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Non ci lasceremo mai
Non ci lasceremo mai
Non ci lasceremo mai
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Non ci lasceremo mai

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Stanca di rispondere alla domanda «sei maschio o femmina?» che la perseguita da quando è una bambina, Alessandra, brava a scuola ma adolescente in guerra con la famiglia, la società e il proprio corpo, prende la decisione di cambiare sesso e si avventura così nel mondo dei trans, degli ormoni e delle falloplastiche. In testa ha un solo modello: Japhy, l’eroe de I vagabondi del dharma. Nel frattempo si innamora – ricambiata – di una sedicenne «open minded», grazie alla quale capisce che non desidera affatto diventare un uomo. Ma i genitori della ragazza ostacolano violentemente la loro storia e Alessandra non trova altra soluzione che andarsene: in un viaggio on the road negli Stati Uniti incontrerà altre lesbiche, altre esperienze, stili di vita alternativi, e alla fine anche se stessa. Sorretto da un’ironia lieve e sincera, questo romanzo di formazione ha un sapore picaresco e il ritmo di un racconto sincero reso tutto d’un fiato. Mescolando con grazia elementi disparati – dalle butch di New York alla new age californiana – la narrazione coinvolge e sorprende pagina dopo pagina, rendendo Alessandra un personaggio che è impossibile non amare.
LanguageItaliano
Release dateFeb 14, 2014
ISBN9788897012924
Non ci lasceremo mai

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    Non ci lasceremo mai - Federica Tuzi

    le stelle

    ©2011 Lantana editore srl

    www.lantanaeditore.com

    ISBN: 978-88-97012-92-4

    Il presente file può essere usato esclusivamente per finalità di carattere personale. Tutti i contenuti sono protetti dalla Legge sul diritto d'autore.

    Romanzo Vincitore del Premio John Fante Opera Prima 2011

    Stanca di rispondere alla domanda «sei maschio o femmina?» che la perseguita da quando è una bambina, Alessandra, brava a scuola ma adolescente in guerra con la famiglia, la società e il proprio corpo, prende la decisione di cambiare sesso e si avventura così nel mondo dei trans, degli ormoni e delle falloplastiche. In testa ha un solo modello: Japhy, l’eroe de I vagabondi del dharma. Nel frattempo si innamora – ricambiata – di una sedicenne «open minded», grazie alla quale capisce che non desidera affatto diventare un uomo. Ma i genitori della ragazza ostacolano violentemente la loro storia e Alessandra non trova altra soluzione che andarsene: in un viaggio on the road negli Stati Uniti incontrerà altre lesbiche, altre esperienze, stili di vita alternativi, e alla fine anche se stessa. Sorretto da un’ironia lieve e sincera, questo romanzo di formazione ha un sapore picaresco e il ritmo di un racconto sincero reso tutto d’un fiato. Mescolando con grazia elementi disparati – dalle butch di New York alla new age californiana – la narrazione coinvolge e sorprende pagina dopo pagina, rendendo Alessandra un personaggio che è impossibile non amare.

    «Un esordio italiano di insolita felicità...divertente e commovente come una di quelle commedie americane in cui ci rifugiamo quando la vita ci sembra troppo spaventosa». Elena Stancanelli, La Repubblica

    «Non ci lasceremo mai di Federica Tuzi, ovvero la libertà di cercare se stessi, vero, ironico, spassoso». Mirella Appiotti, Tuttolibri

    «Federica Tuzi (filmaker, sceneggiatrice, scultrice) con la penna sa dar voce al diritto di essere quello che ci pare, senza sensi di colpa». Carlotta Vissani, RollingStone

    «Il libro riflette sulla possibilità di farcela quando tutto sembra andare a rotoli». Nòva- Il sole 24 ore

    Federica Tuzi

    NON CI LASCEREMO MAI

    NON CI LASCEREMO MAI

    a Cristina Vuolo,

    preziosa maestra, sacra al mio cuore.

    «Se torni a Roma ti arrestano», mi ripeteva Elisabeth. «Ormai sei una cittadina americana: qui sei al sicuro, possibile che non lo capisci?»

    Aveva abbassato lo schienale e si era di nuovo voltata dall’altra parte, mentre io ero rimasta incollata al finestrino a seguire le curve del deserto che si rincorrevano per centinaia di chilometri. Un ragazzo con un nastro rosa sul cappello nero russava due file più avanti, coprendo i sospiri di Elisabeth che si rigirava accanto a me, sfiorandomi la gamba. Per un attimo avevo creduto che avesse voglia di fare l’amore: era sempre così che facevamo pace, con le sue cosce strette intorno alla mia mano, il respiro trattenuto e gli occhi chiusi. Ma non c’era più niente per cui fare pace: in quei pochi mesi insieme non avevamo fatto altro che spostarci da un’incomprensione all’altra. Il nostro vagabondaggio nell’infinito West disegnava un tracciato che per la prima volta mi era davvero chiaro: due storie, due culture, due ragazze che avevano casualmente camminato sulla stessa strada, e quella strada ora si biforcava. Lei avrebbe frequentato tutti i gathering dei figli dei fiori, avrebbe fatto della fotografia qualcosa di più di un semplice hobby e si sarebbe innamorata chissà quante altre volte, di maschi e femmine indistintamente, come le avevano insegnato i suoi genitori.

    E io? Che cosa volevo io? Ero in viaggio da quasi un anno, sballottata qua e là come una pallina da flipper. Avevo provato a essere tutto quello che non ero: un maschio, una stone butch, una fricchettona, ma era finito il tempo della fantasia, quel mandato di comparizione nella caserma dei carabinieri di Roma mi richiamava esattamente al punto da cui ero fuggita. Mi voltai a guardare Elisabeth che sonnecchiava ormai da ore. Forse aveva ragione lei: fuori dal confine italiano quella denuncia non aveva alcun valore. Ma non volevo fare la latitante, passare la vita in esilio, dare questo dispiacere ai miei genitori. Non riuscivo a dormire e nemmeno a pensare, nella mia testa tutto era diventato indistinto e nero come il desertonotte che si estendeva intorno al nostro autobus.

    Procedevamo lentamente in un Nevada senza fine, solo sabbia scurita dalla sera e il rombo del motore, pesante, regolare, che tremava impercettibilmente sotto le mie Converse impolverate. Ero appena entrata in un dormiveglia catatonico, in sincronia con quel paesaggio monotono, quando i finestrini del Greyhound si illuminarono in una serie di intermittenze verdi e rosse che squarciavano il buio in modo surreale.

    «Ehi, Elisabeth, guarda che roba!» Mi sembrava di vedere un’astronave.

    Anche gli altri passeggeri si erano svegliati e tutte le teste erano puntate nella stessa direzione. Solo il ragazzo con il cappello dal nastro rosa continuava a russare.

    «Dammi retta, svegliati», e intanto le scuotevo il braccio gelato dall’aria condizionata.

    «Who cares?», disse lei, e poi richiuse gli occhi. «Shit, damn!»

    Non si trattava di un’astronave, ma di una diga di cemento armato con guglie, vedette e muri più alti di un grattacielo. Un sistema di fari proiettava fasci di luce bianca come nei film sulle carceri di massima sicurezza, illuminandoci a tempo: sembrava una cittadina militare piovuta dal cielo e atterrata in mezzo alle dune del deserto. Davvero rischiavo di finire in galera?

    Man mano che il Greyhound si allontanava, la luce bianca si affievoliva e i puntini rossi e verdi venivano riassorbiti da quel paesaggio scuro e senza forme.

    «Elisabeth che fai, dormi?»

    «Yes», rispose lei.

    Superata la diga la strada era diventata dritta, una fettuccia di cemento srotolata sulla sabbia, fino a che una lunga curva senza ritorno segnò il passaggio dal deserto a Las Vegas: ora un intero oceano di luci colorate ci lampeggiava intorno.

    Dopo aver provato a coprirsi gli occhi con il mio giubbetto, anche Elisabeth si era svegliata e come al solito aveva fame. L’autobus intanto era entrato nel deposito.

    «Siamo le uniche che vanno a Las Vegas con dieci dollari in tasca...», provai a ironizzare mentre sfilavo la nostra roba dalla grossa pancia di metallo blu, ma Elisabeth non rideva.

    «Ma perché cazzo ti ho dato retta, mi chiedo io!», non la finiva di smaniare. «Hai qualche idea adesso?»

    Sua madre mi aveva avvisata: «Se le calano gli zuccheri non è più capace di intendere e di volere». Ma a Las Vegas anche il cibo era un problema: forse quella era l’unica stazione senza fast food di tutti gli Stati Uniti.

    Una donna enorme, con tre o quattro pance avvolte in un grembiule azzurro, camminava oscillando a destra e a sinistra con due secchi neri in mano. Sbuffava a ogni passo rovesciando acqua e schiuma di sapone, la fronte sudata, lattiginosa. Nel deposito non c’era più nessuno.

    «Stiamo cercando un posto per mangiare, ma siamo quasi senza soldi».

    «Oh!», rispose lei appoggiando i secchi a terra. Un po’ d’acqua finì sulle infradito di Elisabeth che istintivamente scattò all’indietro, allontanandosi un po’. Eppure ne avrebbe avuto bisogno: i suoi piedi erano così neri che sembrava uscita da una miniera. La signora intanto si asciugava la fronte con il suo polsino di ciccia bianca. Sbuffava in continuazione, eppure sorrideva.

    «In effetti per mangiare bene e spendere poco un modo c’è», disse sbuffando di nuovo. «Dovete andare in un casinò: lì non guadagnano con la cucina, la usano solo per intrattenere i clienti delle slot machines. Io ci ho mangiato spesso: il cibo è delizioso, quasi sempre messicano».

    Poi sollevò di nuovo i suoi grandi secchi neri e se ne andò appoggiandosi prima su una natica e poi sull’altra. Era notte fonda.

    Guardai i piedi sporchi di Elisabeth e pensai che non l’avrebbero mai lasciata entrare in un casinò. Insieme sembravamo una figlia dei fiori e una figlia di papà: nemmeno tutti quei mesi di autostop erano riusciti a levarmi di dosso l’aria borghese che mi portavo dall’Italia. La mia camicia e le mie Converse potevano anche passare, ma le infradito di Elisabeth no, il casinò era fuori discussione.

    «Perché no?»

    «Perché hai solo sedici anni», le dissi con un senso di responsabilità sviluppato nelle ultime quarantotto ore. «Non ho nessuna intenzione di farmi arrestare anche qui in America, con le minorenni ho chiuso».

    Alla parola «chiuso» Elisabeth si voltò verso di me: mi guardava come il cane dei miei genitori quando ci vede armeggiare con i bagagli. Lo sapevamo tutte e due che era finita.

    «E il biglietto?», mi chiese dopo un po’. «Mi dici come cazzo torno a casa se non ho nemmeno i soldi per comprare il biglietto?»

    Non lo sapevo, e non sapevo nemmeno cosa avrei fatto: in Italia mi aspettava un processo, avrei potuto essere condannata,  rovinarmi per sempre. Negli Stati Uniti invece ero al sicuro, per quanto sicuro potesse essere stare a Las Vegas in piena notte, senza soldi e senza ostello, con una minorenne che non aveva nemmeno la carta d’identità.

    Presto i miei genitori avrebbero scoperto tutto da un ufficiale giudiziario, e la sola idea mi terrorizzava. Vostra figlia è stata denunciata per adescamento e plagio di minori, avrebbe notificato un carabiniere vedendo che non ero in casa: non avrebbe fatto in tempo a finire la frase che mia madre sarebbe morta sul colpo.

    Forse sarei potuta tornare a Roma, guardarli in faccia e spiegare ogni cosa: Mamma, papà, sono nei guai..., ma a quel punto sarei morta io, per mano di mio padre.

    Era questo il casino in cui mi trovavo quell’estate, e se fossi sopravvissuta fino a settembre avrei compiuto ventitre anni.

    Che cosa ci facevo negli Stati Uniti? Provavo a imitare Japhy, il vagabondo del dharma, l’eroe di Kerouac che componeva haiku mentre si arrampicava sui sentieri innevati delle montagne californiane. Di lui mi piaceva tutto: gli scarponi pesanti, i movimenti leggeri, quella fiducia nella vita che gli faceva conquistare il mondo, e le ragazze soprattutto.

    Avevo letto quel libro una decina di volte, più una in lingua originale, per migliorare il mio inglese appena arrivata a New York. Leggevo soprattutto in metropolitana, anche in piedi, con una mano stretta intorno alla copertina e l’altra aggrappata a una sbarra di metallo unto, mentre il sudore della gente invadeva l’aria asettica e condizionata dei vagoni al neon. Neri coperti da lunghe canottiere da basket, portoricani con la bandana, donne con le unghie quadrate e rivestite da due strisce di smalto glitterato scomparivano a poco a poco dalla mia visuale, sostituiti dai personaggi di quella beat generation: pittori, poeti, musicisti, ubriaconi, rivoluzionari, idealisti, sperimentatori della libertà e delle sue infinite forme. A volte interrompevo la lettura per chiudere gli occhi, e allora la metropolitana diventava una factory di artisti, i rumori si trasformavano in un poetry slang e io-Japhy camminavo con la mia andatura piena di baldanza in un mondo che sognava, faceva l’amore, prendeva le droghe e parlava con Dio.

    Ero così stanca in quei giorni che se trovavo un posto a sedere mi crollava la testa in avanti oppure di lato, sulla spalla di qualche sconosciuto, e se non mi svegliava nessuno saltavo la mia fermata e mi ritrovavo a Harlem nel cuore della notte, oppure nel Bronx, e allora altro che Japhy: pensavo solo a Jack lo squartatore e alle news del giorno prima sugli orrori metropolitani. Ma dovevo pur tornarmene a casa, così salivo su una scala mobile, con le gambe che mi tremavano sbucavo sulla 161esima e mi guardavo intorno tre o quattro volte prima di attraversare la strada e rientrare alla fermata per la direzione opposta. Ogni tanto intravedevo un negozietto aperto ventiquattr’ore su ventiquattro, pieno di garofani e altri fiorellini senza profumo, e mi chiedevo se chi ci lavorava fosse armato oppure molto coraggioso, o disperato, come tanti che gironzolavano a quell’ora. Ma nemmeno sotto terra mi sentivo tranquilla, con tutte quelle storie sugli stupri dentro la subway, frequentissimi anche nell’ora di punta. Spesso mi nascondevo dietro qualche distributore di merendine finché non vedevo arrivare qualcuno con una faccia rassicurante: una donna era l’ideale, ma anche uno studente, un prete, insomma qualsiasi identikit diverso da quello del teppista o del gangster o, peggio ancora, del serial killer.

    È brutto da dire, lo so, ma in generale mi fidavo più dei bianchi, forse perché mi sembrava di capirli meglio. Ma una notte, dopo mezz’ora di appostamento fra un distributore di bibite e una colonna di cemento armato, dopo aver visto sfilare sotto ai miei occhi un’intera famiglia di topi che banchettava impunita su un rimorchio pieno di putrelle arrugginite e di altri materiali da costruzione, ero stata costretta a ripiegare su un gigante di colore. «È un netturbino», mi ripetevo, «non può farti del male». E poi, grosso com’era, mi avrebbe senz’altro difesa in caso di aggressione.

    Me lo ricordo benissimo: imponente, aria buona, divisa verde scuro e una scopa di saggina tra le mani. Sulla fronte aveva una pezzetta azzurra per i piatti stretta da un elastico: avrebbe dovuto asciugargli il sudore, ma le goccioline continuavano a precipitargli sugli occhi prendendo la rincorsa dalla testa pelata. Eravamo saliti sullo stesso vagone e mi ero seduta di fronte a lui, che sembrava molto più stanco di me, ma non triste. Gli avevo guardato la mano sinistra, mentre sonnecchiava con il mento appoggiato al manico della scopa, e avevo fantasticato a lungo sulla sua fede d’oro: chi era sua moglie? Aveva dei figli? Che cosa faceva quando non lavorava? Mi dispiaceva averlo discriminato, ma la storia dell’uomo nero me l’avevano raccontata centinaia di volte. Eppure, per un attimo, non avrei saputo dire perché, quel netturbino mi era sembrato infinitamente più interessante di Japhy e di tutta la beat generation messa insieme.

    Diciamoci la verità: ero scappata a New York per seppellire il mio passato, pronta a farmi contagiare dalla città più all’avanguardia del mondo, ma in fondo ero solo riuscita a entrare in quel flusso di immigrati che fino ad allora avevo studiato sui libri di storia. Il mio inglese non era dei peggiori, ma a Manhattan tutti parlavano come un mitragliatore, e se provavo a colorire le mie difficoltà linguistiche con un tocco di italiano non venivo capita da nessuno:

    «Può parlare più lentamente?», avevo chiesto a un cliente durante il mio unico giorno di lavoro in un caffè del Village. «È difficile starvi dietro, qui tutti vi mangiate le parole...»

    «Ma che stai dicendo? Le parole non si possono mangiare!», e aveva richiuso il menù tutto stizzito.

    Il bello era che quel menù l’avevo imparato a memoria, ma nemmeno così riuscivo a capire le ordinazioni. Altro che scuola di inglese e cassette Shenker con la pronuncia corretta: New York era un’altra lingua, un altro ritmo, a nessuno veniva in mente di fare due battute nella pausa pranzo, soprattutto con un’imbranata che rischiava di farti tornare in ufficio senza che avessi avuto il tempo di mangiare un boccone.

    A fine giornata il cuoco mi aveva chiamata in cucina: «You’re fired», mi aveva detto con gli occhi arrossati dal fumo.

    «Dov’è il fuoco?», gli avevo risposto io. Ancora non sapevo che «fired» significava licenziata, ma lo avrei capito due minuti dopo.

    Non ero una brava cameriera, e nemmeno una brava commessa: dopo aver dato prova di non aver mai piegato nemmeno una maglietta, ero stata fired anche da Urban Outfitters, uno dei più famosi negozi di vestiti in stile. Avrei potuto lavorare nel ristorante degli Angelucci, i migliori amici dei miei genitori, ma avevo già approfittato abbastanza della loro ospitalità. Non me la sentivo di coinvolgerli ancora nei miei problemi, e nemmeno di correre su e giù trasportando calici di cristallo e bottiglie di vino da duecentocinquanta dollari. E poi lì da loro avrei dovuto indossare la divisa, cioè una gonna, e non se ne parlava neppure.

    Fino a quel momento avevo sempre vissuto a Roma, nella mia cameretta da post-adolescente, piena di foto degli indiani d’America attaccate alle pareti. E ora che in America ci stavo davvero, portavo con me le tracce inconfondibili di chi non aveva mai avuto bisogno di lavorare. In confronto a quei camerieri volenterosi e veloci, io ero poco più di una lavativa, inesperta e per giunta viziata, molto lontana dal modello statunitense del grande lavoratore. E poi, a dispetto di tutti quei miti sull’antiprovincialismo e sull’integrazione razziale, la Grande Mela mi sembrava piuttosto una torta a strati, con i suoi quartieri spagnolo, cinese, italiano, gay, tutti rigorosamente separati. Le coppie miste erano ancora un tabù e non si vedevano mai comitive multicolori, così la metropolitana restava l’unico luogo in cui bianchi e neri, benestanti e homeless, ebrei e musulmani, dormivano uno addosso all’altro nelle gelide e precipitose mattine newyorkesi, e io con loro.

    Mia madre dice che da piccola non volevo fare la ballerina, né l’attrice, e nemmeno l’infermiera: il mio sogno era viaggiare in tutto il mondo sopra un furgoncino colorato come quello dei figli dei fiori. Li aveva chiamati così mio padre, quei due bambini del campeggio con le unghie sporche e le facce felici che viaggiavano con i genitori a bordo di un Volkswagen. Fin dal primo sguardo avevo capito che appartenevano a un’altra razza: avevano il permesso di restare in acqua anche con le mani molle, vivevano senza orari, non venivano mai sgridati, se non avevano fame saltavano il pranzo e se volevano un panino aprivano la confezione del pancarrè e si facevano un sandwich alla nutella o al salame. Quella sì, era vita!

    Ogni sera, dopo cena, i figli dei fiori si chiudevano nel loro nido a quattro ruote e tiravano le tendine arancioni. Da fuori si vedeva solo una luce soffusa e calda che mi faceva presagire chissà quali giochi, o fiabe, o canzoni cantate insieme al lume di candela. Fuori da quel quadretto ideale restavamo solo io e Kautsky, il loro cagnolone, un broholmer imperturbabile dagli occhi buoni.

    Nessuno capiva perché mi fossi fissata con quel furgoncino. Fu mio padre, anni dopo, a svelare il mistero: «Sarà che quando eri piccola, negli Stati Uniti, ce n’erano a migliaia!»

    Gli Stati Uniti: era lì che ero nata infatti, in pieno boom fricchettone, quando tutti indossavano pantaloni a zampa di elefante e vagabondavano da una città all’altra a bordo di pacifici Volkswagen di tutti i colori.

    Correva il 1973 e mio padre aveva vinto una borsa di studio a Flint, Michigan, città satellite dell’allora gigante General Motors, ancora oggi famosa grazie ai documentari di Michael Moore.

    Con la full bright in tecniche dirigenziali, mio padre, mia madre e io – sotto forma di pancione tondo e agitato – ci eravamo dunque trasferiti in una delle tante villette a schiera della cittadina di Flint. Nessuno di noi sapeva che la General Motors sarebbe fallita qualche anno dopo, né che l’intera zona si sarebbe trasformata nel fantasma di sé stessa. E se io non sono diventata uno di quei bambini con i genitori alcolizzati e le tasche piene di armi da fuoco, lo devo solo al fatalismo di mio padre, che le decisioni più importanti le ha prese lanciando una monetina. Testa: «Accetto la proposta di lavoro che mi hanno fatto e restiamo tutti qui in America». Croce: «Torniamo a casa e tentiamo la fortuna in Italia». E, come tutte le croci, anche la nostra portava a Roma.

    Mio padre apparteneva alla prima generazione che non aveva conosciuto la guerra, a quell’esplosione di benessere e di comfort che aveva permesso il boom dell’industria culturale, la musica rock, le mode giovanili. Fu uno dei primi e sicuramente il più grande fan di Elvis Presley; insieme al suo idolo, venerava anche la lambretta, il ballo dinoccolato, il ciuffo che svolazzava. Già a quattordici anni era fidanzato con mia madre, la sua dirimpettaia, che lo salutava con un bacio dalla finestra di fronte. La loro giovinezza si consumò in quegli anni, nell’ottimismo spensierato dell’italian graffiti.

    L’unica occasione di contatto fra il mondo di mio padre e quello hippy avvenne proprio negli Stati Uniti, quando un suo collega di università gli regalò due spinelli di marijuana. E mentre mia madre si rivelava impermeabile a qualsiasi stimolo psicotropo, mio padre in ginocchio davanti alla tazza del gabinetto continuava a ripetere: «Per nessun motivo al mondo devi chiamare l’ambulanza!», terrorizzato all’idea di farsi arrestare come un qualunque capellone. In effetti, anche lui in quei mesi si stava facendo crescere i capelli, ma non perché avesse rinnegato il ciuffo di Elvis, quanto perché, a suo dire, in America i barbieri mettevano una ciotola sulla testa dei clienti e tagliavano solo le rimanenze: nel frattempo avevano spopolato i Beatles, che a mio padre non erano mai piaciuti. Della mia passione per la beat generation e per i suoi eredi fricchettoni i miei genitori erano dunque responsabili, perché proprio la loro distanza da quei valori spingeva me ad avvicinarmici.

    Le nostre litigate erano cominciate presto: per una gonna a pieghe, per il vestito della comunione, perché volevo i capelli corti, perché non dovevo scalmanarmi. Mi avevano da subito definita un maschiaccio, senza sapere quanto fosse vera quell’intuizione. Nemmeno io lo sapevo ancora, ma già dal primo anno delle medie era stato chiaro che del maschio avevo anche i gusti sessuali.

    La parola «lesbica» mi arrivò addosso come uno schianto. Non tanto per il suo significato letterale (che male c’era ad amare le femmine?), quanto per quel retrogusto da film porno, alienato, sporcaccione. Me la ripetevano nei corridoi, la scrivevano sulla lavagna e sulle mattonelle del bagno, e solo perché avevo dato una lettera d’amore a Elena, la mia compagna di banco.

    Avrei dovuto aspettare fino a sedici anni prima di trovare un’altra «come me». Stanca di non avere amici e in piena esplosione ormonale, risposi a un annuncio sul giornale:

    «Ragazza particolare di ventidue anni cerca compagna per duraturo rapporto».

    Si presentò all’appuntamento una specie di Gianna Nannini, molto diversa dalla fatina Elena che avevo tanto desiderato. Ma il mio bisogno di amare e di essere amata vinse su tutto: dopo un po’ che ci frequentavamo cominciai a trovarla bellissima. Le avevo detto di avere diciotto anni – in realtà ne dimostravo anche venti – ma la differenza d’età si sentiva eccome, soprattutto sessualmente.

    Mi veniva a prendere su una Mini rossa, con le hit di Madonna sparate a tutto volume, e poi, senza nessuna deviazione, mi portava a casa sua. Lì i nostri approcci somigliavano a un’infinita danza di corteggiamento: ci guardavamo senza dire niente, ci giravamo intorno, ci allontanavamo e poi tornavamo a guardarci.

    «Al telefono ci diciamo tutte quelle cose ma poi quando arriviamo qui...», mi disse un giorno sconsolata. «Insomma, sì, fai tanto il boy e poi sei più timida di una femminuccia».

    Aveva ragione. Nel mio caso, quelle sembianze maschili erano più il segno di un’appartenenza all’età infantile, un desiderio di essere quel bambino che non ero stata, niente a che vedere con i ruoli sessuali.

    In realtà, allora non ero interessata al sesso. Quello che cercavo era qualcuno da amare, qualcuno con cui andare al cinema o a mangiare il gelato, qualcuno da baciare e di cui riempirmi la testa in attesa dell’appuntamento successivo. Era un’eredità della mia infanzia solitaria, di quel tempo passato a fantasticare di essere un maschio bello, dolce e amato da tutte le ragazze della scuola.

    Frequentavo Gianna Nannini da un paio di settimane quando ebbi la brillante idea di confidarmi con mia madre. Non mi aspettavo che potesse darmi dei consigli su come fare l’amore con lei, ma che mi aiutasse a capire meglio che cosa mi stava succedendo.

    Eravamo uscite a portare fuori il cane. Pensai a Gianna Nannini e ai suoi occhi azzurri. Le parole mi vennero da sole:

    «Mamma... Ho capito di essere omosessuale...»

    Si sentiva solo il rumore dei nostri passi, l’odore dolciastro della rincosperna e quell’inquietudine che arriva dopo la magia del tramonto.

    «Spesso per proteggerci cerchiamo delle definizioni, delle etichette», disse all’improvviso, scegliendo le parole una a una, «ma poi ci accorgiamo che ci vanno strette, e a quel punto liberarsene diventa molto difficile».

    «Quali etichette, ma’?»

    «Be’, per esempio quella che ti sei messa tu. È normale all’età tua provare un’attrazione per le ragazze, ma il mondo omosessuale è tutta un’altra cosa».

    Non riuscivo a immaginarmelo questo «mondo omosessuale»: lo vedevo allungarsi davanti a me insieme all’ombra dei platani illuminati dai lampioni, un tremolio che mi catturava, mi incuriosiva, mi incuteva un certo timore.

    «Bisogna stare attenti perché la vita procede per inerzia: tu dici un sì e tutto il resto viene da solo, in automatico, e poi non puoi più tirarti indietro».

    Guardai le sue rughe agli angoli della bocca e un po’ di ricrescita di capelli bianchi. Sapevo che stava facendo un grande sforzo per non piangere, e gliene ero grata. In fondo non mi aveva detto niente di grave, mi ripetevo sdraiata sul mio lettino, a faccia in su, mentre contavo le listarelle delle persiane che proiettavano la loro ombra sul soffitto. Non era grave, non era arrabbiata, non l’avevo delusa.

    La mattina dopo, qualcuno mi strattonò per un braccio. Mi svegliai di soprassalto, incapace di mettere a fuoco la situazione.

    «Forza, muoviti!», mi ripeteva mio padre tirandomi il pigiama.

    «Ma che cosa è successo?»

    Provai ad alzarmi ma la sua spinta mi arrivò addosso proprio mentre mi sollevavo. Finii a terra. Con le mani cercavo di proteggermi la testa, di attutire i suoi colpi, ma in realtà volevo soprattutto tapparmi le orecchie, non sentire i suoi insulti, diventare sorda per sempre. Mamma intanto si era affacciata nella mia stanza e mi guardava come per dire: «Non potevo tenerglielo nascosto, lo capisci, vero?»

    Da piccolo mio padre, insieme agli altri maschi del suo gruppo di amici, partecipava a una onorifica missione che consisteva nel dare la caccia ai gay. Il lavoro era semplice: individuato il ricchione del quartiere bisognava riempirlo di cazzotti, così gli sarebbe passata la voglia di fare la femminuccia. Era una storia che mi aveva raccontato spesso, insieme ad altre sue bravate giovanili, e che io avevo ascoltato identificandomi con quel povero ragazzino che camminava sempre guardandosi le spalle. Pare che avesse cominciato a girare con un rasoio in tasca, pronto a riempirsi di piccoli tagli ogni volta che li vedeva sbucare.

    «E perché si feriva?», gli chiedevo, ogni volta sperando di ascoltare una risposta diversa.

    «Per impedirci di menarlo, altrimenti sarebbe andato a dire alla polizia che eravamo stati noi a sfregiarlo».

    «Ma non si faceva male?»

    «Sì, ma i nostri pugni gliene avrebbero fatto di più».

    A sua discolpa posso solo dire che a quel tempo il movimento di liberazione omosessuale non era ancora cominciato e che i froci della generazione di mio nonno in Italia finivano molto peggio, come minimo in esilio. Il fatto è che all’epoca avevo sedici anni, della storia non mi importava un granché, e nemmeno delle ragioni altrui: l’unica cosa che sapevo era di aver subito un tradimento e una violenza, rispettivamente da mia madre e da mio padre.

    La situazione era questa: non avevo più il permesso di uscire di casa, né di rispondere al telefono, né di andare a scuola senza essere accompagnata. Non potevo nemmeno chiudermi a chiave nella mia stanza, e così nei momenti più inaspettati i miei entravano senza bussare, leggevano i miei diari, controllavano che in nessun modo comunicassi con Gianna Nannini.

    Passai al contrattacco. Decisi di usare l’unica arma che avevo a disposizione: l’isolamento. Mi allenavo in continuazione, a scuola, a tavola, da sola, contro i miei stessi pensieri. Era una specie di prova della volontà in cui al posto di un oggetto o di una motivazione mettevo il nulla assoluto, il bianco, lo zero. Restava solo una parola d’ordine: «Via». Appena la dicevo gli oggetti della mia stanza si volatilizzavano: via la scrivania, via il lampadario, via le finestre che davano sulla strada, via il gigantesco e orrendo armadio quattro stagioni, via il letto su cui stavo sdraiata e alla fine via anche le pareti, il cielo, tutto, fino a scomparire anch’io.

    Avevo iniziato tenendo gli occhi chiusi ma ormai ci riuscivo anche con gli occhi aperti, davanti a qualcuno, a un’interrogazione, a un discorso che non volevo sentire. La mia era più che una difesa e più che un attacco: era la negazione assoluta, un’arte marziale che la mia mente imparava senza sforzo, adeguandosi perfettamente: sembravo nata per non esistere. Anzi, per non far esistere il mondo.

    Spesso queste esercitazioni non coinvolgevano solo i miei genitori, ma anche mia sorella Sofia, che nel frattempo cresceva e sembrava nutrire nei miei confronti una specie di adorazione incondizionata. Non sapevo da dove le venisse, né perché avesse deciso di opporre alla mia distanza un altrettanto ostinato tentativo di avvicinamento, ma ecco come la accoglievo ogni volta che entrava nella mia stanza: mi mettevo a fissare un punto centrale fra le sue sopracciglia sforzandomi di non far trapelare nessuna espressione. Ancorata a quel punto di osservazione, lasciavo che il suo corpo si smaterializzasse e che le sue parole si confondessero fra loro fino a non distinguerne più nemmeno una. Lei rispondeva al mio sguardo cercando di intenerirmi, o di incuriosirmi, o di creare un’empatia di qualsiasi tipo, ma io imperterrita continuavo a fissarla come un automa. Di solito si metteva a piangere e tornava poco dopo attaccata alla mano di nostra madre:

    «Che le hai fatto?»

    «Ti ho fatto qualcosa?»

    «No».

    «Ti ho detto qualcosa?»

    «No».

    «E allora perché piangi?»

    Questa era una scena classica del nostro repertorio. L’avrei ripetuta all’infinito se non ci fosse stato quel Natale.

    Festeggiavamo come sempre la Vigilia insieme agli Angelucci. Per me erano un po’ degli zii adottivi: frequentavano i miei genitori dai tempi delle elementari e non si erano mai persi di vista, nemmeno dopo che Corrado e Sara avevano deciso di stabilirsi a New York per aprire una catena di ristoranti italiani. Avevano una figlia di diciannove anni, Francesca, che non sopportavo. Era un tipo stile Madonna: tutta pizzi e dance music, provetta ballerina, bella come Pocahontas. Ogni volta che la incontravamo mio padre se ne usciva con osservazioni del tipo: «Vedi Francesca come sta bene con i capelli lunghi? Perché non te li fai crescere anche tu?» Oppure: «Lo sai che Francesca ha iniziato a ballare in una compagnia professionista? Magari potrebbe insegnarti qualche passo di danza...» Fortunatamente, però, quell’anno Francesca era rimasta a New York.

    «Ha uno spettacolo di flamenco all’inizio di gennaio e si deve allenare dieci ore al giorno», disse Corrado per giustificarla.

    «Sì, e le altre quattordici le passerà a letto con Matthew!», aggiunse

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