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Nero toscano
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Ebook142 pages2 hours

Nero toscano

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Le pulsioni arcaiche dell’intolleranza dell’egoismo sono le forze che muovono i personaggi di queste due storie. Con la sua prosa nitida l’autrice scava nella Toscana più celebrata, tra quelle «crete» senesi che, spogliate da ogni connotazione idilliaca, diventano teatro di vicende aspre, di sopraffazioni e di violenze.

«Buio» è il soprannome di un uomo dal carattere ombroso e solitario. Originario del Sud e trapiantato in Toscana, isolato dal resto della comunità, ha con la natura che lo circonda un rapporto dedito e profondo. Agli occhi degli altri è un corpo estraneo, colpevole persino di proteggere una lupa, l’animale al quale tutto il paese dà la caccia.
Per questo verrà minacciato, spiato e braccato fino alle estreme conseguenze.

Rubina, la «duchessa diventata», parvenue animata dell’arrivismo più spietato, ha facile gioco invece tra gli ultimi rappresentanti dei Lancia di Resta, nobiltà decrepita e ormai svuotata di senso. Nel conflitto distruttivo che anche questa volta ne nascerà, saranno come sempre i più deboli e i più disarmati a soccombere.
LanguageItaliano
Release dateApr 1, 2014
ISBN9788897012986
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    Nero toscano - Anna Luisa Pignatelli

    le stelle

    Anna Luisa Pignatelli

    NERO TOSCANO

    © 2012 Lantana editore srl

    Via Dezza 8c 00152 Roma

    ISBN: 978-88-97012-57-3

    www.lantanaeditore.com

    «Una metafora di quello che dovrebbe essere, oggi, il dovere di ognuno di farsi contadino in quel modo». Vincenzo Consolo

    Le pulsioni arcaiche dell’intolleranza dell’egoismo sono le forze che muovono i personaggi di queste due storie. Con la sua prosa nitida l’autrice scava nella Toscana più celebrata, tra quelle «crete» senesi che, spogliate da ogni connotazione idilliaca, diventano teatro di vicende aspre, di sopraffazioni e di violenze.

    «Buio» è il soprannome di un uomo dal carattere ombroso e solitario. Originario del Sud e trapiantato in Toscana, isolato dal resto della comunità, ha con la natura che lo circonda un rapporto dedito e profondo. Agli occhi degli altri è un corpo estraneo, colpevole persino di proteggere una lupa, l’animale al quale tutto il paese dà la caccia. Per questo verrà minacciato, spiato e braccato fino alle estreme conseguenze.

    Rubina, la «duchessa diventata», parvenue animata dell’arrivismo più spietato, ha facile gioco invece tra gli ultimi rappresentanti dei Lancia di Resta, nobiltà decrepita e ormai svuotata di senso. Nel conflitto distruttivo che anche questa volta ne nascerà, saranno come sempre i più deboli e i più disarmati a soccombere.

    «Buio è un contadino che lotta contro gli uomini e sfoga sugli animali il suo bisogno insaziabile di comprensione. Troppo diverso, troppo solitario, la natura finisce con l’essere per lui lo specchio dei suoi tormenti. La fine di Buio è un bel momento di letteratura, discreto, nitido, forte ». René de Ceccatty, Le Monde.

    «Un testo insolito, in contrasto con tutto quello che si può leggere oggi ». Thierry Clermont, Le Figaro.

    « Buio ama profondamente la terra. Non gli sarà perdonato di aver preferito la compagnia degli animali a quella degli uomini ». Monique Baccelli, La Quinzaine Littéraire.

    «[...] analisi del funzionamento degli egoismi comunitari ancestrali, dell’intolleranza arcaica, dell’incapacità ottusa e sorniona di comprendere e integrare le differenze». Vasco Graça Moura, Jornal de Letras e Artes.

    BUIO

    I

    La goccia dal soffitto colpiva con ticchettio regolare il legno del tavolo. Il vento aizzava i rami di pino contro i vetri della finestra. Di quando in quando un lampo illuminava la coperta sotto cui si stagliavano due gambe con la punta dei piedi volta verso l’alto. A Buio non sembravano le sue: stentava a riconoscersi in quella massa inerme stesa sul letto, nella solitudine.

    Restò in ascolto del gorgoglio del suo stomaco dove sciaguattava il vino. Era un vino che andava giù liscio, aveva tracannato un bicchiere dopo l’altro fino a scolarsi l’intero fiasco, davanti al caminetto, come ogni sera. La coscienza s’annebbiava, il passato sembrava più accettabile, l’angoscia si scioglieva. Non appena sul materasso, veniva sopraffatto da un sonno profondo. Ma poi qualche incubo lo svegliava e quella notte ci s’era messo anche il temporale a fargli tenere gli occhi aperti.

    Anni addietro, prima dell’esodo dei contadini, sulle crete intorno al paese di Accona che si stendevano all’infinito come il mare, la sera tremolava sempre un lume a qualche finestra. Teneva compagnia sapere che qua e là, anche se in lontananza, c’erano anime vive: anche se non erano amici, erano pur sempre uomini. In caso di bisogno si sarebbero mostrati solidali, nonostante di veri pericoli allora non ce ne fossero in quelle lande. La sera gli usci dei poderi si lasciavano aperti, tanto nessun estraneo sarebbe entrato. I contadini si conoscevano tutti, anche quelli che stavano nei poderi più remoti si incontravano alle veglie. Ora, invece, Buio la notte si sentiva in balia delle ombre, degli ululati dei cani e del vento.

    Quella sera non ricordava se aveva chiuso la porta di casa, ma esitava ad andare a vedere.

    Cercava di scacciare i pensieri, e invece gli s’affollavano in mente le sue tante battaglie. I contadini lo avevano avuto a noia sin dall’inizio, quando aveva fatto la sua prima comparsa, perché non era nativo di lì. Venire da altre terre, avere un’altra parlata, era per loro un peccato mortale. E poi lui era stato l’unico a essersi preso il campo in affitto anziché a mezzadria.

    Con gli uomini del posto aveva trebbiato, aveva fumato ed era andato a veglia, a volte gli era parso perfino di essere stato ammesso nel branco ma, da parte loro, e anche da parte sua, la diffidenza non era mai venuta meno: lui era un solitario, la sua famiglia da quelle parti non la conosceva nessuno. Per giunta non era nato da un padre contadino, ma da un manovale, e aveva scelto liberamente di guadagnarsi il pane lavorando la terra.

    Gli avevano subito appioppato il nomignolo di Buio, forse a causa del suo carattere ombroso, forse perché, non essendo cresciuto da quelle parti, il suo passato era per loro avvolto nel buio. Quando aveva scoperto che lo chiamavano così se l’era presa, ma poi aveva accettato quel nomignolo appropriato alla sua natura, finendo con l’identificarsi con esso più che col suo vero nome.

    Anni fa, quando era arrivato in zona d’Accona, trovare una casa vuota era come trovare un ago nel pagliaio: ma poi, a poco a poco, quelle lande s’erano andate spopolando e di esseri umani c’erano rimasti solo lui e qualche sparuto pastore.

    Quando i contadini di Accona avevano visto alla televisione del bar del paese un astronauta rientrare sorridente dallo spazio, avevano preso coscienza di condurre una vita di altri tempi. I giovani s’erano sentiti ridicoli a continuare a piegare la schiena sui campi come i padri, i nonni e i bisnonni, e a dipendere dagli umori del tempo, dato che oramai qualcuno poteva andare e tornare dallo spazio. Le macchine potevano fare il lavoro al posto degli esseri umani, si doveva solo farle ubbidire.

    Il figliolo del Polvani era stato il primo a farsi risucchiare da una fabbrica di pantaloni sorta nella zona, seguito alla spicciolata da tutti gli altri. I vecchi avevano venduto il bestiame per andare a vivere coi figli in appartamenti moderni e i poderi erano rimasti vuoti, con le porte che sbattevano ai quattro venti. La campagna di Accona era tornata un deserto, come nel Medioevo: solo qualche gregge si vedeva qua e là – i pastori dormivano in paese, approfittando delle stalle per i buoi abbandonate dai mezzadri per farci pernottare le pecore – e in quei vasti spazi senza più nessuno erano comparsi i caprioli. Con un balzo attraversavano i viottoli, sovrani.

    La terra di Accona si ripopolava in autunno, con l’apertura della caccia, quando gli uomini che l’avevano lasciata per trasferirsi altrove vi tornavano armati di tutto punto, girovagando per quei campi che conoscevano a menadito. Un tempo potevano andare a caccia solo i padroni, ora i guadagni più regolari e sicuri rendevano possibile anche a loro comprarsi il fucile e le cartucce.

    I cacciatori giungevano a Accona perfino dal nord: eccitati, presi dall’ansia di accaparrarsi una preda, sparavano alla cieca nei cespugli.

    Buio era rimasto solo nella campagna di Accona perché lui, a differenza degli altri, il podere non lo poteva lasciare: era riuscito a comprarlo, era suo.

    Prestato il servizio militare a Pordenone e poi fatta la guerra, non era voluto tornare a vivere nello sperduto borgo molisano dov’era venuto al mondo: la sua famiglia, i fratelli, non li voleva rivedere.

    Era approdato in Toscana, dove gli avevano detto esserci vaste distese di terra in attesa di braccia.

    Aveva cercato un podere in affitto, nella speranza di riuscire a comprarlo e di restarci. Ma i proprietari terrieri i poderi li davano solo a mezzadria, per ricevere senza muovere un dito metà del prodotto. Le famiglie dei mezzadri, tutta gente toscana, dopo tre o quattro anni si trasferivano altrove per trovare campi migliori, o per far vedere al padrone che non erano anche loro di sua proprietà. Il loro posto veniva preso da altri contadini e quelle case antiche erano così testimoni di continue migrazioni: nessuno che s’affezionasse veramente a loro.

    A Buio di che specie fosse la terra non importava: si sentiva capace di far nascere spighe perfino dai sassi. Purché gli fosse dato in uso, avrebbe lavorato qualsiasi campo.

    Dopo aver vagato in Toscana di landa in landa, finalmente s’era imbattuto nel Gobbo del podere Montefranchi: «Prova a vede’ se ti garba Rofanello: è l’unico sempre vuoto», gli aveva detto, «lì i contadini non ci vanno perché le famiglie grandi ci stanno strette. E poi ci ha certe crepe, che attraverso ci si vede il cielo. Ma a te che sei solo magari sta bene».

    Rofanello si trovava in una zona scolpita da profonde erosioni cretacee chiamata anticamente «deserto di Accona», dove il vento scorrazzava senza trovare ostacoli.

    Era un podere davvero bello, con un arco sulla facciata perfetto come mezzo cerchio di Giotto. Allo spigolo esterno, dove due muri si univano, mancava una sfilza di mattoni, ed era come se la casa fosse una persona appoggiata su una gamba sola: lasciata così, non avrebbe tardato a venire giù. Un pezzo di soffitto della stalla era crollato e Buio vi aveva trovato appeso a una trave un grappolo di pipistrelli, che aveva fatto piovere sull’impiantito uno strato di escrementi. Li aveva salutati come cristiani: erano i numi tutelari delle case antiche, come le taccole. Dagli archi e dalle volte di Rofanello fuoriuscivano mattoni traballanti. Il proprietario terriero cui apparteneva quella casa colonica aveva subito accettato di dargliela in affitto: chi se lo prendeva quel podere lì, con un piede già nella fossa. Ma Buio non si preoccupava: aveva resistito per secoli, non sarebbe crollato proprio ora. Ci avrebbe pensato lui a rimetterlo in piedi. Una cosa alla volta, giorno per giorno.

    La terra era argillosa, quando pioveva ci si affondava come nelle sabbie mobili e ci si rimettevano le scarpe. Ma il grano e l’erba medica ci crescevano discretamente. Certo, mancavano alberi intorno alla casa, ma anche a quello ci avrebbe pensato lui. C’era pure un pino accanto alla finestra della camera da letto i cui aghi brillavano come i capelli di una giovane donna e, vicino a lui, un cipresso a forma di cono, che uno a guardarlo imparava cos’era la perfezione. Poco distante dal podere prosperava un intero gruppo di pini e un platano superbo.

    Buio era riuscito a riscattare quel podere al padrone

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