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Le parole della storia
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Le parole della storia

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About this ebook

Un ebook unico nel suo genere, un’opera che desidera raccogliere le parole più significative lasciateci nel tempo dai più illustri intellettuali, politici, capi di Stato e Papi. Si parte da Menenio Agrippa (ca. 500 a.C.) fino ad arrivare ai giorni nostri (21 marzo 2015) con il discorso di Papa Francesco a Scampia, passando inevitabilmente per le fasi più importanti della nostra storia antica, moderna e contemporanea.
Cicerone, Thomas Jefferson, Abraham Lincoln, Napoleone Bonaparte, Gandhi, Charles De Gaulle, Winston Churchill, Adolf Hitler, Benito Mussolini, Lenin, Frank Delano Roosvelt, J.F.K, Martin Luther King, Malcolm X, Papa Giovanni XXIII, Bill Gates, Steve Jobs e Barack Obama, solo per citarne alcuni, si alternano in oltre 50 discorsi attraverso i quali è possibile comprendere come la forza delle parole sia assolutamente ineguagliabile.
LanguageItaliano
Release dateMar 24, 2015
ISBN9788898006885
Le parole della storia

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    Le parole della storia - Fabrizio Ambrogi

    Fabrizio Ambrogi

    Le parole della storia

    Le Parole della Storia

    - da Menenio Agrippa a Papa Francesco tutti i discorsi celebri che hanno segnato la nostra storia -

    a cura di Fabrizio Ambrogi

     ISBN: 978-88-98006-88-5

    Prima edizione Ebook: marzo 2015

    Prezzo: €. 3,99

    Proprietà letteraria riservata

    Greenbooks editore

    info@greenbooks-editore.com

    Visitate il ns. sito

    www.greenbooks-editore.com

    ISBN: 978-88-98006-88-5

    This ebook was created with BackTypo (http://backtypo.com)

    by Simplicissimus Book Farm

    Indice

    MENENIO AGRIPPA

    Discorso ai plebei in rivolta - 493 a.C.

    PERICLE

    La democrazia non è per il bene di poche persone - 430 a.C.

    SOCRATE

    ​Congedo dopo la condanna a morte - 399 a.C.

    MARCO TULLIO CICERONE

    Discorso di accusa a Catilina - 63 a.C.

    MARCO ANTONIO

    ​Elogio funebre per Giulio Cesare - 44 a.C.

    GESU' CRISTO

    Discorso della Montagna

    PAPA URBANO II

    Discorso al Concilio di Clermont - 27 novembre 1095

    ELISABETTA I D'INGHILTERRA

    Discorso alle truppe a Tilbury - 9 agosto 1588

    THOMAS JEFFERSON

    ​Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d'America - 4 luglio 1776

    ABRAHAM LINCOLN

    Discorso di Gettysburg - 19 novembre 1863

    NAPOLEONE BONAPARTE

    ​Motivare le truppe - 1 dicembre 1805

    ​Dopo la battaglia di Austerlitz - 2 dicembre 1805

    VITTORIO EMANUELE II

    Secondo proclama di Moncalieri - 20 NOVEMBRE 1849

    LENIN

    Discorso sull'educazione al primo congresso di tutta la Russia - 1918

    Discorso di apertura al 1° Congresso dell'Internazionale Comunista - 19 luglio 1920

    GANDHI, MOHANDAS KARAMCHAND

    Che cosa intendo per non-violenza" - 23 marzo 1922

    Discorso alla Conferenza delle relazioni interasiatiche - 2 aprile 1947

    BENITO MUSSOLINI

    ​Discorso alla Camera dei Deputati (passato alla storia come Discorso del bivacco) - 16 novembre 1922

    Annuncio della dichiarazione di guerra - 10 giugno 1940

    ​Discorso del Lirico a Milano - 16 dicembre 1944

    ADOLF HITLER

    Discorso di Hitler al Reichstag

    Discorso al Palazzo dello Sport di Berlino - 3 ottobre 1941

    EDOARDO VIII D'INGHILTERRA

    Discorso di abdicazione - 11 dicembre 1936

    CHARLES DE GAULLE

    Discorso a Radio Londra - 18 giugno 1940

    WINSTON CHURCHILL

    Primo discorso alla radio dopo l'attacco alla Polonia - 12 novembre 1939

    Discorso alla camera dei comuni - 13 maggio 1940

    FRANK DELANO ROOSVELT

    Discorso di inizio mandato - 4 marzo 1933

    Discorso dopo l'attacco di Pearl Harbour (discorso dell'infamia) - 7 dicembre 1941

    IOSIF STALIN

    Primo discorso al popolo sovietico dopo l'aggressione nazista, pronunciato alla radio - 3 luglio 1941

    Discorso tenuto a Mosca al Soviet dei deputati dei lavoratori - 6 novembre 1941

    Discorso pronunciato a Mosca - 9 febbraio 1946

    ALCIDE DE GASPERI

    Discorso alla Conferenza di Pace del 1946

    ROBERT SCHUMAN

    Dichiarazione Schuman – 9 maggio 1950

    NIKITA KRUSCIOV

    Discorso di Nikita Krusciov al XX congresso del Pcus - 25 febbraio 1956

    HARRY TRUMAN

    ​Discorso dei quattro punti tenuto a Washington - 20 gennaio 1949

    ​JOHN FITZGERALD KENNEDY

    Discorso d'insediamento - 20 gennaio 1961

    Discorso al muro di Berlino Ich bin ein berliner - 26 giugno 1963

    PAPA GIOVANNI XXIII

    Discorso della luna pronunciato a braccio - 11 ottobre 1962

    Radiomessaggio per l'intesa e la concordia tra i popoli - 25 ottobre 1962

    MALCOLM X

    Discorso tenuto a Detroit - 10 Novembre 1963

    MARTIN LUTHER KING

    I have a dream - 23 agosto 1963

    PAPA GIOVANNI PAOLO II

    Discorso di inizio pontificato - 16 ottobre 1978

    Discorso ai giovani della diocesi di Roma - 5 aprile 2001

    RONALD REAGAN

    Discorso a Berlino Ovest - 12 giugno 1987

    NELSON MANDELA

    Discorso pronunciato a Cuba - 26 luglio 1991

    Discorso che ha segnato la fine dell'apartheid - 10 maggio 1994

    GEORGE WALKER BUSH

    Discorso dopo l'attacco alle Torri gemelle - ​11 Settembre 2001

    STEVE JOBS

    Discorso di Steve Jobs ai neolaureati di Stanford - 12 giugno 2005

    BILL GATES

    Discorso tenuto da Bill Gates alla Mt. Whitney High School - 2013

    PAPA BENEDETTO XVI

    Discorso all'Aula Magna dell’Università di Regensburg - 12 settembre 2006

    BARACK OBAMA

    Discorso del nuovo presidente dopo la vittoria - Chicago 4 novembre 2008

    Discorso di insediamento per il 2° mandato - 7 novembre 2012

    PAPA FRANCESCO

    Proclamazione del Pontefice - 13 marzo 2013

    Discorso alla popolazione di Scampia - 21 marzo 2015

    Ringraziamenti

    MENENIO AGRIPPA

    Agrippa Menenio Lanato, in latino Agrippa Menenius Lanatus (... – 493 a.C.), è stato un politico romano, membro della gens Menenia, meglio noto come Menenio Agrippa.

    Menenio fu eletto console nel 503 a.C. assieme a Publio Postumio Tuberto, con il quale si trovò a fronteggiare la defezione delle città di Pometia e Cori, passate nelle fila degli Aurunci. Dopo aver sconfitto un ingente esercito aurunco, i due consoli mossero battaglia a Pometia; la battaglia, combattuta ferocemente da ambo le parti, fu vinta dai Romani, che decretarono il trionfo per i due consoli.

    Nelle lotte fra patrizi e plebei, fu considerato un uomo dalle opinioni moderate che ebbe la fortuna, rara nei conflitti civili, di essere apprezzato e stimato da entrambe le parti.

    Grazie alla sua mediazione, la prima grande rottura fra patrizi e plebei, corrispondente all'evento storico della secessione sul Monte Sacro, fu ricondotta ad una conclusione felice e pacifica nel 493 a.C.

    In questa occasione si dice che abbia esposto alla plebe il suo ben noto apologo del ventre e delle membra.

    Morì alla fine dello stesso anno e, poiché aveva lasciato proprietà appena sufficienti a pagare un funerale estremamente semplice, fu sepolto con un magnifico funerale a spese dello Stato. I plebei avevano raccolto contributi volontari per lo scopo, che furono dati ai figli di Menenio, dopo che il Senato decretò che le spese del funerale fossero a carico dell'Erario.

    Agrippa spiegò l'ordinamento sociale romano metaforicamente, paragonandolo (come in Esopo) ad un corpo umano nel quale, come in tutti gli insiemi costituiti da parti connesse tra loro, se collaborano insieme sopravvivono, se discordano tra loro periscono. E che, effettivamente, se le braccia (il popolo) si rifiutassero di lavorare, lo stomaco (il senato) non riceverebbe cibo. Ma ribatté che, dove lo stomaco non ricevesse cibo, non lavorerebbe e non lavorando tutto il corpo, braccia comprese, deperirebbe per mancanza di nutrimento. La situazione fu ricomposta ed i plebei fecero ritorno alle loro occupazioni. 

    Discorso ai plebei in rivolta - 493 a.C.

    « Una volta, le membra dell’uomo, constatando che lo stomaco se ne stava ozioso [ad attendere cibo], ruppero con lui gli accordi e cospirarono tra loro, decidendo che le mani non portassero cibo alla bocca, né che, portatolo, la bocca lo accettasse, né che i denti lo confezionassero a dovere. Ma mentre intendevano domare lo stomaco, a indebolirsi furono anche loro stesse, e il corpo intero giunse a deperimento estremo. Di qui apparve che l’ufficio dello stomaco non è quello di un pigro, ma che, una volta accolti, distribuisce i cibi per tutte le membra. E quindi tornarono in amicizia con lui. Così senato e popolo, come fossero un unico corpo, con la discordia periscono, con la concordia rimangono in salute. »

    PERICLE

    Pericle (in greco antico Περικλῆς, traslitterato in Periklēs, circondato dalla gloria; Colargo, 495 a.C. circa – Atene, 429 a.C.) è stato un politico, oratore e militare ateniese attivo durante il periodo d'oro della città, tra le Guerre persiane e la Guerra del Peloponneso (431 a.C. – 404 a.C.).

    Discendente da parte di madre dalla potente e influente famiglia degli Alcmeonidi, Pericle ebbe una così profonda influenza sulla società ateniese che Tucidide, uno storico suo contemporaneo, lo acclamò come primo cittadino di Atene. Pericle fece della Lega delio-attica un impero comandato da Atene con altre città alleate, durante i primi due anni della Guerra del Peloponneso.

    Pericle favorì lo sviluppo delle arti e della letteratura e questa fu la principale ragione per la quale Atene detiene la reputazione di centro culturale dell'Antica Grecia. Promosse, allo scopo di dare lavoro a migliaia di artigiani e cittadini, un ambizioso progetto edilizio che portò alla costruzione di molte opere sull'Acropoli (incluso il Partenone), abbellì la città, esibì la sua gloria. Inoltre, Pericle sostenne la democrazia (nell'accezione aristotelica) a tal punto che i critici contemporanei lo definiscono un populista, specialmente a seguito dell'introduzione di un salario per coloro che ricoprivano gli incarichi politici e ai rematori della flotta.

    La democrazia non è per il bene di poche persone - 430 a.C.

    Comincerò prima di tutto dagli antenati: è giusto infatti e insieme doveroso che in tale circostanza a loro sia tributato l’onore del ricordo. Questo paese, che essi sempre abitarono, libero lo trasmisero ai discendenti che li seguirono fino al nostro tempo, e fu merito del loro valore. Noi abbiamo una forma di governo che non guarda con invidia le costituzioni dei vicini, e non solo non imitiamo altri, ma anzi siamo noi stessi di esempio a qualcuno. Quanto al nome, essa è chiamata democrazia, poiché è amministrata non già per il bene di poche persone, bensì di una cerchia più vasta: di fronte alle leggi, però, tutti, nelle controversie, godono di uguale trattamento; e secondo la considerazione di cui uno gode, poiché in qualche campo si distingue, non tanto per il suo partito, quanto per il suo merito, viene preferito nelle cariche pubbliche; né, d’altra parte, la povertà, se uno è in grado di fare qualche cosa di utile alla città, gli è di impedimento per l’oscura sua posizione sociale. Come in piena libertà viviamo nella vita pubblica, così in quel vicendevole sorvegliarsi che si verifica nelle azioni di ogni giorno non ci sentiamo urtati se uno si comporta a suo gradimento, né gli infliggiamo con il nostro corruccio una molestia che, se non è un castigo vero e proprio, è pur sempre qualche cosa di poco gradito. Noi che serenamente trattiamo i nostri affari privati, quando si tratta degli interessi pubblici abbiamo un’incredibile paura di scendere nell’illegalità: siamo obbedienti a quanti si succedono al governo, ossequienti alle leggi, e tra esse in modo speciale a quelle che sono a tutela di chi subisce ingiustizia e a quelle che, pur non trovandosi scritte in alcuna tavola, portano per universale consenso il disonore a chi non le rispetta. Inoltre, a sollievo delle fatiche, abbiamo procurato allo spirito nostro moltissimi svaghi, celebrando secondo il patrio costume giochi e feste che si susseguono per tutto l’anno, e abitando case fornite di ogni conforto, il cui godimento quotidiano scaccia da noi la tristezza. Affluiscono poi nella nostra città, per la sua importanza, beni d’ogni specie da tutta la terra, e così capita a noi di poter godere non solo tutti i frutti e i prodotti di questo paese, ma anche quelli degli altri, con uguale diletto e abbondanza come se fossero nostri. Anche nei preparativi di guerra ci segnaliamo agli avversari. La nostra città, ad esempio, è sempre aperta a tutti e non c’è pericolo che, allontanando i forestieri, noi impediamo ad alcuno di conoscere o di vedere cose da cui, se non fossero tenute nascoste e un nemico le vedesse, potrebbe trarre vantaggio; perché fidiamo non tanto nei preparativi e negli stratagemmi, quanto nel nostro innato valore che si rivela nell’azione. Diverso è pure il sistema di educazione: mentre gli avversari, subito fin da giovani, con faticoso esercizio vengono educati all’eroismo, noi, invece, pur vivendo con abbandono la vita, con pari forza affrontiamo pericoli uguali. E la prova è questa: gli spartani fanno irruzione nel nostro paese, ma non da soli, bensì con tutti gli alleati; noi invece, invadendo il territorio dei vicini, il più delle volte non facciamo fatica a superare in campo aperto e in paese altrui uomini che difendono i propri focolari. Noi amiamo il bello, ma con misura; amiamo la cultura dello spirito, ma senza mollezza; usiamo la ricchezza più per l’opportunità che offre all’azione che per sciocco vanto di parola, e non il riconoscere la povertà è vergognoso tra noi, ma più vergognoso non adoperarsi per fuggirla. Le medesime persone da noi si curano nello stesso tempo e dei loro interessi privati e delle questioni pubbliche: gli altri poi che si dedicano ad attività particolari sono perfetti conoscitori dei problemi politici; poiché il cittadino che di essi assolutamente non si curi siamo i soli a considerarlo non già uomo pacifico, ma addirittura un inutile. Noi stessi o prendiamo decisioni o esaminiamo con cura gli eventi: convinti che non sono le discussioni che danneggiano le azioni, ma il non attingere le necessarie cognizioni per mezzo della discussione prima di venire all’esecuzione di ciò che si deve fare. Abbiamo infatti anche questa nostra dote particolare, di sapere, cioè, osare quant’altri mai e nello stesso tempo fare i dovuti calcoli su ciò che intendiamo intraprendere; agli altri, invece, l’ignoranza provoca baldanza, la riflessione apporta esitazione. Ma fortissimi d’animo, a buon diritto, vanno considerati coloro che, conoscendo chiaramente le difficoltà della situazione e apprezzando le delizie della vita, tuttavia, proprio per questo, non si ritirano di fronte ai pericoli. Per una tale città, dunque, costoro nobilmente morirono, combattendo perché non volevano che fosse loro strappata, ed è naturale che per essa ognuno di quelli che sopravvivono ami affrontare ogni rischio. Per questo, o genitori dei caduti quanti qui siete, non vi compiango, ma cercherò piuttosto di confortarvi. Sapete, infatti, di essere cresciuti fra le più varie vicende: felice solo chi ebbe in sorte la più splendida delle morti, come ora costoro, e il più nobile dei dolori, come voi. Beati coloro che videro la gioia della vita coincidere con una morte felice. E se devo fare un accenno anche alla virtù delle donne, per quante ora si troveranno in vedovanza, comprenderò tutto in questa breve esortazione. Gran vanto per voi dimostravi all’altezza della vostra femminea natura; grande è la reputazione di quella donna di cui, per lode o biasimo, si parli il meno possibile fra gli uomini. Ho terminato; nel mio discorso, secondo la tradizione patria, ho detto quanto ritenevo utile; di fatto coloro che qui sono sepolti hanno già avuto in parte gli onori dovuti. Per il resto, i loro figli da oggi saranno mantenuti a spese dello stato fino alla virilità: è questa l’utile corona che per siffatti cimenti la città propone e offre a coloro che qui giacciono e a quelli che restano. Là dove ci propongono i massimi premi per la virtù, ivi anche fioriscono i cittadini migliori. Ora, dopo aver dato il vostro tributo di pianto ai cari che avete perduto, ritornatevene alle vostre case.

    SOCRATE

    Socrate (in greco antico Σωκράτης, traslitterato in Sōkrátēs; Atene nel demo di Alopece, 470 a.C./469 a.C. – Atene, 399 a.C.) è stato un filosofo greco antico, uno dei più importanti esponenti della tradizione filosofica occidentale.

    Il contributo più importante che egli ha dato alla storia del pensiero filosofico consiste nel suo metodo d'indagine: il dialogo che utilizzava lo strumento critico dell'elenchos (ἔλεγχος, confutazione) applicandolo prevalentemente all'esame in comune (ἐξετάζειν, exetάzein) di concetti morali fondamentali. Per questo Socrate è riconosciuto come padre fondatore dell'etica o filosofia morale.

    Per le vicende della sua vita e della sua filosofia che lo condussero al processo e alla condanna a morte è stato considerato, dal filosofo e classicista austriaco Theodor Gomperz, il primo martire occidentale della libertà di pensiero.

    «[...] dall'antichità ci è pervenuto un quadro della figura di Socrate così complesso e così carico di allusioni che ogni epoca della storia umana vi ha trovato qualche cosa che le apparteneva. Già i primi scrittori cristiani videro in Socrate uno dei massimi esponenti di quella tradizione filosofica pagana che, pur ignorando il messaggio evangelico, più si era avvicinata ad alcune verità del Cristianesimo. L'Umanesimo e il Rinascimento videro in Socrate uno dei modelli più alti di quella umanità ideale che era stata riscoperta nel mondo antico. Erasmo da Rotterdam, profondo conoscitore dei testi platonici era solito dire: «Santo Socrate, prega per noi» (Sancte Socrates, ora pro nobis).»

    ​Congedo dopo la condanna a morte - 399 a.C.

    Io non so proprio, o Ateniesi, quale effetto abbiano prodotto su di voi i miei accusatori. Quanto a me, mentre li ascoltavo, divenivo quasi dimentico di me, tale era il fascino della loro eloquenza! Eppure, se debbo proprio dirlo, non una parola di verità era in loro. Ma, tra tutte le loro menzogne, quella che mi ha maggiormente colpito è questa: essi dissero che dovevate star bene in guardia per non lasciarvi trarre in inganno da me, essendo io un astuto parlatore. E questa mi è parsa la loro maggiore impudenza in quanto si sono esposti, con vergogna, a farsi immediatamente smentire, giacché vi mostrerò con i fatti come io non sia quell’astuto parlatore che dicono. A meno che essi non intendano per astuto parlatore chi dice la verità; in tal caso concedo loro di essere un oratore, ma non certo alla loro maniera. Costoro dunque, ed amo ripeterlo ancora, poco o nulla hanno detto di vero, ma da me non udrete che la verità. E, per Giove, io non vi parlerò con linguaggio intessuto di frasi e di parole belle ed eleganti, come sono abituati a fare costoro. Io vi parlerò invece così, semplicemente, come le espressioni si presenteranno a me.

    Ecco dunque, o Ateniesi, che per non aver voluto attendere ancora un poco, avete dato adito all’accusa di aver ucciso Socrate da parte di coloro che vogliono recare offesa alla città. E mi diranno sapiente, anche se non lo sono, allo scopo di diffamarvi. Mentre, se aveste atteso un po' di tempo ancora, la morte sarebbe venuta da sé. Guardate infatti la mia età, come è già lontana dalla vita e prossima alla morte. E questo lo dico non a tutti voi, ma a quelli che hanno votato la mia condanna. E a questi voglio dire ancora una cosa.Forse voi pensate che io sono stato condannato per mancanza di quegli abili discorsi con i quali avrei potuto persuadervi se avessi creduto che era necessario dire e far di tutto pur di scampare alla condanna. Niente affatto! Ciò che mi è venuto a mancare non sono stati gli argomenti, bensì l’audacia e l’impudenza e non ho voluto dire cose che vi sarebbero state gradevolissime da udire, piangendo e lamentandomi e facendo altre cose indegne di me, ma alle quali altri vi hanno abituati. E come poco fa non credetti di fare cosa indegna per paura del pericolo, così ora non mi pento di essermi difeso in questo modo. Preferisco anzi essermi difeso così e morire, che difendermi in quell’altro modo e vivere. Ma considerate bene, Ateniesi, che il difficile non è evitare la morte, quanto piuttosto evitare la malvagità, che ci viene incontro più veloce della morte. Ed ora io, come tardo e vecchio, sono stato raggiunto da quella che è più tarda; i miei accusatori, invece, più gagliardi e veloci, da quella che è più veloce, la malvagità. Ed ora io me ne vado da qui condannato a morire; costoro invece condannati dalla verità ad essere malvagi e ingiusti. Io accetto la mia pena, questi la loro. Doveva forse essere così e penso che così sia bene. E se pensate, uccidendo uomini, di trattenere qualcuno dal rimproverarvi di non essere sulla giusta via, pensate da stolti. Non è questo un rimedio né possibile, né bello. Di gran lunga migliore e più agevole sarebbe quello di non recare danno agli altri, procurando invece di rendere se stessi quanto più buoni possibile. E con questo vaticinio io prendo congedo da coloro che hanno votato la mia morte.

    MARCO TULLIO CICERONE

     

    Marco Tùllio Ciceróne (in latino Marcus Tullius Cicero, pronunciato /'markus 'tulljus 'ʧiʧero/ secondo la pronuncia italiana tradizionale del latino, ['maːr.kʊs 'tʊl.lɪ.ʊs 'kɪ.kɛ.roː] secondo la pronuncia restituita, cioè classica ricostruita; in greco antico Κικέρων, Kikérōn; Arpino, 3 gennaio 106 a.C. – Formia, 7 dicembre 43 a.C.) è stato un avvocato, politico, scrittore, oratore e filosofo romano. 

      Esponente di un'agiata famiglia dell'ordine equestre, Cicerone fu una delle figure più rilevanti di tutta l'antichità romana. La sua vastissima produzione letteraria, che va dalle orazioni politiche agli scritti di filosofia e retorica, oltre a offrire un prezioso ritratto della società romana negli ultimi travagliati anni della repubblica, rimase come esempio per tutti gli autori del I secolo a.C., tanto da poter essere considerata il modello della letteratura latina classica.

    Attraverso l'opera di Cicerone, grande ammiratore della cultura greca, i Romani poterono anche acquisire una migliore conoscenza della filosofia. Tra i suoi maggiori contributi alla cultura latina ci fu senza dubbio la creazione di un lessico filosofico latino: Cicerone si impegnò, infatti, a trovare il corrispondente vocabolo in latino per tutti i termini specifici del linguaggio filosofico greco. Tra le opere fondamentali per la comprensione del mondo latino si collocano invece le Lettere (Epistulae, in particolar modo quelle all'amico Tito Pomponio Attico), che offrono numerosissime riflessioni su ogni avvenimento, permettendo di comprendere quali fossero le reali linee politiche dell'aristocrazia romana.

    Cicerone occupò per molti anni anche un ruolo di primaria importanza nel mondo della politica: dopo aver salvato la repubblica dal tentativo eversivo di Lucio Sergio Catilina ed aver così ottenuto l'appellativo di pater patriae (padre della patria), ricoprì un ruolo di primissima importanza all'interno della fazione degli Optimates. Fu infatti Cicerone che, negli anni delle guerre civili, difese strenuamente fino alla morte una repubblica giunta ormai all'ultimo respiro e destinata a trasformarsi nel principatus augusteo.

    Discorso di accusa a Catilina - 63 a.C.

    Fino a quando, Catilina, intendi dunque abusare della nostra pazienza? Per quanto tempo ancora questo tuo comportamento fazioso si prenderà gioco di noi? Fino a che punto si spingerà la tua illimitata sfrontatezza? Non ti turbano il presidio notturno a difesa del Palatino, le pattuglie armate che perlustrano la città, l’angoscia del popolo, l’accorrere di tutti i cittadini onesti, e neppure la scelta di questa sede, così difesa, per le riunioni del Senato, né l’espressione del volto di costoro? Non ti accorgi che i tuoi progetti sono stati scoperti? Non ti rendi conto che il tuo complotto è ostacolato dal fatto che tutti qui ne sono a conoscenza? Credi forse che qualcuno di noi ignori che cosa hai fatto la notte scorsa e quella precedente, dove sei stato, quali congiurati hai convocato e quali decisioni hai preso? O tempora! O mores! Il Senato è al corrente di questi progetti, il console ne è consapevole: eppure costui continua a vivere. A vivere? Non solo, ma addirittura viene in Senato, gli si permette di prendere parte alle decisioni di interesse comune, osserva ciascuno di noi e con un’occhiata gli assegna un destino di morte. Quanto a noi, uomini di grande coraggio, siamo convinti di fare abbastanza per lo stato vanificando i furiosi tentativi assassini di quest’uomo.In Italia, allo sbocco delle valli toscane, vi è un esercito schierato contro il popolo romano; il numero dei nemici cresce di giorno in giorno; il comandante, la guida di tale esercito, lo potete vedere in città, e persino in Senato, ordire giorno dopo giorno le sue trame contro la repubblica. Se ora dessi ordine di catturarti, Catilina, e di ucciderti, sono convinto che tutti i cittadini onesti direbbero che l’ho fatto troppo tardi, e non che ho agito con eccessiva crudeltà. Ma io per una ben precisa ragione sono portato a credere che sia bene non fare ancora ciò che si sarebbe dovuto fare già in precedenza. Alla fine sarai comunque giustiziato, quando ormai non si troverà più nessuno tanto ingiusto, tanto corrotto, tanto simile a te, da non riconoscere apertamente che ho agito secondo la legge. Finché ci sarà uno solo che oserà difenderti vivrai, ma vivrai così come stai vivendo ora, assediato dalle numerose e risolute guardie, in modo che tu non possa ordire trame contro lo stato. Molti occhi e molte orecchie ti osserveranno e ti ascolteranno, senza che tu te ne accorga, come hanno fatto finora. E dunque, Catilina, che motivo c’è per attendere ancora, se nemmeno la notte riesce a nascondere con le tenebre i tuoi incontri scellerati, se neppure le pareti di una casa privata bastano a coprire le voci della tua congiura, se tutto è chiaro, se tutto viene alla luce? Dammi ascolto, cambia il tuo proposito, dimentica massacri e incendi. Che anzi offrirò volentieri la vita, se con la mia morte può essere affrettata la libertà di Roma, cosicché il dolore del popolo romano produca una buona volta quel che già da tempo anela di produrre. Infatti, se quasi vent’anni addietro, in questo stesso tempio, dissi che non può per un consolare la morte essere prematura, quanto più giustamente ora dirò che non lo è per un vecchio! Ma io, o senatori, avendo raggiunto ormai gli onori che ho raggiunto, e avendo compiuto le imprese che ho compiuto, non ho da desiderare ancora la morte. Queste due cose soltanto desidero: l’una, che morendo lasci libero il popolo romano – nulla più grande di questo potrebbe essermi concesso dagli dei immortali -, l’altra, che ciascuno sia trattato dalla sorte così come si rende meritevole verso la Repubblica.

    MARCO ANTONIO

     

    Marco Antonio (in latino Marcus Antonius; Roma, 14 gennaio 83 a.C. – Alessandria d'Egitto, 1º agosto 30 a.C.) è stato un politico e militare romano durante il periodo della Repubblica.

    Abile condottiero e coraggioso combattente, dopo essere stato il principale luogotenente di Gaio Giulio Cesare, Marco Antonio fu il grande rivale di Cesare Ottaviano nel lungo periodo successivo al cesaricidio caratterizzato da fasi alterne di conflitti e alleanze tra le due fazioni. Giudicato negativamente dalla storiografia augustea per la sua turbolenta vita privata, il suo comportamento esuberante, la sua politica orientaleggiante, Marco Antonio è stato valutato in termini più equanimi dalla storiografia moderna.

    ​Elogio funebre per Giulio Cesare - 44 a.C.

    Amici, concittadini, romani! Prestatemi orecchio. Io vengo a seppellire Cesare, non a lodarlo. Il male che gli uomini fanno sopravvive loro, il bene è spesso sotterrato con le loro ossa. Così sia per Cesare. Il nobile Bruto vi ha detto che Cesare era ambizioso. Se ciò era vero, quella fu una grave colpa, e gravemente Cesare l’ha scontata. Qui, con il permesso di Bruto e degli altri (perché Bruto è uomo d’onore, e così sono tutti, tutti uomini d’onore) io vengo a parlare al funerale di Cesare. Egli era mio amico, leale e giusto con me; ma Bruto dice che era ambizioso, e Bruto è uomo d’onore. Egli ha portato molti prigionieri a Roma, il cui riscatto ha riempito le casse dell’erario: fu questo un atto di ambizione? Quando i poveri hanno pianto, Cesare ha pianto. L’ambizione dovrebbe essere fatta di più dura stoffa.Tuttavia, Bruto dice che era ambizioso, e Bruto è uomo d’onore. Tutti voi avete visto che alla festa dei Lupercali io gli ho offerto tre volte una corona regale, che lui tre volte ha rifiutato. Era ambizione, questa?Tuttavia, Bruto dice che era ambizioso, e certamente Bruto è uomo d’onore. Io non parlo per smentire ciò che Bruto ha detto, ma sono qui per dire quello che so. Tutti voi lo amavate un tempo, non senza ragione; quale ragione vi trattiene allora dal piangerlo? O giudizio, ti sei rifugiato presso bestie brute, e gli uomini hanno perso la ragione. Abbiate pazienza, il mio cuore è nella bara, lì, con Cesare, e devo fermarmi fino a che non ritorni a me. Solo ieri la parola di Cesare avrebbe potuto reggere contro il mondo intero; ora egli giace lì, e non c’è nessuno così misero da concedergli riverenza. O Signori, se io fossi disposto ad agitare i vostri cuori e le vostre menti alla rivolta e al furore, farei torto a Bruto, e torto a Cassio, i quali, voi tutti lo sapete, sono uomini d’onore. Non farò loro torto; preferisco fare torto al morto, fare torto a me stesso, e a voi, piuttosto che fare torto a siffatti uomini d’onore. Ma ecco una pergamena col sigillo di Cesare; l’ho trovata nel suo studio; è il suo testamento. Se solo il popolo udisse questo testamento, che, perdonatemi, io

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