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Valeria e le cattive compagnie: Storie di militanti e movimenti politici
Valeria e le cattive compagnie: Storie di militanti e movimenti politici
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Valeria e le cattive compagnie: Storie di militanti e movimenti politici

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About this ebook

Lorenzo comincia l’Università animato da una forte passione politica e s’innamora di Valeria, una neocomunista dal carattere indecifrabile. Insieme faranno un viaggio nel cuore della Sardegna funestata dalla crisi, per trovare risposte politiche ai drammi sociali dei nostri tempi. Tuttavia il loro progetto sarà influenzato dalle “cattive compagnie”: ex sessantottini idealisti al limite dell’utopia, politici bramosi di denaro e potere, bombaroli a piede libero, ragazzi dalle abitudini discutibili e vecchi terroristi nostalgici. Lorenzo affronterà l’angoscia della disillusione, ma scoprirà nell’individualismo uno strumento di riscatto sociale. Un libro sulla politica tra passione autentica e giochi di palazzo, tra crisi economica e voglia di riscatto.
LanguageItaliano
PublisherLogus
Release dateMar 27, 2013
ISBN9788898062232
Valeria e le cattive compagnie: Storie di militanti e movimenti politici

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    Valeria e le cattive compagnie - Vincenzo Maria D'Ascanio

    LE CATTIVE COMPAGNIE

    Versione elettronica I edizione, marzo 2013

    © Logus mondi interattivi 2013

    ISBN: 97 8889 806 223 5

    Autore: VINCENZO MARIA D'ASCANIO

    Editore: Logus mondi interattivi

    Cover e Design: Pier Luigi Lai 

    Contatti: info@logus.it - www.logus.it

    VINCENZO MARIA D'ASCANIO

    LE CATTIVE COMPAGNIE

    *  *  *

    Dedicato a mia moglie,

    ai miei genitori,

    ai giovani sardi.

    PREFAZIONE

    - Ma perché scrivi? Tanto non diventerai mai uno scrittore

    - e tu perché giochi a calcio? Pensi di diventare un calciatore?-

    - eh, ma io lo faccio per divertirmi…-

    - anch’io scrivo per divertirmi-

    Vincenzo D’Ascanio 15 marzo 2008

    La prefazione di un libro ha spesso una funzione metaletteraria, ovvero raccontare la storia del romanzo dalla genesi alla stesura finale. Si tratta di inserire una lente, un filtro che preservi il lettore da un inizio ex abrupto, un salvagente che gli permetta di galleggiare per qualche istante, prima di immergersi nella narrazione. Sfortunatamente, le motivazioni che hanno spinto l’autore a scrivere il suo romanzo mi sono sconosciute, di contro conosco bene la storia di come questo testo si è trasformato in libro.

    Le cattive compagnie, è infatti il vincitore della prima edizione del Premio letterario Città di Dolianova (feb. 2013), un concorso ideato per scrittori emergenti, che non sempre riescono ad affermarsi attraverso i canali tradizionali. Lungi dal volersi improvvisare dei talent scouts, l’amministrazione comunale, grazie all’ausilio di una giuria, ha cercato di portare all’attenzione di qualche casa editrice sensibile gli scritti di alcuni autori esordienti e dopo aver terminato la lettura dell’opera di Vincenzo, non mi è difficile comprendere perché la Commissione l’abbia scelta.

    Il libro, presenta la classica struttura circolare, all’interno della quale sia apre un lunghissimo flashback che ripercorre gli anni giovanili del protagonista, caratterizzati dall’amore per Valeria e dalla passione politica, due elementi che lo accompagneranno nel passaggio dall’adolescenza all’adulta. Il tema del passaggio, o per meglio dire del cammino, segna la traiettoria percorsa dal racconto, e lo stesso viaggio, intrapreso da Lorenzo dai suoi amici a bordo di una roulotte, non è altro che la metafora del tragitto che ciascun personaggio dovrà compiere per ritrovare se stesso.

    Gli ambienti cagliaritani, il Bastione, il mercato di via Quirra ed il quartiere San Michele, vengono sapientemente descritti attraverso le persone che li abitano, lo stesso accade con il collettivo studentesco e con il circolo del partito, dove Lorenzo incontrerà i suoi compagni di ventura. Dal finestrino della roulotte, che attraversa la Sardegna da un capo all’altro, scorrono le immagini di paesaggi piuttosto variegati, espressione di un territorio rurale, segnato dalla povertà e dalla arretratezza, in netto contrasto con la vivacità della vita cittadina. Non mancano infine i riferimenti agli eventi più recenti della storia d’Italia: il G8 di Genova e quello dell’Aquila, irrompono nella storia narrata e nelle vite dei protagonisti, ancorandoli fortemente all’attualità.

    Un romanzo avvincente e ben costruito, un autore giovane, ma già capace di affascinare con il suo racconto, un piccolo gioiello che abbiamo cercato di valorizzare con il nostro concorso letterario, una goccia nel mare, un piccolo passo in una lunga strada.

    Assessore alla Pubblica Istruzione e Cultura

    Comune di Dolianova (CA)

    È sbagliato giudicare un uomo dalle persone che frequenta. Giuda, per esempio, aveva degli amici irreprensibili.

    ( Ernest Hemingway)

    Nessuno è nato sotto una cattiva stella; ci sono semmai uomini che guardano male il cielo...

    (Dalai Lama)

    In tre parole posso riassumere tutto quello che ho imparato sulla vita: si va avanti.

    (Robert Lee Frost)

    PROLOGO

    Aspetto in questo bar oramai da qualche ora. L’appuntamento era stato fissato per le diciassette, Piazza d’Armi, Bar Europa, ma l’inquietudine ha sconfitto la volontà. Alle quattordici in punto ho chiesto il mio primo caffè, poi ho ordinato una birra, poi un altro caffè, altra birra, infine è arrivato il turno della vodka. Queste bevande sembrano clessidre, le bevo lentamente centellinando ogni sorso, osservando con attenzione la perfezione delle linee superficiali. Di tanto in tanto ascolto il giornale radio: la crisi politica e quella delle borse, episodi di razzismo nella periferia romana, lavoratori licenziati sminuiscono i sindacati, un popolare regista televisivo commenta con sarcasmo l’avanzata del cinema indiano. Ascolto osservando il vuoto, talvolta sorrido, altre volte mugugno, in sintonia con le notizie riportate dalla chiara voce del giornalista meridionale... I camerieri intanto mi osservano con delle occhiate che stazionano tra il preoccupato ed il compassionevole. Si avvicinano con la massima circospezione, mormorano tra loro, si scambiano occhiate eloquenti, un’adolescente (forse la figlia del padrone) mi studia di soppiatto protetta dal barattolo delle liquirizie. Il mio aspetto non è dei migliori: il periodo trascorso in carcere si fa sentire sulla pelle, e soprattutto sullo sguardo. Non posso tuttavia nasconderlo neanche a me stesso, in queste situazioni provo un malsano orgoglio. Nella mia precedente esistenza avevo sempre desiderato trasformarmi in una figura inquietante, ed una serie d’indizi mi suggeriscono che ci sono riuscito. Un’ispida barba è cresciuta sulle guance, nascondendo il viso quasi adolescenziale. Qualcuno potrebbe pensare che ho trenta, trentacinque anni, ma ne ho molti meno, e portati nel modo peggiore possibile.

    Sfoglio distrattamente un quotidiano, poi l’abbandono vinto dal consueto pessimismo. Non più distratto dalla cronaca controllo le tasche del giaccone, come se contenessero le risposte che non riesco a trovare. Lei verrà all’appuntamento? Mi vorrà ancora? Mi avrà perdonato? Non so cosa farò se dirà di non volermi più. Nei momenti di sconforto ho considerato questa possibilità, ma la mente la evita come un fosso sulla carreggiata. Quando ho letto la sua mail sono stato assalito dall’angoscia, le mani hanno iniziato a gesticolare sulla tastiera, non sapevo nemmeno se fosse opportuno risponderle o presentarmi all’appuntamento. La paura di perderla è come un cappio pronto a stringersi sulla gola, un lasciapassare gratuito verso una notte da incubo. Sino ad oggi una lieve speranza mi ha tenuto in vita, e se questa dovesse abbandonarmi non saprei come reagire.

    No, basta, devo allontanare quest’atteggiamento disfattista e passivo! Non può finire così, lei mi ama, mi ha sempre amato...Oppure no? Chissà... Forse ha recitato una parte per coinvolgermi in un’insensata messinscena, dando sfogo ad una degenerazione partorita dalla sua mente contorta! In questo caso saprò sostenere il peso del rifiuto, quando deciderà di strapparsi la sua maschera da commediante? Bene, benissimo, incasserò senza battere ciglio, non avrà un briciolo di soddisfazione. Si, proprio così, nessuna soddisfazione... Ma non posso considerare seriamente questa possibilità, perché non è interessata a queste puntate, non essendo capace di accogliere forme di vanità. Non sbandiera un ego estetico da soddisfare, e non cerca conferme alle sue insicurezze, che affondano le radici nelle profondità della sua psiche. Lei è cresciuta contorta come una vite americana, ma nel tempo il dolore l’ha trasformata in un macigno impossibile da scalfire. Le sue decisioni sono irrevocabili, le sue ostinazioni salde come le mura di un castello, la sua caparbietà pari a quella di un kamikaze deciso a schiantarsi su una portaerei nemica. Non posso sperare di resuscitare la sua vanità, come non posso sperare in un dialogo con la sua compassione: vani tentativi, come lanciare sassi in uno stagno sperando che galleggino.

    Nonostante tutto, nonostante impressioni e riflessioni pessimiste, anch’io voglio essere caparbio nelle mie illusioni, e resisterò sino a quando la candela non sarà spenta dall’ultimo alito di vento. Non posso e non voglio immaginare la mia vita senza di lei, non riesco a vedere nulla oltre noi due. La mia mente ha resistito al carcere, ma non sopporterà quest’ulteriore prova. E’ come se mi avesse stregato: nella notte appare nei miei sogni, durante il giorno la riscopro in ogni oggetto o luogo, tutto la riguarda, tutti mi parlano di lei. Talvolta maledico il giorno in cui ci incontrammo, mi sbraccio ed urlo contro il cielo, ma quando ricordo il suo viso, la linea del suo sorriso, ogni tentativo ha la stessa consistenza di un’onda marina. Aspetterò in questo bar ancora cinque minuti, ancora un’ora, forse due... Ma che dico? Sono pronto ad attenderla per tutta la vita.

    I. VALERIA.

    Era una mattina di fine Settembre, ed i bagagli erano già sistemati sul letto. Avevo avuto serie complicazioni a chiudere definitivamente le valige. Ogni volta sentivo di aver dimenticato qualcosa di decisivo, come se la mia vita dipendesse dalla presenza di una maglietta o di un qualsiasi evidenziatore. Avevo forzato decisamente gli spazi, le eleganti Roncato sembravano due donne in attesa del parto, abbandonate sui lettini operatori da ostetriche e mariti negligenti. Fortunatamente i miei genitori avevano deciso di accompagnarmi, anche se mio padre odiava guidare e mia madre non intendeva compiere un viaggio così faticoso. Pensai di far leva soprattutto sulla loro emotività, in quei giorni difficilmente mi negavano qualcosa. Stavo per inaugurare gli studi universitari, mi trasferivo a Cagliari, e quell’evento aveva il suo significato...

    Il viaggio come consuetudine fu interminabile. Mio padre dava alla guida un ritmo eccessivamente rilassato, a cui non ero mai riuscito ad abituarmi. Il potente SUV non aveva nessuna funzione concreta, mi sentivo come il passeggero di un cacciatorpediniere sorpassato da una mongolfiera condotta da ultracentenari. Le lamentele non servivano a nulla, proseguiva come un comandante di fregata deciso a sacrificare l’equipaggio per una stupida ripicca. Una sua improvvisa frase ruppe tuttavia il susseguirsi continuo di montagne, piccoli rettilinei e curve, spezzando quella dannata filastrocca di frenate.

    Per carità, smettila, non sta andando al fronte... A che punto siamo arrivati!

    Mi voltai verso il sedile posteriore, ma già conoscevo il motivo di quelle parole. Mia madre stava piangendo, come solitamente accadeva in queste occasioni.

    Dai mà, non puoi fare ogni volta così...

    Lo so, ma sei solo un bambino...

    Lo prometto, ti telefonerò ogni giorno...

    Dici sempre così, ma poi non chiami mai... Mi rispose asciugandosi gli occhi.

    Mi risistemai sull’ampio sedile, e continuai a farmi violentare dalla scriteriata guida di mio padre. Lo stereo ripeteva stancamente un pezzo di Francesco Guccini, che proiettava mio padre nei suoi anni giovanili e destinava la mia mente a percorrere utopistici scenari politici. Già, la politica...

    Riflettendoci con maggior ponderazione, e nonostante la stessa politica sia stata la mia rovina, provo ancora un immenso orgoglio per le scelte che ho fatto. Tutto cominciò durante i convulsi anni delle superiori, con l’arrivo nella nostra classe del professor Luciarnaschi. Il precedente professore di storia e filosofia, il signor Diana, aveva raggiunto la pensione dopo quarant’anni di onestissima carriera. Per alcune settimane non arrivò nessun supplente infine, in una qualsiasi mattina di Ottobre, il bidello ci comunicò il nome del nostro nuovo insegnante: Antonio Vladimiro Luciarnaschi. Avrebbe cominciato l’indomani mattina, ed il Preside ci confermò che la pacchia era finita, con lo stesso ghigno di un direttore carcerario sadico, che aveva appena comunicato la conclusione di ogni misura alternativa all’interno del penitenziario.

    Il giorno successivo la classe attendeva con trepidazione l’arrivo dell’insegnante. Di solito giungeva qualche sporadica informazione sui nuovi professori, ma del professor Luciarnaschi non riuscimmo a scoprire nulla. Il bidello Puddu (per altro un bugiardo cronico) ci disse che forse era romano, ma che fosse romano, aostano o greco a noi non importava un fico secco. Non restava che scoprirlo coi nostri occhi, e le aspettative furono ripagate con la migliore moneta possibile. Arrivò vestito in maniera tale da ricordare un bracciante calabrese degli anni trenta: indossava un paio di larghi pantaloni in velluto, un maglione altrettanto largo e sformato ed un paio di stivaloni che richiamavano alla mente gli anni più bui del novecento. Ad accentuare la sua figura trasandata era l’ispida barba da tunisino ed i capelli tagliati in maniera sbilenca ed approssimata. Noi lo scrutammo sbalorditi e lui, accortosi del nostro stato d’animo, ci squadrò dal primo all’ultimo con le mani sui fianchi.

    Bhè, cos’avete da guardare? Sedutosi sulla cattedra, incrociò le mani e serrò leggermente le palpebre. Qual è il vostro libro di storia? Disse infine con uno strano sorriso sulle labbra.

    Il Villari, rispose Elena, la mia diligente compagna di banco.

    Benissimo! Commentò lui dando un violento pugno sulla cattedra. Quei farabutti del Ministero non sono riusciti a farlo fuori! Aprite immediatamente a pagina 222!

    A pagina 222, guarda caso, c’era il capitolo dedicato alla Rivoluzione del 1917. Un alunno gli fece notare che non eravamo arrivati a quella parte del programma, ed erano tanti gli importanti eventi che dovevamo ancora trattare. Il professor Luciarnaschi lo guardò con sospetto, abbellito da un pizzico di malcelato disprezzo. Continuò a fissarlo per qualche secondo, come se volesse cancellare la sua coscienza ed impiantargliene una nuova, grazie ad un oscuro esercizio d’ipnotismo orientale.

    Per fortuna il professore sono io e non tu. Avanti somaro, leggi, ed ascolta come il popolo sopravviveva al tempo degli zar!

    Sin dal principio a tutti furono chiari i suoi intenti. Il suo proposito non era quello d’insegnarci i capisaldi della storia, od i fondamenti della filosofia. Il suo intento era quello di trascinare i suoi alunni nella personale lotta contro il mondo capitalistico. Acquisì la certezza di queste ipotesi quando convocò alcuni di noi nella sua abitazione, un appartamento cadente collocato in una via secondaria del paese. Ci fece accomodare con gentilezza nel salotto, un luogo dove pile di libri, giornali e disordine erano gli unici e silenziosi ospiti. Quindi ci versò del vino (erano le sei del pomeriggio), e mentre si fregava la barba pronunciò un discorso sul comunismo e sulla secolare lotta degli sfruttati contro gli sfruttatori.

    O dalla parte dei lavoratori, o dalla parte dei padroni, si tratta di scegliere belli miei...

    Quando qualcuno mangia troppa torta, altri restano senza...

    Il capitalismo annienta la nostra personalità, trasformandoci da essere pensanti in consumatori...

    A queste prime frasi, chiare come un pugno sui denti, ne seguirono molte altre. Il comportamento del professore mutava man mano che il discorso prendeva forma, la sua voce diventava più profonda, i suoi occhi si tinteggiavano di rosso. Sembrava sempre sul punto di scoppiare, utilizzava un linguaggio semplice e diretto per farci cogliere dei concetti altrimenti sfuggenti. Quando uscimmo dall’appartamento eravamo stravolti dal vino e dalle parole, che roteavano impazzite nelle nostre menti confuse. Certo, eravamo dei ragazzi mediamente intelligenti, ma non abbastanza interessati a simili argomentazioni. Io, Attilio e Marco giocavamo a calcio, gironzolavamo per i bar e quando andava bene uscivamo con qualche ragazza. I nostri ragionamenti riguardavano l’Inter o la squadretta del paese, e per alcune settimane le infuocate frasi del professore ci lasciarono del tutto indifferenti. Più che altro eravamo sbalorditi da quel fiume di parole, ed ascoltavamo i suoi monologhi più per divertimento che per interesse. Per noi si trattava di uno spettacolo inusuale, come assistere ad una processione clericale composta da clown, saltimbanchi e soubrette. La metamorfosi, tuttavia, non tardò ad arrivare, e cominciammo a discutere degli argomenti, informandoci con sempre maggiore attenzione. Attilio e Marco non tardarono a frequentare un gruppetto di anarchici dei paesi vicini. Si organizzarono riunioni negli scantinati o, nei periodi caldi, nei prati in aperta campagna. Commentavamo dei libri che trattavano di questa o quella guerriglia, familiarizzavamo con le figure dei grandi rivoluzionari. Osservando con distacco questi episodi, sorrido ricordando gli enormi sforzi per comprendere almeno una parte di quei ragionamenti, che cercavamo di esporre durante assemblee senza capo né coda. Eravamo come dei piccoli romantici alchimisti alla ricerca di una composizione chimica che ci rendesse onnipotenti.

    Ricordo in particolare una riunione organizzata a casa di Attilio, e nata sotto i migliori auspici. Erano stati invitati alcuni compagni dei paesi vicini, anarchici conosciuti più per il bizzarro abbigliamento che per le convinzioni politiche. Uno di loro, che si faceva chiamare "Geppo, aveva i capelli lunghissimi, ma così lunghi che riusciva a morsicarli. La circostanza provocava il nostro disgusto, ma quel gesto era come un rituale magico per catturare la nostra attenzione. L’assemblea fu introdotta da Ines, una ragazza del paese che frequentava un’altra scuola sicuramente più politicizzata della nostra. Se non ricordo male il suo intervento era basato sulla concreta" possibilità di esportare la Rivoluzione Zapatista in Sardegna, e nonostante le sue argomentazioni fossero idiozie colossali, l’intero gruppo rifletteva con attenzione. Non appena Ines concluse il suo

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