse nuvole nere si erano addensate minacciose e, calata la sera, un vento polare, che scavava le ossa come un bisturi, si era divertito a schiaffeggiare le case e le strade, riservando lo stesso trattamento ai boschi e alle valli circostanti. Nella notte, un violento temporale, una vera a propria bomba d’acqua, aveva urlato tutta la sua rabbia e si era sguinzagliato per il paese, come un branco di lupi assatanati, allagando cantine e abitazioni e trasformando le strade in torrenti.
Fuori, Orsini non c’era. Non lo avevo trovato giù nella hall e così ero uscito dopo averlo atteso per un buon quarto d’ora. Ieri sera, dopo la conferenza stampa, si era riempito come un mastello e, probabilmente, doveva ancora riprendersi dai postumi.
Mi accesi una sigaretta. «Bella giornata del tubo!» borbottai contemplando il fumo liberarsi pigramente verso l’alto. Poi mi guardai un po’ in giro per cercare di capire dove diavolo fosse andato a finire il sole, prima di prendere il cellulare e svegliare quello sciagurato.
Il treno inaugurale non sarebbe partito che tra un paio d’ore, ma prima dovevamo sorbirci i discorsi delle Autorità, la benedizione del Vescovo e il classico taglio del nastro. Avevo quasi finito di scrivere il mio pezzo e mi stavo giusto domandando a che punto fosse arrivato lui.
Conoscendolo, dubitavo che avesse già iniziato a buttare giù qualcosa. Come al solito quel fannullone avrebbe terminato l’articolo in fretta e furia e soltanto all’ultimo momento. In tutti questi anni mi sono sempre domandato come facesse a cazzeggiare tutto il santo giorno e poi riuscire a scrivere, in mezz’ora scarsa, un pezzo di sicuro sensazionale. Orsini era un borioso di prima categoria, sempre in ritardo a ogni appuntamento, e cornificava puntualmente la moglie con soddisfazione di partner diversificati per razza, estrazione sociale e credo religioso. Però nel suo mestiere ci sapeva fare, eccome se ci sapeva fare!
La sigaretta finì e del sole neanche l’ombra. Evidentemente se n’era scappato chissà dove, lasciando il cielo a macerarsi nel suo grigiore cupo. Nuvole basse, gonfie e sporche come batuffoli di cotone immersi in una brodaglia marcia e maleodorante, avvolgevano le cime dei monti in un abbraccio gelido e le case se ne stavano addossate l’una all’altra e si aggrappavano al campanile per ripararsi dalla sfuriata della natura.
Stavo crollando dal sonno perché, per buttare giù il mio pezzo, ci avevo praticamente messo tutta la notte. Ero andato avanti per ore a sigarette e caffè e l’ultima cosa di cui davvero avevo bisogno era un tempaccio simile.
«Fanculo!» sbottai. «Una volta, questo era il periodo dei fiori appena sbocciati! E l’aria sapeva di erba e apriva i polmoni meglio di un balsamo all’eucalipto!» gettai il mozzicone nel torrentello che scorreva allegramente fin quasi sopra il marciapiede e attesi che la corrente se lo trascinasse lontano, «adesso, invece, guarda qua! Surriscaldamento globale, buco dell’ozono, scie chimiche! Tutto sta andando a puttane, ormai! Ieri a Milano sembrava di essere in Marocco e oggi, qui, in mezzo a queste montagne… ».
Non ci misi molto a capire che non mi aspettava una giornata piacevole, ma cercai di non lasciarmi suggestionare troppo e concentrarmi, invece, sugli avvenimenti che sarebbero successi da lì a poco. In fondo, in montagna il tempo cambia ogni cinque minuti, e quello era un giorno troppo importante per rovinarlo solo per un cazzo di temporale.
Però c’era sempre quel presentimento piantato dritto nel mio cervello.
Malgrado ce la mettessi tutta, non riuscivo a scacciare completamente l’idea che, sotto sotto, ci fosse qualcosa di sbagliato. Me lo sentivo fin nelle ossa da quando mi ero alzato dal letto perché, di solito, dopo ogni tempesta, il sole torna sempre a risplendere alla grande mentre là, invece, la pioggia continuava a cadere a cascate e la cosa durava ormai da ore. Dalle tapparelle, poi, filtrava una luce strana, indecifrabile, che colava lungo i muri e copriva l’asfalto e le auto con una patina giallastra.
In barba al calendario sembrava di essere ancora in autunno inoltrato. Sembrava come se non fosse cambiato solo il tempo, sembrava quasi che…
«Bah, adesso lo tiro giù dal letto, quello scansafatiche, prima che mi spuntino le branchie!» sbraitai alla fine, mettendo mano al cellulare. Ma non feci neppure in tempo a comporre il numero: «Ehilà, Paolone!» gorgogliò una voce impastata dietro di me seguita, quasi simultaneamente, dalla solita fastidiosa pacca sulla mia povera schiena.
Era lui e, tanto per cambiare, si era fatto aspettare come una bella donna.
Non che ci avessi perso l’abitudine ai suoi ritardi: Orsini sarebbe arrivato in ritardo persino se il luogo dell’appuntamento fosse stato sullo spazio di letto coperto dal suo cuscino.
Erano quasi le dieci e aveva due occhiaie così marcate da sembrare un incrocio tra un pugile al tappeto e un panda, e la sua faccia era così bianca che sembrava uno straccio vecchio dimenticato nella candeggina. Per come si era annodato la cravatta ricordava più un cliente fisso dei dormitori pubblici che un giornalista famoso.
Lo mandai amichevolmente (ma non troppo) a quel paese e mi incamminai verso la stazione.
Quel giorno ci sarebbe stata l’inaugurazione della prima tratta della nuova linea ferroviaria TAV. Era l’avvenimento dell’anno e noi eravamo tra i numerosi giornalisti accreditati.
Dopo secoli di cantieri, manifestazioni e tante legnate, un treno vero poteva finalmente percorrere la nuova linea ad alta velocità, anche se il tanto atteso viaggio era più che altro simbolico perché durava solo una manciata di chilometri.
Per finire il tutto e volare veramente fino a Lione ci sarebbero voluti, soldi permettendo, ancora anni e anni di scavi, barricate e tante altre legnate, ma nessuno sembrava preoccuparsene granché perché il primo passo era stato finalmente fatto alla faccia dei NO TAV, dei gufi e di tutti gli altri detrattori da quattro soldi.
L’entusiasmo generale era alle stelle e tutti i