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L'Anno
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L'Anno

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About this ebook

«Avevo vent'anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita» scriveva Paul Nizan nel lontanissimo e tragico 1926 come incipit al suo Aden Arabie.

Io invece penso l’esatto contrario. Penso che l'adolescenza sia l'età più bella perché ti accorgi di vivere. Il mondo si allarga d'un tratto, un nuovo libro da leggere in pochi giorni, la prima volta di tutto. L'adolescenza va ricordata e raccontata. Io ho voluto farlo con questo libro.

Il comunissimo adolescente che ne è protagonista potreste essere voi. Anche se ora siete adulti, o vecchi: rivivrete com’eravate. O vi riconoscerete, se siete a vostra volta adolescenti. Dovrete soltanto non fermarvi alla prima pagina per entrare nella storia. Perché questo è un “romanzo” vero, col mistero di una madre scomparsa, una tragedia in cui il protagonista rischierà di perdersi. E quante volte ci siamo persi? Quante volte abbiamo avuto un momento buio da cui credevamo di non poter uscire?

Ho voluto raccontarvi l’anno che ha segnato la vita del mio protagonista. L’anno che gli aprì gli occhi, lo fece soffrire e sorridere. Un anno pieno di gioie, paure, insicurezze. Un anno che lo fece crescere.

Per questo l’ho intitolato, semplicemente, L'Anno.
LanguageItaliano
Release dateOct 11, 2015
ISBN9788892505506
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    L'Anno - Lorenzo Guaraldi

    Lorenzo Guaraldi

    L'Anno

    L'Anno © Lorenzo Guaraldi 2015

    ISBN: 978889250xxxx

    UUID:

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write (http://write.streetlib.com)

    un prodotto di Simplicissimus Book Farm

    Indice dei contenuti

    PRIMAVERA

    I

    II

    III

    IV

    V

    VI

    VII

    VIII

    IX

    X

    XI

    XII

    ESTATE

    XIII

    XIV

    XV

    XVI

    XVII

    XVIII

    XIX

    XX

    XXI

    XXII

    XXIII

    XXIV

    AUTUNNO

    XXV

    XXVI

    XXVII

    XXVIII

    XXIX

    XXX

    XXXI

    XXXII

    XXXIII

    XXXIV

    XXXV

    XXXVI

    INVERNO

    XXXVII

    XXXVIII

    XXXIX

    XL

    XLI

    XLII

    EPILOGO

    PRIMAVERA

    LORENZO GUARALDI

    Ringraziamenti

    Una Vita senza sogni è morta. Un Sogno senza vita è irraggiungibile. Una vita ricca di sogni e un sogno ricco di vita faranno in modo che il tuo domani ti sorrida.

    PRIMAVERA

    Ciò che è storto non si può raddrizzare

    e quel che manca non si può contare. 

    (Qoèlet, 1,15)

    I

    Mi svegliai.

    Le foglie degli alberi erano mosse dal vento, Tigella abbaiava in giardino e gli uccelli cantavano, come se quel giorno si fossero messi d’accordo per formare un coro. Si sentivano pettirossi, cinciallegre, merli ed io ero l'unico presente a quello spettacolo. Mio padre era in ufficio mentre i miei fratelli rischiavano di addormentarsi sui banchi di scuola o seguivano lezioni noiose. Io, invece, ero a casa da solo. La febbre era calata ma la testa mi faceva ancora male, era pesante e non voleva collaborare. Anche se erano già le nove, mi sentivo molto stanco e decisi di rimettermi a letto, magari a leggere qualcosa. Avevo appena terminato Avevano spento anche la luna di Ruta Sepetys e avevo iniziato da pochi giorni Storie di ordinaria follia di Bukowsky.

    Leggere era la mia grande passione. Per me i libri erano una droga. Leggevo, leggevo, leggevo. Passavo da un libro all’altro, non avevo generi preferiti. Mi rilassava, viaggiavo, vivevo una vita diversa dalla mia. Entravo nella storia, mi trasformavo in Peeta, in Leo, in Bilbo, mi tuffavo nell’avventura, affrontando i pericoli e incontrando grandi amori.

    I libri m’insegnavano molto, mi aprivano la mente, io e la storia diventavamo una cosa sola.

    Gli altri avevano come hobby i videogame, lo sport, le ragazze.

    Io invece avevo la lettura.

    La lettura era il mio sport, il mio videogame, la mia compagna in mille momenti della mia vita.

    Lessi per tutta la mattina anche se gli occhi chiedevano di riposare e il corpo di alzarmi e prendere una boccata d’aria. Lessi fino a quando non sentii mio padre entrare in casa, chiudersi la porta alle spalle, venire in camera mia per dirmi che dovevo preparare il pranzo, con voce stanca e spezzata, come al solito.

    -Apparecchia, io vado a fumare in giardino- appoggiò le sue cose e se ne uscì con occhi spenti e la sigaretta accesa, trascinandosi all’aria aperta. I capelli erano scompigliati, unti, grigi non per l’età ma per la tristezza. Era magro, le guance scavate e ricoperte da una barba incolta. Lo vidi arrivare in mezzo al giardino, sedersi tra l’erba e fumarsi la sua preziosa Marlboro. Mio padre aveva sempre odiato le sigarette. Non ne capiva il senso: perché comprare qualcosa che uccide? Ma ci era cascato lo stesso, in trappola come un pesce che abbocca all’amo. Aveva perso l’amore e aveva comprato le sigarette per colmare il vuoto che aveva dentro. Così credeva che bisognasse fare.

    Iniziò a fumare quando mamma ci lasciò. Io ero solo un bambino ma la sua immagine era ancora chiara nella mia testa. Una bella donna che, per qualche motivo sconosciuto, se n’era andata chissà dove. A quest’ora poteva avere un altro uomo o essere morta, chi lo sapeva. Ne parlavamo poco in famiglia, mio padre non ne voleva più sapere e mia sorella Agata, la più grande di noi, ne aveva così tanto risentito che adesso mostrava una certa indifferenza nei nostri confronti, come se volesse scaricare l’odio per mamma su di noi. Non la sopportavo, io e mio fratello Giacomo per lei non eravamo nulla. Eppure era mia sorella, anche se mi sembrava una sconosciuta.

    Eravamo già a tavola quando Giacomo ci raggiunse rompendo il silenzio che c’era spesso in quella casa. Aveva il viso ben definito, occhi scuri e capelli color carbone, lunghi, un ciuffo che gli copriva la fronte. Mi alzai e lo salutai con il nostro solito saluto. L'avevamo inventato una domenica mattina, ispirandoci a un film di cui non ricordo il nome. Io e Jack (così si faceva chiamare) eravamo molto legati, forse perché ci separava solo un anno di differenza. Insieme a lui avevo trascorso momenti indimenticabili, come quella volta che c’eravamo svegliati all’alba per cavalcare, ma anche periodi difficili, come la scomparsa di mamma, causa spesso di alcuni nostri litigi. Ma sono proprio questi che hanno reso possibile un rapporto forte, resistente e duraturo come il nostro.

    Frequentavamo il liceo classico Muratori a Modena, io ero al terzo e lui al quarto anno e spesso ci aiutavamo a svolgere la marea di compiti che i professori ci assegnavano. 

    Era un ragazzo semplice, amante del calcio, tanto da passare più ore nei campi da gioco che a casa.

    -Fatto qualcosa di nuovo a scuola?- chiese papà.

    -Niente di che... - era la sua solita risposta e di nuovo silenzio. Erano così i nostri pasti: difficilmente qualcuno parlava, ognuno era perso nel suo mondo.

    Stavo guardando il vuoto quando Agata incominciò a discutere con mio padre degli ultimi avvenimenti mondiali. A volte si sentiva il bisogno di rompere quell’atmosfera imbarazzante e qualcuno faceva il primo passo. Quel giorno lo fece mia sorella. Parlarono per pochi minuti, come se non volessero sprecare la voce, riguardo la guerra civile in Siria di cui tutti i telegiornali parlavano. Non ci avevo capito molto, sapevo soltanto che alcuni siriani si erano stancati dello strapotere del loro governatore e avevano tentato di ribaltarlo. Finita la chiacchierata, di nuovo silenzio finché non m’intromisi anch’io.

    -Ma papà, perché non fa niente?- chiesi.

    -Chi?-

    -Dio- indicai il cielo. Mio padre mi guardò perplesso, riflettendo.

    -Perché non fa qualcosa invece di restare a guardare? Potrebbe renderci la vita molto più facile-

    -Non lo so- rispose sollevando le spalle. Una risposta spenta, adatta a quell’uomo distrutto. A volte pensavo che per lui fosse una fatica risponderci perché ci liquidava con spiegazioni superficiali e frettolose. Oppure la colpa era mia, che mi piaceva fare domande di quel genere, che mi restituivano risposte vaghe, difficili o lunghi silenzi. Ma a volte non c’è altra risposta che il silenzio.

    Finito il pranzo, ognuno di noi si ritirò nelle proprie camere aspettando la cena per rivedersi. Salii le scale fischiettando un motivetto che mi era rimasto in testa quando alle spalle qualcuno mi afferrò e mi buttò sul divano.

    -Vuoi le botte?- scherzò Jack.

    -Mi sa che le avrai!- risposi lanciandogli un cuscino in pieno viso.

    Iniziò così un altro dei nostri combattimenti. Spesso erano per noi una valvola di sfogo, un gioco, un modo per scaricare la tensione. Jack mi saliva sopra e mi teneva fermo ma, dopo essermi divincolato più volte, le posizioni si cambiavano. La sequenza era sempre la stessa finché qualcuno, troppo stanco per continuare, non cedeva. Quel giorno, forse perché mi ero appena ripreso dalla malattia, persi miseramente. Dopo questi combattimenti scoppiavamo a ridere e ci scambiavamo uno sguardo complice e qualche colpetto finale sulla spalla dell'avversario.

    II

    -Adesso greco- dissi quando mi chiusi in camera, come avevano fatto già tutti gli altri. Avevo aperto il libro e avevo iniziato a tradurre qualche semplice frase nonostante il mal di testa non mi desse tregua. Greco era una delle poche materie che studiavo volentieri. Quegli scarabocchi m’insegnavano a interpretare meglio il mondo, a scoprire le morali che la mitologia celava e mi facevano sentire parte di un vastissimo progetto che sembrava non avere fine. Ero affascinato dal loro pensiero e da come, con quattro parole, riuscissero a spiegare concetti complicati.

    -La generazione degli uomini è come le foglie- continuavo a rileggere la citazione di Omero.

    -Come le foglie... -

    Immaginai un bosco dove l'umanità intera passeggiava tranquillamente. Foglie verdi, il sole alto in cielo, il profumo dei primi fiori. C’eravamo pure io e Jack con i nostri amici all’ombra di una quercia quando improvvisamente feci arrivare le piogge, i venti e il freddo che fecero rinsecchire il fogliame. Lo stesso accadeva a ogni singola persona che invecchiava, s’indeboliva, si ammalava. Mio padre era come queste foglie gialle: secco, fragile, bastava un soffio per farlo cadere a terra. Immaginai anche la neve di metà Gennaio ed ecco le foglie cadere e con loro cadere anche gli uomini. Gli alberi si erano spogliati di colpo e nessuno faceva più un picnic con gli amici, ascoltava la musica o incideva nella corteccia di qualche albero l’iniziale della sua anima gemella. Avevo spento il bosco quando, a un tratto, la mia mente fiorì. Ritornò la primavera! Gli alberi avevano di nuovo le belle chiome, la linfa scorreva vivace nelle loro fibre, alcuni mostravano già i primi frutti maturi. Immaginai centinaia e centinaia di persone che scherzavano, giocavano e ridevano insieme. C’era pure la mia famiglia al completo con papà e mamma abbracciati, Agata che mi scompigliava i capelli e Giacomo che faceva lo stupido.

    -Forse è così che dovrebbe andare... - sospirai. -Vivere per sempre la primavera invece di un inverno perenne-

    -Muoviti! Ti sto aspettando!- era Jack che mi chiamava. Era da ore che studiavo e scienze poteva aspettare: lasciai il libro aperto sulla scrivania e percorsi tutto il lungo vigneto verso la stalla. Giacomo aveva già preparato i cavalli: strigliati, spazzolati, la sella sembrava messa correttamente sul dorso.

    -Vedo che impari in fretta- gli dissi.

    -Grazie al mio maestro-

    -Modestamente- affermai sorridendo. Mi avvicinai a Chocolate, il mio cavallo, e gli sussurrai all’orecchio. -Dobbiamo vincere, bello. Oggi Jack mi ha già sconfitto una volta- scalpitò, come se avesse davvero capito le mie parole. Gli diedi una zolletta di zucchero di cui era golosissimo.

    Era una fortuna abitare in campagna, lontano dalla vita cittadina troppo stretta e caotica per me. Avevo bisogno degli alberi che fin da piccolo mi avevano insegnato a dove mettere i piedi, di una grande giardino dove lasciare libero il cane, del vigneto dietro casa, dei profumi e dei mille colori che mi circondavano. Avevo bisogno soprattutto di spazio, di un vastissimo senso di profondità che mi diceva che potevo arrivare ovunque mi piacesse. E poi era comodo tenere i propri cavalli a casa, in una bella stalla, e non chiusi in un box più piccolo della nostra soffitta.

    Accarezzai più volte l’animale per tranquillizzarlo. Non vedeva l’ora di correre. Aveva il pelo liscio e corto, color nocciola e la criniera, lunga e ben spazzolata, era nera come i suoi occhi. Potevo sentire i muscoli del collo contrarsi a ogni singolo movimento, il ventre gonfiarsi ritmicamente quando respirava e il muso rettilineo e ben proporzionato era immobile. Era giovane e, a mio parere, più bello di Moon, il cavallo di Giacomo, un tempo di Agata quando ancora preferiva fare le cose che voleva lei a quelle che le venivano dette di fare.

    -Sei pronto?- mi sfidò Jack.

    Salimmo ognuno sui rispettivi cavalli e ci avviammo verso un campo che usavano praticamente solo per queste corse.

    La giornata era perfetta per una cavalcata. Il sole splendeva, l'aria fresca ci riempiva i polmoni e l'acqua, nel ruscello vicino, scorreva placidamente. Ci mettemmo in riga, cercando di tenere fermi i cavalli e controllando che tutto fosse a posto. Avevo una staffa più lunga dell’altra ma non lo dissi a mio fratello che non era mai stato pratico in queste cose. Mi adattai.

    -Tre... due... uno... - iniziai il conto alla rovescia.

    Poi uno sguardo.

    Un incoraggiamento.

    Un leggero colpo di talloni sui fianchi del cavallo.

    Partiti.

    Ero solo io e Chocolate. Il vento scompigliava la sua nera criniera, gli zoccoli battevano rapidamente, sempre più rapidamente sul terreno. Per la velocità a cui andavamo mi lacrimavano gli occhi, ma c'ero abituato anche se papà diceva sempre di non andare così veloci. Gli alberi accanto scorrevano, il suolo scivolava via e tutto girava come un vortice colorato. Sorpassai Giacomo proprio all’ultimo, un attimo prima di oltrepassare l’albero che ci faceva da traguardo. Tirai le redini e il vortice si placò. Avevo il fiatone.

    -Ho vinto... io... - dissi ansimando e Jack scosse la testa sconfitto. Legammo Chocolate e Moon a un albero per fargli brucare l'erba e riposare. Io e mio fratello ci sedemmo all'ombra di un pioppo a guardare il cielo. Qualche volta passava uno stormo di anatre che lo squarciava e si allontanava chissà dove, forse verso un laghetto nascosto.

    -Ma Jack, secondo te mamma dov'è?-

    Esitò prima di rispondermi.

    -Non saprei... ci ha lasciati da una decina di anni e non si è più fatta rivedere. Ma secondo me sta bene- almeno Jack non si limitava a due parole come nostro padre.

    -E perché ci ha lasciato?- chiesi.

    -Papà non l’ha mai detto. Forse per una lite o per un altro uomo- rispose perplesso mettendosi a posto il colletto della giacca. Jack non aveva problemi a parlare di mamma mentre papà non ne voleva sapere, era come se quell'argomento per lui fosse tabù, proibito, chiuso nel suo dolore. Mi fermai a guardare Giacomo che si era steso per terra a godersi un po’ di sole. A volte pensavo che nascondesse la verità su mamma, il motivo per cui era scappata e tutta la sua storia perché, quando ne discutevamo, abbassava lo sguardo, la voce gli s'incrinava e gesticolava spesso, cosa non tipica in lui. Ma come faceva Jack a sapere la verità? Impossibile, mi dicevo. L’unico che ne era a conoscenza era mio padre che però ti fulminava con un’occhiata quando ne provavi a parlare.

    -Non pensarci, non penso che tornerà mai- mi disse. Annuii, anche se non gli diedi retta.

    Con la testa persa nei propri pensieri, ritornammo sui cavalli e dopo aver costeggiato il ruscello, ci avviammo verso casa. Ormai era sera, le prime stelle erano macchie bianche su un foglio nero e gli uccelli avevano terminato la loro esibizione. 

    III

    La mattina dopo ero già a scuola, mi ero ripreso completamente dalla malattia e seguivo la lezione di filosofia senza troppi problemi. Il prof aveva appena iniziato il "mondo delle idee" di Platone quando entrò la preside. Era una signora alta con lunghi capelli biondi e raramente si vedeva a scuola. Incominciò a parlare frettolosamente, non aveva tanto tempo.

    -Buongiorno ragazzi- ci alzammo, come soldati che devono salutare il loro generale. -Sono qui per dirvi che quest’anno avrete un nuovo compagno di classe- tutti si scambiarono sguardi rapidi e ansiosi di scoprire chi fosse il nuovo arrivato. Si sentivano già i primi commenti.

    -Speriamo che sia figo- diceva Beatrice, la mia cotta alle medie. –Non c’è spazio per un altro qua dentro- si lamentavano i claustrofobici. –Io dico che si chiama Francesco- c’era chi scommetteva sul suo nome.

    -Date il benvenuto a Nicola Barbolini- lo presentò la preside.

    Vidi un bastone che tastava il pavimento, gli stipiti della porta poi le gambe dei banchi. Non so per quale motivo ma rabbrividii, forse perché non mi aspettavo niente del genere. Teneva il bastone un ragazzo non troppo alto, paffutello, con i capelli arruffati e con grandi occhiali neri che gli coprivano gli occhi. Il prof si alzò e, prendendo delicatamente Nicola per un polso, lo guidò al suo posto, in prima fila, vicino al muro. I miei occhi erano fissi su di lui. Si sedette e si presentò a tutta la classe. Gli tremava la voce, spesso si bagnava le labbra con la lingua e parlava velocemente, probabilmente per l'imbarazzo. L'insegnante gli chiese quale scuola frequentasse prima e Nicola rispose che aveva frequentato un classico in un comune vicino. Aggiunse che per motivi personali si era trasferito a Modena e sperava di trovarsi meglio nel nuovo liceo. Ci fu presentata anche la docente di sostegno e la lezione ricominciò.

    Non smettevo di guardarlo. Niente poteva staccare i miei occhi dal nuovo arrivato, neppure le battute del mio vicino di banco.

    -Sembra un tipo lungimirante ma questa volta ha preso una svista a venire al Muratori!-

    Nicola stava in silenzio e tastava velocemente la tastiera del suo computer. Era il più concentrato di tutti e prendeva appunti su Platone senza stancarsi e senza lamentarsi. Restò attento per tutte le cinque ore, ascoltando e rispondendo anche alle domande dei professori quando finalmente le lezioni terminarono. Ero già pronto per uscire, ma m’impietrii vedendo Nicola che cercava la sua penna caduta a terra e Leonardo, un rompicoglioni, che la calciò di proposito contro il muro. Nicola sospirò, sembrava abituato a simili episodi.

    Me ne andai senza intervenire.

    Arrivato a casa, mi lasciai cadere sulla sedia.

    Qualcosa non andava in me. Non aprii bocca a tavola, sgattaiolai in camera e mi sedetti sul davanzale della finestra, cosa che facevo spesso: lì sopra ascoltavo la musica, studiavo la campagna, leggevo qualche pagina ma soprattutto pensavo. E quel giorno i miei pensieri facevano male.

    Perché non lo avevo aiutato? Non perdevo l'autobus e non c’era neanche Jack ad aspettarmi, avevo tutto il tempo

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