Il cuore al di là
By Dario Tesser
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Comincia così lo spaccato della vita di Ruggero, veterinario e istruttore di equitazione che dalla morte di Erica, sua moglie, riesce ad apprezzare ancora qualcosa del vivere restando avvinghiato strenuamente al suo mondo: il cavallo sportivo. L’amore è cosa d’altri tempi e soprattutto, è legato a Erica, al ricordo incancellabile di lei che gli esaltava la vita.
Ruggero non può nemmeno immaginare ciò che gli riserva ancora un’esistenza creduta definitivamente appiattita, destinata ad arrivare al suo termine senza ulteriori sogni.
È Germana il fiore che sboccia tra le pareti del maneggio, è questa piccola donna che, con la sua sconsiderata e impudica giovinezza, lo riconduce nel mondo reale, fatto di passioni, di sentimenti, di gioie e di sofferenze, che lo riporta di nuovo alla realtà costringendolo a vivere.
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Il cuore al di là - Dario Tesser
DARIO TESSER
IL CUORE AL DI LA’
a chiunque abbia provato a buttare
anche una sola volta nella vita
il cuore oltre l’ostacolo
La passione per il cavallo aveva costituito l’esclusivo interesse di un uomo stanco, il solo apprezzabile della vita. Un interesse ritenuto l’unico motivo per cui, da troppo tempo ormai, valeva la pena di mettersi in moto e accettare tutto ciò che, di piacevole e meno piacevole, comportava il posare ogni mattina i piedi per terra scendendo dal letto. Il lavoro con i cavalli, l’impegno che lo ossigenava e di cui non poteva fare a meno per sentirsi vivo, riguardava tanto la sua professione veterinaria, vissuta in modo piuttosto discontinuo ancorché partecipato, quanto la seconda, non meno amata attività: fare l’istruttore di equitazione. Sfaccettature diverse della medesima passione ma, almeno ai suoi occhi, da considerare di pari dignità.
Aveva cominciato a interessarsi ai cavalli a dodici anni seguendo una specie di tradizione di famiglia fondata soprattutto sull’amore per gli equini piuttosto che sul loro utilizzo sportivo. Poi, crescendo, aveva apprezzato maggiormente il lato agonistico dell’equitazione e a quello s’era dedicato con il corpo e con la mente.
Si era laureato in veterinaria specializzandosi, abbastanza ovviamente, nella cura del cavallo, senza mai smettere di dedicare il tempo libero, andando a montare il più spesso possibile, al suo ‘compagno’ di turno, compagno di esaltazione e di fatica: allenare cavalli giovani era, infatti, certamente piacevole ma, specie all’inizio del lavoro, anche faticoso e di puledri ne aveva montati tanti. Dei primi venti, un tempo, ricordava tutto. Adesso, a sessant'anni all’incirca, i nomi gli sfuggivano sbiadendo nella memoria ma i cavalli costituivano ancora l'occupazione della vita. Non si era mai rassegnato a staccarsene, non voleva proprio mettersi in pensione. Immaginarsi un futuro senza nulla da fare, oltre al praticare l’aleatoria attività veterinaria, dovuta all’inflazione di laureati poco preparati che giravano nei maneggi a caccia di clienti, lo spaventava parecchio.
Andare a cavallo era la cosa che amava di più. In modo esagerato, secondo l’opinione di qualcuno ma non gli importava. Quand’era giovane per riuscire a montare, strappava tempo prezioso allo studio e alla sua unica attività retribuita, un lavoretto che gli metteva qualche spicciolo in tasca: consegnava a domicilio pizze appena sfornate. Fu uno dei primi pizza-pony-express della città stavolta, tanto per restare in tema, cavalcando un motorino con un cassonetto fissato dietro, colmo di pizze. Le consegne ipotecavano solo le prime ore della sera, ciononostante contribuivano parecchio ad aumentare il sonno arretrato che lo perseguitava.
Il proprietario della piccola scuderia per la quale montava, vedendolo tanto indaffarato e sempre stanco, obbiettava parecchio sulla sua indefessa, ancorché indispensabile, dedizione al lavoro.
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Gli dava del lei.
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Glielo aveva detto un giorno mentre, finito l’allenamento, stavano perdendo tempo in scuderia, un’attività – si fa per dire – alla quale chiunque monti a cavallo, si dedica applicandosi molto seriamente. In pratica è quasi la parte più divertente di quello sport: nessun pensiero, nessun assillo, solo ciondolare, ricordare cose straordinarie spesso mai accadute veramente, comunque ingigantendole, sparando spesso incredibili cazzate, come fanno i pescatori a proposito delle misure dei pesci perduti per un nonnulla.
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Ruggero, pur occupandosi anche d’altro, aveva un chiodo fisso in testa: pensava principalmente ai cavalli.
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Poteva sembrare una battuta, eppure quanta gente che aveva faticato tanto per diventare ricca, non riusciva a pensare a nient’altro che ai soldi? Lui, il signor Nisio Oltremonti Ricci, per fortuna, no. Però lui era ricco da prima, ricco di famiglia.
Da quel punto di vista il proprietario dei cavalli, che Ruggero chiamava suoi
, poteva stare tranquillo, non lo avrebbe deluso: lui non voleva arricchire, lui voleva solo arrivare a potersi mantenere un cavallo tutto suo, eventualmente., senza dover contare sul signor Oltremonti Ricci con il quale, per altro, si trovava benissimo e non solo a parlar di cavalli. Tra loro s’era istaurata parecchia confidenza, pur mantenendo un rapporto apparentemente formale, continuando a darsi del lei: a Ruggero veniva naturale, data la differenza d’età, li divideva una ventina d’anni, e il signor Nisio lo faceva proprio per rispetto; era una persona educata e rispettava tutti, anche se non condivideva con tutti la passione per il sudore. Non che non capisse il lavoro, non capiva, come aveva spiegato bene, chi lavorava potendo farne a meno, essendo nella possibilità di dedicarsi a cose maggiormente piacevoli e, nel caso di incapacità di divertirsi, almeno di occuparsi delle opere pie.
Avesse ascoltato quell’anziano signore, convinto e pertinace dissipatore delle fortune famigliari… adesso, a distanza di tanti anni e di scelte spesso errate, non si troverebbe di nuovo a dover prendere una decisone.
Era arrivato il momento di scegliere. Almeno gli sembrava.
Ci aveva rimuginato sopra. Abbandonare il suo sport? Lasciar perdere del tutto? Mah, forse. Gli anni passavano – anzi, erano passati - e da troppo tempo ormai montare a cavallo gli costava sempre più fatica. Più fatica che piacere, purtroppo. In ogni modo, era chiaro, non pensava mica a far delle gare; le aveva dimenticate da un pezzo. No, magari fosse stato solo quello. Era la stanchezza della routine, stanchezza perfino delle abitudini che un tempo trovava piacevoli, addirittura irrinunciabili per poter campare felici e che adesso… Era stanchezza di vivere, cavolo!
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L'aveva sempre sognato il mare immaginato in quel modo. Ne parlavano spesso lui e sua moglie. Sarebbe piaciuto a entrambi completare la loro storia così, aspettando che la vita se ne andasse mentre guardavano, mano nella mano, il rincorrersi fantasioso delle nuvole nel cielo plumbeo. Perché il cielo doveva essere tempestoso per forza. Un quadro un po’ melodrammatico? Forse. Oppure, semplicemente, una visione intrisa di nostalgia, il romantico compimento di una vita insieme, a conclusione di una vita felice, se il destino avesse voluto.
Lei, invece, se n’era andata in fretta, quasi per non voler farsene accorgere - avrebbe detto proprio così - per non disturbarlo. La sua prematura scomparsa, contrariamente a quanto lei stessa avrebbe voluto e sperato, l’aveva sconvolto profondamente strappandogli il gusto della vita; una morte prematura e inaspettata, certo, come quasi tutte le morti quando toccano da vicino ma, questa, oltre all’amore gli aveva sottratto l’aspirazione di andarsene all’altro mondo per primo. Per non soffrire... per non soffrire lui, ovviamente, da bravo egoista. Erano davvero ancora abbastanza giovani, soprattutto lei che aveva appena fatto i quaranta e quindi, pensando alla sofferenza che avrebbe provato nel compiangerla, sperava ardentemente che Erica gli sopravvivesse. Aveva quasi dieci anni più di lei, sarebbe stato giusto, naturale che fosse mancato
per primo. E invece...
L’aveva amata immensamente sua moglie, si può dire dal primo giorno che l’aveva vista scendere le scale uscendo dall’appartamento di fronte al suo. Si era invaghito subito dell’incedere agile, della figuretta gentile, proporzionata, delle gambe perfette messe in evidenza da un paio di pantaloncini un tantino troppo corti. Dal pianerottolo sottostante dove si trovava, lui stava risalendo le scale, guardando in su s’intravedeva il merletto degli slip che incorniciava un pezzettino minimo di gluteo, una pieghina deliziosa. Non avrebbe dovuto alzare gli occhi, non avrebbe gettato lo sguardo sul loro destino. Ma questo lo seppe dopo. Sì, erano pantaloncini succinti, però la ragazza era a casa sua e stava scendendo nel giardino condominiale, forse per leggere o studiare. Non si capiva bene che età avesse. Certo era giovane. Poteva essere ancora al liceo.
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S’era sentito incoraggiato. Una decina di minuti dopo l’aveva seguita in cortile.
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La ragazza parlava volentieri. Forse il caldo, che le aveva suggerito d’indossare i pantaloncini maliziosi, non stimolava troppo la voglia di studiare.
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Gli aveva dato del tu naturalmente, senza problemi. Ruggero ne fu un po’ lusingato e un po’ sorpreso.
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Accidenti, a trent’anni non ancora compiuti era
, non sembrava
un ragazzo. Volle ignorare quello che non gli sembrò un complimento. Cambiò discorso.
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No, l’aveva visto e aveva anche notato che era un bel ragazzo. Doveva essere alto circa un metro e ottanta, asciutto, viso affilato, capelli castani, ciuffo sugli occhi, belli, tra il verde e il grigio. Un quadretto disegnato con buona precisione, nonostante avesse detto di non averlo mai visto.
Lei occupava la parte in ombra della panchina. Lo osservò da vicino, il sole lo colpiva in pieno viso. Sembrava che gli occhi gli si fossero scoloriti. A momenti diventavano quasi bianchi.
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Era là, ma va? Osservazione intelligente. Mah! Non gli parve di mostrarsi troppo brillante.
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C’era stata anche lei in Inghilterra, qualche anno prima, per vacanze studio.
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<anche, solo di quelli per la verità. Non mi interessano gli altri animali, almeno non dal punto di vista professionale.>>
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Lo disse sorridendo, con bonomia, passandosi la mano aperta a pettine sui capelli in un gesto che gli era abituale.
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Doveva fare la gavetta, lo sapeva. Non si aspettava di sicuro che, arrivato lui, solo perché era stato bravo all’università e poteva vantare mezzo anno di pratica fatta nella patria del cavallo, tutti lo cercassero abbandonando il vecchio veterinario. Tra l’altro non si sentiva ancora sicurissimo nelle diagnosi; ci voleva occhio, doveva fare ancora tanta esperienza.
Pensieri che tenne per sé. Alla ragazza ne riservava ben altri.
L’accompagnò a montare a cavallo, una domenica pomeriggio. Andarono a Jesolo, da Piero che aveva una scuderia e affittava cavalli ai turisti. Piero aveva la stessa età di Ruggero ed era davvero un tipo divertente. Buon conoscitore di cavalli, aveva anche discrete nozioni di equitazione, tanto da non poter essere considerato il solito affittacavalli
; con lui si imparava davvero a montare. E poi Piero amava sul serio i suoi animali, quasi quanto le sue donne: ne aveva tante; alcune le assecondava, altre le lasciava sperare. In ogni caso in scuderia da lui, a Jesolo, ci si divertiva.
Erica prese là le sue prime lezioni. Ruggero non interveniva mai per dare consigli dall’alto della sua esperienza decennale, non voleva porsi in mezzo e lasciava che il Maestro lavorasse a modo suo. Aveva imparato da un pezzo che non si doveva mischiare lo sport con qualsiasi altra cosa. O sentimento. Lei gli piaceva. Nessun suggerimento, quindi. Inoltre sembrava, anzi era dotata per l’equitazione cosicché, dopo poche ore passate a girare in tondo dentro il sicuro recinto del maneggio, poté uscire in passeggiata assieme a lui e al gruppo di amici che s’era formato attorno al Maestro. Le galoppate a perdifiato sulla battigia, sollevata in sella, ritta sulle staffe, magari con le gambe un po’ troppo rigide, infiammavano le gote di Erica facendola apparire ancora più bella. Ruggero badava poco al cavallo e tanto al bel viso di lei che, d’altro canto, lo ammirava vedendolo sicuro e sciolto in sella. Si piacquero subito. Cominciò così la loro storia d’amore, tra balle di paglia, odore di fieno e spruzzi d’acqua salata alzati dal galoppo dei cavalli che sembravano percepire la felicità dei loro cavalieri.
Si sposarono la primavera successiva, nonostante la costernazione della famiglia di lei che non vedeva di buon occhio l’unione della figlia con un uomo di trent’anni. Al matrimonio non invitarono nessuno. Il pranzo di nozze fu all’incirca una scampagnata sui colli euganei: seduti sotto la pergola dell’osteria Al piccolo Tapparo
: c’erano, oltre a loro due ovviamente, i relativi testimoni, una coppia di amici e Piero con la donna del momento.
La prima trascorsa assieme, fu un’estate meravigliosa. S’erano sposati a maggio e tra viaggio di nozze, ferie e tutti i fine settimana, trascorsero all’incirca tre mesi nella scuderia di Jesolo. Spesso dormivano al piano di sopra, in una stanza ricavata a ridosso del fienile, dividendo un letto singolo. Se faceva caldo si mettevano uno da testa e uno da piedi, addormentandosi a seggiolina
. Nel sonno udivano ogni tanto sommessi nitriti, un calcio alla parete di un box, il fruscio della paglia mentre qualche cavallo si rigirava sulla lettiera; tenevano sotto blando controllo, a metà tra veglia e sonno, anche le rapide galoppate di qualche grosso sorcio affamato in vena di sgranchirsi le gambe sulle mangiatoie. Il sonno