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Contrappunti: Cagliari mi ha detto
Contrappunti: Cagliari mi ha detto
Contrappunti: Cagliari mi ha detto
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Contrappunti: Cagliari mi ha detto

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Contrappunti - Cagliari mi ha detto…
«Contrappunto: l’arte di combinare più melodie secondo determinate regole». Le melodie sono quelle degli autori, storie scritte dai cantieristi di “Fahrenheit 365”, il Cantiere di Scrittura Creativa aperto a Cagliari dal 2013, e le regole sono quelle imposte dalla comune pratica dello scrivere. Melodie come temi, istanti, impressioni poste sulle pagine anziché sullo spartito, variazioni di un sentire quotidiano che si fa trama e memoria.
Regole imposte dalle righe immaginarie di un quaderno anziché di pentagramma, da rispettare, da seguire, se non altro per poterle oltrepassare, controvertire. Tradotto in linguaggio letterario, il contrappunto è un’alternanza di stili e argomentazioni volti a creare un componimento vivace, mosso e al tempo stesso equilibrato, come in una composizione musicale, dove le diverse storie, parti autonome,
emergono coordinate, non subordinate, ad una voce principale, l’imperativo di mostrare. Un tutto che si compone di accenti differenti, esperienze diverse unite dalla forma del racconto, che enfatizza il personale modo di vedere e sentire, ma pur sempre un tutto.
LanguageItaliano
PublisherAmico Libro
Release dateMay 17, 2014
ISBN9788898738311
Contrappunti: Cagliari mi ha detto

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    Contrappunti - AA. VV.

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    AA.VV.

    CONTRAPPUNTI

    CAGLIARI MI HA DETTO

    AMICOLIBRO

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    AA.VV.

    Contrappunti

    Cagliari mi ha detto

    Proprietà letteraria riservata

    l'opera è frutto dell’ingegno dell'autore

    © 2014 AmicoLibro

    via Oberdan 2

    75024 Montescaglioso (MT)

    www.amicolibro.eu

    info@amicolibro.eu

    Prima Edizione digitale: maggio 2014

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    Prefazione

    Per scrivere storie brevi bisogna essere in grado di muoversi in uno spazio limitato: la sintesi è indizio di genialità. Saper raccontare una storia nel modo più conciso possibile riuscendo ad attrarre il lettore e a far rimanere nel cuore una storia senza farla sbiadire è l’abilità di chi scrive un racconto breve. Perché appunto, un racconto è una storia che si svolge in tempi rapidi e precisi, con un numero limitato di parole e di conseguenti immagini, con pochi personaggi.

    In quest’opera prima, c’è la volontà - nonché il tentativo - di incominciare un cammino, un percorso, che si indirizza in una strada libera e percorribile verso la scrittura.

    Diciannove ragazzi, un gruppo di studenti frequentanti un corso di scrittura creativa, che riescono a mettere in cantiere il loro lavoro, frutto di uno studio che ha liberato quel talento celato dietro alla passione.

    Come disse Gustave Flaubert: Scrivere è un modo di vivere. E non c’è modo migliore per vivere bene che poterne leggere tanti di racconti, soprattutto se ben scritti.

    Il primo, e il più sentito augurio a questi giovani autori, arriva proprio da parte della casa editrice AmicoLibro che ha deciso di credere nel loro talento e nel loro sogno: che questo lavoro possa essere l’inizio di un lungo e fruttuoso cammino per ciascuno di loro.

    Carmen Salis

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    Introduzione

    I pilastri su cui poggia lo scrittore sono quattro: la comunicazione, la condivisione, la motivazione e la consapevolezza. Fahrenheit 365, il cantiere di scrittura creativa, inizia così. Se avessi anticipato agli studenti che era mia intenzione accompagnarli fino alla prima pubblicazione, avrebbero sicuramente riso di me e delle mie parole pompose. Eppure il progetto è sempre stato quello: presentare i loro testi a un editore. Del resto c’era chi sorrideva anche quando parlavo e progettavo di aprire un corso di scrittura creativa a Cagliari. È trascorso oltre un anno da quel primo appuntamento, in un soppalco cigolante della vecchia sede dell’Accademia di Pittura Figurativa, che nel frattempo è diventata Accademia d’Arte Santa Caterina. Ora l’Accademia ha una sede nuova, una stanza dedicata alla scrittura e tante penne che riempiono fogli di schemi, citazioni, funzioni e pensieri.

    Fahrenheit 365 ormai è una realtà, come lo è questa raccolta di racconti. Il merito è degli studenti che hanno creduto alle mie chiacchiere e fatto loro quei quattro pilastri, con la spiegazione dei quali, tutt’ora comincia il cantiere. A proposito, perché un cantiere e non un corso di scrittura creativa? Perché un corso ha un inizio e una fine definiti, mentre un cantiere, ahimè, o come in questo caso, per fortuna, non ha mai fine. C’è sempre un aggettivo da modificare, un testo da revisionare, un edificio di parole da costruire. E poi, dopo il racconto c’è il romanzo da presentare all’editore.

    Qualche studente sorriderà del progetto all’apparenza irrealizzabile.

    All’apparenza.

    Giorgio Binnella

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    Maria Antonietta Angioi

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    Alla ricerca del tempo perduto

    Fu per puro caso che trovarono quel ristorantino. La prima sera che trascorsero a Parigi, mentre facevano un giro a piedi vicino alla Senna, a un tratto venne loro l’idea di imboccare una viuzza laterale e così passarono lì davanti. Era una casa a due piani dai graziosi balconcini. L’ingresso dell’edificio era dipinto di bianco, le finestre di colore verde.

    Si avvicinarono per guardare all’interno, la porta d’ingresso era aperta, sui tavoli di legno sistemati nel piccolo locale erano sistemate semplici tovagliette in stile americano. Dato che era ancora presto, non c’era ancora nessuno. Solo due vecchietti dai capelli grigi, probabilmente clienti abituali, bevevano i loro bicchieri di vino seduti a un tavolo, uno di fronte all’altro, tenendosi per mano, mangiavano senza smettere di guardarsi. Non si scambiavano una parola. Ai loro piedi, per terra, era sdraiato un grosso cane color miele che teneva gli occhi socchiusi, l’aria stanca. Dalla cucina usciva un vapore biancastro, spargeva nell’aria il dolce aroma di qualcosa che cuoceva. Arrivavano anche le voci allegre del personale e lo sbatacchiare di pentole e padelle.

    La ragazza rimase incantata a guardare la scena.

    Perché non ceniamo qui? disse.

    Il giovane lesse il nome del ristorante nell’insegna sul muro; Pain Vin Fromage, il nome faceva ben sperare, quindi cercò il menu. Fuori però non era esposto.

    Mah, disse lui con aria perplessa, non saprei. Ci sarà da fidarsi? Mangiare in un posto che non si conosce, in un paese straniero. Non appare nemmeno nella guida che abbiamo comprato prima di partire.

    Io credo che questo ristorantino sia delizioso. Fidati di me. Sono sicura che si mangi bene. Sicura al cento per cento. Dai, proviamo!

    Lui chiuse gli occhi e respirò profondamente. Non si capiva che tipo di cucina servissero, ma l’odore era buono, questo era sicuro. E poi l’atmosfera aveva qualcosa di attraente.

    E se magari costa tanto?

    La ragazza lo tirò per il braccio.

    Sei troppo rigido, tu, per queste cose. Stai tranquillo. Abbiamo preso un aereo e siamo venuti fin qui, possiamo anche buttarci in una piccola avventura culinaria, no? Che gusto c’è a mangiare sempre nelle stesse catene di ristoranti uguali in tutti il mondo? Su, forza, entriamo!

    Si resero conto che la specialità di quel ristorante era la Fondue Bourguignonne. Il piano inferiore, ricavato da una vecchia cantina, aveva un’atmosfera molto caratteristica, con pietre a vista e luci soffuse. Il menù era scritto unicamente in francese. La clientela abituale doveva essere composta da persone che vivevano nel circondario, perché i prezzi erano economici. Sul menù si spiegava che la Fondue Bourguignonne era originariamente un piatto svizzero, a base di formaggio, charcuterie e carne.

    Ordinarono uno tra i vini della carta e per la scelta dei piatti tirarono a sorte, lasciandosi consigliare dal simpatico proprietario. La tavola era apparecchiata con al centro un fornellino e un pentolino. Ogni commensale aveva il suo piatto, una forchetta normale e un coltello, la forchettina da mettere nel pentolino e, ovviamente, bicchieri e tovagliolo. Sulla tavola erano sistemate inoltre quattro salse, che i due scoprirono essere fondamentali per la preparazione dei loro piatti: salsa tartara, bernese, cocktail e bourguignonne. Condivisero le loro scelte e costatarono che le porzioni erano abbondanti, gli ingredienti freschi e il vino che avevano ordinato si sposava benissimo con quanto sui loro piatti.

    È proprio buono, sai? disse il giovane, ormai rapito.

    Te l’ho detto, no, che questa sarebbe stata una buona scelta. Ora mi credi?

    Sì, sembra proprio che tu abbia ragione, ammise lui.

    Il cibo è molto più importante di quanto la gente pensi, proseguì la ragazza, "durante un viaggio, ci sono momenti in cui si ha davvero bisogno di mangiare qualcosa di buono. E in quei momenti, tutto dipende da quale ristorante uno scelga; da questo l’esistenza può prendere un corso del tutto diverso.

    Forse hai ragione, disse il giovane, abbiamo passato la giornata a camminare per queste vie, e una cena così dà un senso nuovo al nostro vagare.

    Esatto, affermò lei alzando il dito indice ammonitore, adesso possiamo dire di essere un po’ parigini anche noi!

    Adesso non esagerare! rispose lui ridendo. a te piace il pane al sesamo vero?

    Sì, devo ammettere che è delizioso. E a te piace?

    Anche a me, da pazzi.

    Un’altra cosa che abbiamo in comune, disse la ragazza. Poi sorrise.

    Il ragazzo sorrise a sua volta. Allora alzarono i bicchieri e fecero un brindisi.

    Dobbiamo tornare qui anche domani, dichiarò lei, un ristorante dove si mangia così bene non lo troveremo in tutto il mondo.

    Per tre giorni cenarono sempre nello stesso locale. Passavano la mattinata per monumenti e il pomeriggio gironzolavano per negozi, comprando souvenir. Poi la sera, sempre più o meno alla stessa ora, andavano in quel ristorante nella stradina laterale e assaggiavano ogni sera una pietanza diversa. Dopodiché tornavano in albergo, facevano l’amore lentamente e cadevano in un sonno affollato di sogni. Erano giornate da favola. Lei aveva ventisei anni, viveva di numeri, parole e cioccolata, era vivace ma sbadata e ingenua; lunghi capelli mogano sempre spettinati, occhi nocciola, la carnagione chiara con qualche lentiggine su quel viso di porcellana e labbra perfette e quelle fossette che le spuntavano ogni qualvolta sorrideva. Le piaceva scherzare e non prendeva mai le cose seriamente, anche se a volte si dimostrava saggia. Era impiegata in una piccola società. Lui aveva la sua stessa età, un viso allungato e cordiale, portava la barba lunga e folta, era alto e magro, la carnagione abbronzata e i suoi occhi marroni, contornati da piccole rughe avevano un’espressione disincantata e triste. Lavorava come grafico per una casa editrice. Prendere le ferie nello stesso periodo era stato un colpo di fortuna, e adesso si godevano quelle giornate di libertà, loro due soli, senza seccatori intorno.

    Il quarto giorno - l’ultimo di quella vacanza - andarono di nuovo a mangiare la fondue. Mentre con i sottili ferretti immergevano la carne nella pentola di ghisa, si dicevano che stando lì, a passare la mattinata con il naso all’insù e la sera a rimpinzarsi di piatti squisiti, la tranquilla vita isolana sembrava qualcosa d’irreale, appartenente a un mondo lontano. Più volte tra loro calò il silenzio mentre mangiavano, ognuno per conto proprio, pensava a cose diverse. Però il loro era un silenzio carico di passi, suoni e colori delle ultime giornate trascorse insieme.

    Usciti dal ristorante decisero di fare una passeggiata, era una gradevolissima domenica di settembre. L’afa estiva, ormai lontana, era un vecchio ricordo.

    Passeggiavano senza fretta, senza meta, chiacchierando di tanto in tanto delle cose che li avevano colpiti in quei giorni. Sarebbero tornati alle loro solite vite da lì a poche ore, ma sarebbero stati persone differenti.

    Com’è che guardavano lo stesso mondo e lo vedevano diverso ora?

    Decisero di tornare in albergo, e dopo aver fatto il bagno, come ogni sera si sdraiarono sul letto.

    Dopo un poco però lei si svegliò, di soprassalto, aveva un terribile mal di testa che le impediva persino di pensare.

    Si alzò e si lasciò cadere sulla poltrona accanto alla finestra, chiuse gli occhi e si mise a respirare lentamente e in quella posizione lasciò passare un po’ di tempo. Il suo cuore batteva all’impazzata, le risuonava nelle orecchie; era un rumore sordo, pensava che avrebbe svegliato il suo ragazzo che dormiva ignaro.

    D’un tratto udì un rumore fuori dalla porta. Trattenne il respiro, per un attimo pensò di esserselo immaginato.

    Di nuovo. Si alzò e si avvicinò alla porta con passi lenti e silenziosi.

    Il rumore era sempre lì fuori. Non significa niente, pensò. E invece non era così, di nuovo chiuse gli occhi, inspirò lentamente e a fondo, poi li riaprì.

    Decise di uscire, doveva capire cosa stesse accadendo.

    Era spaventata a morte, ma non aveva altra scelta che affrontarlo.

    Aprì la porta. Si ritrovò davanti ai suoi, due occhi stanchi. La ragazza trasalì. Aveva visto quegli occhi l’ultima volta ormai quasi nove anni prima. Per lungo tempo aveva sentito la sua mancanza.

    L’uomo si voltò e prese a camminare. Lei si guardò intorno, il suo ragazzo stava disteso sul letto, profondamente addormentato. Pareva non essersi accorto di nulla. Il viso affondato nel cuscino, respirava tranquillamente.

    Decise di seguirlo. I corridoi dell’albergo erano vuoti e silenziosi, si chiese che ora fosse ma si ricordò che non aveva orologio, non era importante sapere.

    Aveva deciso di rinunciare ad avere un orologio tre anni prima per coltivare l’abitudine di indovinare l’ora, esattamente come aveva imparato a catalogare le persone in base all’olfatto e ad affinare il palato per il cibo.

    Guardava le porte chiuse delle stanze che si lasciavano alle spalle e s’interrogava su che storia avessero da raccontare le persone al loro interno.

    Percorrevano quei corridoi a passo lento, l’uomo sembrava conoscere a memoria la struttura e ogni piano di quell’albergo, la ragazza non si sarebbe meravigliata se fosse stato così, lo aveva scelto proprio per la storia che custodiva.

    Improvvisamente con un sibilo il condizionatore prese a funzionare, sentiva freddo nella sua camicia da notte leggera ma continuò a seguirlo.

    Quando si sarebbe fermato?

    Percorsero numerosi altri corridoi prima che si trovassero davanti alla porta girevole in legno della hall. Il salone era illuminatissimo, gli altoparlanti diffondevano una morbida ballata lamentosa. Profumo di pane riempiva l’aria. Appesa alle pareti una serie di fotografie in cornici d’argento: la costruzione della Tour Eiffel; una finestra aperta sui tetti di Parigi; una vista dall’alto del giardino di Versailles; una sequenza notturna nei pressi di Pont desArts e dei caratteristici battelli vetrati.

    Il giovane dietro il banco sembrava non essersi accorto di loro.

    Sono morta, pensò con chiarezza sconcertante. L’eco di quel pensiero la scosse, forse doveva rinunciare, avrebbe dovuto tornare in camera sua.

    Come se avesse sentito i suoi pensieri, l’uomo si fermò, si girò e con un cenno del capo la invitò a seguirlo. La ragazza sbatté le palpebre, sorpresa.

    Uscirono, la città era silenziosa, fredda e tranquilla. La ragazza respirò a pieni polmoni l’aria limpida di quella sera di fine estate. Camminavano lungo il viale, lei a piedi nudi sulla strada lastricata e gelida, i capelli sciolti sul viso; lui pallido, innaturalmente ritto, rigido nei movimenti e vestito come l’ultima volta.

    Superarono la Fontana del Paradiso e imboccarono rue des Francs Bourgeois.

    Camminavano in silenzio, sempre a due passi l’una dall’altro, si lasciarono alle spalle anche Place des Vosges e la magnifica residenza che lei aveva visitato con il suo ragazzo poche ore prima.

    Continuava a chiedersi quale fosse la loro destinazione, il loro itinerario sembrava variare di continuo e senza un senso logico.

    Una leggera brezza le scompigliava i capelli e passava attraverso quella leggera camicia da notte.

    Tremava.

    Iniziava a pentirsi della sua decisione, era stanca, sentiva freddo e non ne poteva più di camminare a piedi nudi.

    L’uomo sembrava non curarsi di lei.

    Proseguirono il loro cammino, lui come seguisse una via predestinata, lei assorta in un turbinio di pensieri e angosce.

    Sollevò lo sguardo, rue de la Roquette, diceva il cartello.

    Aveva percorso quella via tante volte negli ultimi giorni, era costellata da una mole di ristoranti, bar e caffè, ma anche una nutrita serie di gallerie d’arte - molte delle quali avevano attirato la sua attenzione - nonché di parchi e giardini.

    Avanzarono e percorsero l’intera via, giunti alla zona del cimitero monumentale di Père-Lachaise, la spiacevole sensazione che la attanagliava si accentuò quando si rese conto che le poche persone che incontravano abbassavano lo sguardo con espressione addolorata, come se sapessero qualcosa di terribile a lei ancora ignota.

    Improvvisamente davanti a loro si stagliò l’ampio e imponente ingresso bianco; lo varcarono. Certo non era il posto che si aspettava d’incontrare, percorsero insieme i viali illuminati dai fiochi lampioni. Il vento autunnale soffiava tra le candide lapidi, agitava gli alberi e spandeva ovunque l’odore dell’incenso che era stato bruciato.

    Pareva non avere fretta, camminava con passo tranquillo in una direzione ben precisa; senza guardarsi attorno.

    La ragazza conosceva la storia di quel cimitero, uno dei più grandi e celebri al mondo. Era uno dei luoghi più visitati della capitale francese, sorgeva su vasti terreni appartenuti a un gesuita detto Père La Chaise, nipote del confessore di Enrico IV.

    In questo cimitero vi erano sepolti numerosi personaggi illustri come Oscar Wilde, Marcel Proust e Jim Morrison.

    D’un tratto l’uomo si fermò e l’eco dei suoi passi si placò: aveva raggiunto la sua meta.

    La ragazza guardò impietrita la lapide, assieme al nome vi era stato inciso: Aprite la tomba. Nel fondo di questa tomba si vede il mare.

    Fece scorrere la mano affusolata sul profilo della lapide, tastò con i polpastrelli il nome cesellato nel marmo di un bianco puro: lo conosceva bene.

    Si levò una forte raffica di vento.

    L’adrenalina, la paura, tutto era improvvisamente scomparso.

    Si voltò, era sola.

    Non urlò.

    Non emise alcun suono.

    Si mosse di scatto, si allontanò dalla tomba e si riavviò lungo il viale. Tornò in albergo e decise di fare un bagno, continuava a sentire freddo, s’immerse nella vasca e si lasciò avvolgere dalla calda mano dell’acqua sprofondandovi senza curarsi di tornare a galla, rilassandosi totalmente. Si sentì galleggiare sulle nuvole. Lentamente i pensieri ripresero a fluire a ritmo normale. Aveva bisogno di scrollarsi finalmente di dosso le strane sensazioni di quel giorno.

    Dopo un poco si svegliò, di soprassalto, aveva un terribile mal di testa che le impediva persino di pensare.

    Il suo ragazzo dormiva tranquillo al suo fianco. Pareva non essersi accorto di nulla. Il viso affondato nel cuscino, respirava tranquillamente.

    Aveva sognato, dunque.

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    Chi ha cuore ha anche carta

    Il tempo passa. Forse non c’è frase più banale. Ma così è. E per quanto spesso vorremmo che così non fosse, è un bene che le cose non rimangano mai uguali.

    Il tempo che passa è movimento. È come respirare. Un’azione che si compie senza averne coscienza.

    Inspira, espira.

    Su e giù.

    Movimento, dicevamo. Questa giornata inizia così. Sveglia che sembra voglia impadronirsi della testa, dei pensieri. Braccio che si catapulta verso di essa in un disperato tentativo di trattenere ancora quel sogno, non lasciarlo scivolare via. Piedi giù dal letto a infilare ciabatte che conducono alla cucina, al caffè, alla giornata appena iniziata. 


    Mia è una ragazza come tante: lunghi capelli castani e mossi, un viso ovale dai lineamenti dolci, labbra carnose, mani da pianista con unghie ben curate. È molto magra e ha grandi occhi nocciola. Occhi fin troppo espressivi, capita spesso che la tradiscano.

    Soprattutto le profonde occhiaie, rivelano la sua eterna stanchezza. Non si trucca quasi mai, ma se deve, non rinuncia al mascara e alla matita nera perché vuole essere guardata negli occhi.

    Veste senza far attenzione ai dettagli: camicetta immacolata, coda di cavallo, jeans a sigaretta sono la divisa d’ordinanza.


    Ha tagliato i capelli da poco e ancora fatica a riconoscere il suo riflesso sui finestrini delle macchine. Sperava che una faccia nuova avesse più slancio. E, per la cronaca, non ha funzionato!

    Non indossa mai collane, soltanto a volte, un anello al dito, un regalo per il suo ultimo compleanno e gli immancabili orecchini; ha una passione sfrenata per questi piccoli oggetti.

    Tiene sempre un libro in borsa, ritiene possa tornare utile. Le attese diventerebbero meno lunghe e snervanti, pensa. E anche se non sempre riesce ad aprirlo,

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