Gli aquiloni sono pazzi
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«Mamma, cosa bisogna fare per non morire?»
«Occorre amare e continuare a sognare. Sempre. Fare sogni sempre più belli. Senza morire dentro, da vivi.»
Gli aquiloni sono sogni e aspirazioni, segrete intimità che ci fanno inseguire affetti e persone. Sono dolori che determinano i nostri futuri e i percorsi strani che a volte la nostra vita imbocca.
Il protagonista si sveglia e non riesce a comprendere dove si trova, forse nell’aldilà. Personaggi strani lo controllano, analizzano una sua firma, non comprendono il cambiamento epocale in corso, litigano con una donna decisa. Flash sul suo passato aprono squarci dolorosi e significativi, un grande schermo che gli mostra eventi che hanno determinato i suoi aquiloni. I genitori divisi, il collegio, il riformatorio, le fughe, gli amici, una vita sbagliata costellata di perdite. E un amore importante, di quelli che riempiono il cuore, che allargano l’anima; un amore non protetto nel modo giusto ma che potrebbe ancora salvare. Si apre un percorso che in un presente anomalo si snoderà fra eventi determinanti della vita, su cui un grande amore potrebbe ancora mettere ordine e risanare.
Dedicato a chi ha avuto un amore vero e lo ha perduto.
A chi ha avuto un grande dolore e vorrebbe rinascere.
A chi almeno una volta ha cercato Dio
A chi vorrebbe trovare nuovi significati alla propria vita.
“Occorrerebbe rinascere per comprendere a fondo il valore della vita.
Oppure morire. Il peccato più grave è sprecare l’esistenza.”
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Gli aquiloni sono pazzi - Giovanni De Rosa
Ringraziamenti
Capitolo 1
Quando vado al lavoro, di mattina, compaiono all’improvviso. Succede in quei rarissimi momenti in cui la coscienza dimentica di essere perennemente in sciopero o di oziare vergognosamente in località sconosciute e remote. Resta attivata per la durata di un flash, un istante fulmineo che basta a farmi cogliere il senso, la pienezza o il fallimento, di un’intera esistenza.
Sono migliaia. Sparpagliati, lacerati, ammucchiati ai lati delle strade, scoloriti, impolverati, abbandonati ormai da decenni. Nessuno li nota; neanche io ci faccio più caso. Dimenticati negli antri più oscuri dell’esistenza, dove l’oblio sovrano li incatena.
« Papà, m’insegni a far volare gli aquiloni? Pinuccio e Tonino ci giocano tutte le domeniche con i loro papà. Sulla collina dev’essere proprio una festa! Perché non mi ci porti mai?»
Eccomi lì, inchiodato alle mie responsabilità da due occhioni innocenti che mi fissano aspettando. Gli rispondo di sì, che domenica prossima giocheremo insieme, ma so che lo sto imbrogliando.
Lui mi osserva scandagliandomi l’animo; poi spegne lo sguardo, deluso.
« Dici sempre così!» mormora allontanandosi lentamente.
Sento esplodermi un gran dolore dentro. Lo vedo ferito.
Quando vado al lavoro, di mattina, provo un disagio interiore dilaniante. Sono sempre più grandi, sempre più numerosi, milioni.
Incontro troppe facce vuote, assenti, rassegnate a un destino spietato. Seppellire l’anima.
La stessa capacità di poter semplicemente fantasticare di un futuro diverso è presa barbaramente a bastonate. Oltre il buio: il nulla.
Mi spavento. Dio, come mi sto rimpicciolendo! E inciampo, traballo, quasi cado. Una pietra? Un fosso? La scarpa rotta? Non sarà mica una scossa sismica?
« No, papà, quel pezzo va incollato al contrario!»
E poi quell’odore: la colla che anch’io usavo da bambino, quella col barattolino di plastica colorata e la palettina. Ritagliare la carta, sperimentare le posizioni, scegliere i colori più vivaci, e poi stupirmi per quei larghi sorrisi disegnati su un viso all’arrembaggio della vita.
E quelle urla di gioia nel vedere l’aquilone prendere quota, inerpicarsi fra spuntoni d’aria, sgroppare come un puledro, impennarsi, cadere, e poi di nuovo su, prepotente, nel cielo. Dio, ma che ne ho fatto del mio tempo, delle mie emozioni?
Mi chino lentamente per esaminare ciò che mi ha fatto inciampare, mentre mi sento tremare dentro.
È tutto rotto e reca il segno delle zampate rapaci della vita. Ne prendo un pezzo, ne scuoto la polvere, e riappare un colore molto sbiadito ma forse ancora vivo. Mi torna in mente un sogno che accendeva i miei occhi, quand’ero bambino. E una lacrima.
Dove sono finiti i miei aquiloni? E le mie speranze, i desideri, le aspirazioni che tanto mi hanno guidato, i sogni ansiosamente rincorsi per tante notti, agguantati fra calde lenzuola e poi smarriti fra i banchi di scuola o davanti ai cancelli delle fabbriche?
Soffocati da comode routine quotidiane che tutto appiattiscono e scoloriscono? Triturati da una società consumistica, politicizzata, TV-izzata
, web-izzata
, tanto corrotta da rendere l’individuo un salassato polletto nudo fra i banchi di un banale supermercato?
Al cospetto di quei brandelli d’aquilone resto disorientato: una targhetta attaccata mi tira via una forte emozione. Made in Italy
, seguito da una data. Tremo nel ponderare quanti anni possa celare quel pezzo di aquilone.
E un colpo mi prende lasciandomi senza fiato: é la mia data di nascita!
Capitolo 2
Non ho ancora capito dove mi trovo. Mi sono svegliato stamattina e mi sembra di aver dormito per anni. Poco fa ero convinto di essere morto; ora invece sono quasi sicuro di essere detenuto in un carcere. Credo anche di conoscerne i motivi, ma in quest’istante non mi sovvengono.
È strano: non ho mura intorno, né porte né inferriate e non ci sono secondini, ma so che non mi posso muovere. Avverto la presenza di una enorme porta, tanto grande da avvolgermi tutto, come fosse curva; mi isola integralmente ma non riesco a distinguerla. Sono immobilizzato.
« Sto male, dottore! Troppo spesso vedo il mondo cadermi addosso. Mi sento destinato solo alla morte. La mia sensazione di nullità sfiora l’inverosimile. Sbatto ogni giorno contro una porta gigantesca. D’acciaio. E mi faccio sempre male. E nonostante tutti gli sforzi non riesco ad aprirla. Dio, soffro da morire! Mi aiuti, la prego! Ho bisogno di qualcuno che mi stia vicino, ho troppi lividi dentro che fanno fatica a riassorbirsi in solitudine.»
Laggiù intravedo delle figure grigie. Sembrano depresse e malinconiche. Mi suscitano emozioni sgradevoli, pena, abbattimento e apatia. Vorrei chiamarle ma una sensazione di disagio mi trattiene. So che non mi sentirebbero. So che la porta impedirebbe anche alla mia voce di arrivare a loro. Sembrano guardare perennemente per terra. Lo sguardo non orientato, perso nel vuoto. Anche loro completamente immobili.
« Ho capito, dottore, credo.
È una strana porta, la mia.
Non ha maniglie, non è prevista la sua apertura.
Non ha neanche la serratura, non esistono chiavi per quel tipo di porte.
Non è di legno, quindi non è possibile bruciarla.
Non ha cardini, non girerà mai.
Non riesco proprio a capire, mi scusi. »
« Più è prolungato l’abbandono più sarà duro il materiale della porta. Provi a visualizzare il dolore e la sensazione di solitudine da cui è tormentato. Si elevi sopra la porta e la guardi dall’alto. Il suo orizzonte migliorerà senz’altro! »
Sì, credo proprio che questo sia un carcere! So anche di aver commesso qualcosa di grave, ma non è una certezza. Mi sembra di non averne, certezze. Avverto soltanto una vaga e nebbiosa coscienza del mio passato. Accompagnata da un pesante senso di oppressione e di colpa.
Tutto intorno è grigiore, abulia, nullità.
Bella, la luna, questa sera! E il mare ne crea un duplicato stupendo.
I riflessi dorati, sulle docili onde, sembrano piccoli cavalli in libero pascolo su immense distese.
E laggiù, l’infinito! Dove gli occhi si perdono su morbide ali di gabbiani al vento.
Ed ho capito che ci sono porte che si possono soltanto abbattere.
E il dolore è tanto. Anche se apre nuovi e insperati orizzonti.
E il tormento di dentro è talmente grande che spesso arriva fino a Dio.
Capitolo 3
Non so ancora cosa possa avermi suscitato quel sogno. Una foto su un giornale o forse l’attrice del film di ieri sera. Come incollati, i pensieri vi ritornano con insistenza da stamattina.
Il brusco risveglio mi ha permesso di ricordare, con estrema nitidezza, l’intero sogno e di avvertire dentro il devastante impatto di tutto il dolore di cui era pervaso. Il disagio interiore mi ha inondato, e al lavoro mostravo una faccia stralunata, come di chi ha scoperto, improvvisamente, che il proprio vero nome non è quello scritto sui documenti.
« Dio, com’è bella! Chissà come si chiama? Lo dovrò scoprire! Andrò nella sua aula alla fine delle lezioni e leggerò il suo nome sul registro. Secondo me, ha già capito tutto. Forse aspetta che io mi avvicini a lei e dica qualcosa, che prenda a corteggiarla. Mio Dio, come mi vergogno! Mi ha guardato! Cielo, ha guardato proprio me!»
A volte bisognerebbe avere il coraggio di rivelarsi tutte le verità. Anche le più amare. E confessarsi soprattutto quelle estreme, le più seducenti.
Non si dovrebbe mai tacere l’amore. Forse l’emozione più vitale creata da Dio è proprio l’innamorarsi.
So già che piangerò tantissimo e che mi rimprovererò in eterno di non averle mai dichiarato il mio amore. Oggi posso anche sorridere a quella mia timidezza, ma la odio per tutti gli amori che non mi ha consentito di vivere.
Stamattina il dolore era annientante; già allora sapevo che