Kurrem: La rosa dell'harem
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About this ebook
Salvatore Barrocu nasce a Tula (SS), dove è tornato a vivere dopo una vita vissuta tra Cassolnovo (PV) e Torino. Dopo lunghi anni di studi storici e ricerche archeologiche, lasciato il lavoro sul campo, si dedica alla sua passione di una vita: la scrittura. Questo è il suo secondo romanzo, rigorosamente frutto di accurate ricerche storiche.
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Book preview
Kurrem - Salvatore Barrocu
Prefazione
L’inizio della fine
Il Figlio
Rossellana
Un fiore in mezzo al grano
Un destino tra le sbarre
Il mercato degli schiavi
Ritorno a Edirne
Zulema, la Sultana dell’Harem
Il destino di una concubina
Tra Morte e Speranza
Mahi Debran Gulbahar
La prima di mille notti
La scelta dell’uomo
La nascita dell’odio
Moglie
Gli anni felici
Ibrahim
Le premesse del complotto
Rustem Pascià
Mustafà
Gulbahar
Roxane
Amhed Hadim
Solimano
Il vero traditore
Si compie il destino
Le conseguenze di un crimine
L’innocente
Non esiste la pace
Gli ultimi giorni
La fine dei giochi
SALVATORE BARROCU
KURREM
LA ROSA DELL’HAREM
Salvatore Barrocu
Kurrem
- la rosa dell’harem -
Proprietà letteraria riservata
l'opera è frutto dell’ingegno dell'autore
© 2014 Edizioni AmicoLibro
Via Oberdan, 2
75024 Montescaglioso (MT)
www.amicolibro.eu
info@amicolibro.eu
Prima Edizione
finito di stampare nel mese di gennaio 2014
A Chiara, figlia del cuore, che non ha bisogno di arti
nascoste per raggiungere il successo
Prefazione
Questo libro è stato scritto per raccontare la storia di una donna.
La Storia, quella con la S maiuscola, ce la racconta bella, intelligente e intrigante, in un periodo, il 1500, dove queste doti portavano lontano. Specialmente nell’Europa Orientale che oggi rinneghiamo, ma che, in quel secolo, legava la sua esistenza a quella dell’Occidente Cristiano, confrontandosi con esso in mille modi.
La guerra, il pensiero religioso, la scienza, in questi campi le due civiltà si incontravano, influenzandosi e creando quella che, nel bene e nel male, sarebbe stata la nostra Europa, che oggi cammina zoppa perché ne rifiutiamo una metà.
Lo scontro diventava incontro, quando centinaia di migliaia di cristiani ed ebrei, fuggendo l’oppressione, l’Inquisizione e la povertà, avevano una sola meta: Istanbul, la Mela Rossa, la città che tutti accoglieva e che dava la possibilità di dimostrare il proprio valore.
C’era chi rinnegava la fede e il Paese in cui era cresciuto per abbracciare il nuovo credo che gli offriva una vita libera e dignitosa, o chi pagava per mantenere le proprie credenze, e veniva protetto dalle leggi del Sultano, prosperando nei quartieri di pietra della vecchia Costantinopoli, sempre bisognosa di artigiani capaci, banchieri esperti, mercanti intraprendenti.
Ma c’era anche chi, rapito dalla propria terra, doveva cercare di sopravvivere in un mondo ostile, vivendo da schiavo una vita intera, sperando di essere riscattato.
Questa è la storia di una piccola donna, che da schiava divenne la donna più potente dell’Impero Ottomano.
Se per raggiungere il suo scopo usò l’inganno, il tradimento, l’intrigo, non giudichiamola male.
Il tempo in cui viveva era ricco di inganni, tradimenti, intrighi e lei fu figlia perfetta di un tempo imperfetto.
L’inizio della fine
La tenda del Sultano sorgeva ai bordi dell’accampamento come fosse un corpo estraneo, in quell’esercito pronto alla guerra.
Aleppo era una cittadina accogliente anche in quel periodo dell’anno, base ideale per radunare gli eserciti da scagliare contro la nemica Persia.
Le notti profumavano di sabbia e limone, di cedro e legna bruciata.
I rumori sembravano attutiti dal manto nero della notte, che tutto ricopriva.
Nonostante le armate del Sultano potessero accamparsi entro le mura, nelle bianche case della città, preferirono allestire un accampamento poco fuori le fortificazioni.
Mille fuochi simulavano, nel buio, la fredda chiarezza delle stelle, come se la terra fosse lo specchio dove si rifletteva il cielo.
In quella città provvisoria, che sarebbe scomparsa come un miraggio appena l’esercito si fosse mosso, le tende degli ufficiali erano sorte in mezzo a quelle più basse dei soldati, frammiste a esse, come torri tra le basse case di una città.
La tenda di Mustafà, figlio del Sultano Solimano il Legislatore detto il Magnifico, comandante di tutto l’esercito fino a pochi giorni prima, era la più grande di tutte e occupava il centro esatto del caotico castro.
Il Sultano era arrivato solo da un giorno, con poca scorta e si era accampato in mezzo alle milizie della provincia, vicino alla gente di Timariotti che era ben lontana dalle beghe di Istanbul. Non voleva farsi notare troppo.
Per questo fece levare una tenda che sembrava dimessa se confrontata con quella del figlio.
Non aveva voluto altri onori che quelli necessari alla sua dignità, accettando il saluto formale degli ufficiali e assistendo all’adunata generale del formidabile esercito.
Sbrigate queste procedure necessarie, si era ritirato nella sua tenda, senza ricevere più nessuno, fino alla sera.
Fate venire Mustafà!
ordinò, una volta sistemato.
Tutto il lusso che non traspariva all’esterno, perché avrebbe potuto attirare le attenzioni dei suoi mille nemici, era stato riversato nell’arredare l’interno di quella che, in tempo di guerra, era la casa del Sultano.
Tappeti finemente intessuti coprivano la nuda terra per uno spessore adeguato.
Tende di ordito di Damasco coprivano ogni centimetro della robusta tela del padiglione arredato con preziosi mobili di ebano, intagliati dai migliori artigiani del vasto Impero, in tutte le cinque sale in cui era diviso.
Nella prima sala di quel palazzo precario c’erano le bandiere e le insegne del Sultano, i suoi paggi e le guardie; nella seconda, un trono e le guardie Mute del Protettore della Fede.
Il Figlio
Mustafà era tranquillo
Nella sua tenda, una reggia nel centro perfetto dell’imponente accampamento, ascoltava il messo mandatogli dal padre, seduto su un cumulo di cuscini.
Il tramonto era trascorso da diverse ore, e l’eco dell’ultima preghiera del giorno si era spenta insieme ai raggi del sole.
In pace con se stesso, dopo essersi prostrato in direzione della Mecca, attendeva proprio l’invito del Padre, che lo aveva apertamente ignorato, nella cerimonia che aveva seguito il suo arrivo.
Tempo prima aveva accolto nello stesso luogo e con lo stesso atteggiamento i messaggeri di Rustem Pascià, il Gran Visir che era venuto a togliergli il comando dell’esercito.
Comando che aveva ceduto senza protestare, nonostante i suoi amici e ufficiali si fossero lamentati con lui e con lo stesso Gran Visir.
Aveva declinato l’invito a presentarsi, solo e disarmato, al cospetto di un misero funzionario, anche se questo era il numero due nella gerarchia dell’Impero e aveva sposato la figlia di suo padre e della cagna rossa che tanti guai aveva causato sia a lui che a sua madre.
Però, se l’ordine del Visir poteva essere sprezzantemente rifiutato, quello del padre non poteva essere disatteso se non ribellandosi apertamente al suo potere di sovrano e ripudiando l’affetto che albergava nel suo cuore.
No, avrebbe obbedito al padre e anche al Sultano: oltre che figlio affettuoso, era un suddito fedele.
Mustafà era un bell’uomo. Assomigliava al padre per altezza e conformazione del corpo, ma aveva preso dalla madre la dolcezza dei tratti del volto, i capelli quasi biondi e il nocciola chiaro degli occhi; Lei era la bella nobile Circassa Mahidevran, o Gulbahar, come l’aveva chiamata il Sultano quando ancora era solo un Principe, a Manisa, e aspettava che si compisse il proprio destino all’ombra del suo padre.
Fin da ragazzo aveva cercato di indurire i tratti del bel volto lasciandosi crescere una rada barbetta che, a suo dispetto, stentatamente copriva il mento e il labbro superiore.
Chiunque lo guardasse, comunque, anche senza notare gli abiti lussuosi e le armi che indossava, lo avrebbe giudicato un Principe.
E lo era, Principe, non solo per il sangue del Sultano che gli scorreva impetuoso nelle vene, ma anche per la nobiltà dei sentimenti e la grandezza delle azioni.
Governava, infatti, la provincia di Amasya con giustizia e tolleranza, circondato dal rispetto dei sudditi, e comandava gli eserciti del Sultano con perizia, coraggio e spirito di sacrificio, tanto da essere amato persino dagli incontentabili Giannizzeri, che lo avevano eletto a loro beniamino.
Perciò era tranquillo, Mustafà. Nel suo accampamento non poteva succedergli