La collana di corallo
By Isichiara
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La collana di corallo - Isichiara
fuga
L'interrogatorio
«Cos’è questa?»
Qualcosa fu buttato sul tavolo.
Il rumore era morbido, pastoso, quasi musicale. Ad Anmeh sembrò assomigliasse a un battito di maracas. Aprì gli occhi che le dolevano, con fatica.
«Mi sembra...» e allungò una mano per prenderla.
La reazione fu immediata. La bacchetta o forse un giunco di salice, perché era sottile flessibile e dolorosissimo, si abbatté sulle sue unghie.
«Non toccare, te lo abbiamo già detto ieri.»
«Ieri? - pensò - C’era ancora un ieri, un altro ieri, e soprattutto un domani per lei?»
Sentiva la testa pesantissima, le ossa a pezzi. Brividi di freddo la scuotevano in continuazione, nonostante il sole dietro le inferriate si fosse alzato per ben due volte, in entrambe ostile. Ne vedeva la luminescenza spandersi fino a occupare l’intera finestra, senza che la stanza riuscisse ad accaparrarsene qualche raggio tanto da diventare tiepida.
Da quanto la stavano interrogando? Era arrivata lì che fuori era buio, poi era sorto il sole, poi era tramontato e poi era sorto di nuovo… 24, 25 ore…
«Vuole degnarsi di rispondere?»
«Mi sembra… mi sembra una collana, una collana di corallo… è…. è strana…»
Con la punta della bacchetta Passim la allargò. Assomigliava a un trofeo dei negri della foresta. Una serie di ossicini di corallo di diversa lunghezza, in diverse gradazioni dell’arancio. In mezzo gli ossicini si allungavano tanto da sembrare lunghi denti di una belva feroce, più sottili, però, a volte arcuati, a volte con finale biforcuto, sbilenchi, ambigui.
«E allora?»
«Sì… è una collana, una collana di corallo.»
«Non le ricorda niente?»
«No, non mi pare…»
La bacchetta si abbatté con un sibilo. Lei si coprì il viso, d’istinto, e il giunco prese il dorso delle mani, già tutte segnate.
Un singhiozzo le strozzò la gola.
«Maiali!»
Un altro sibilo e ssszac! Un altro colpo. Non riuscì a ricacciare l’urlo in gola. Si alzò di scatto e si accorse di stare urlando: «Porci, schifosi, io sono una giornalista, ho molti amici. Il mondo conosce la mia storia, so che i giornali stanno parlando di me e farò sapere a tutti che mi avete tenuto giorni e giorni incappucciata, da sola, in una stanza umida, con le manette ai polsi… mi avete obbligato a stare in piedi molte ore, non mi avete fornito il minimo necessario per i miei bisogni… Mi avete sottoposta a docce gelate ogni volta che mi sono sporcata… mi avete insultata… minacciata, avete minacciato mia famiglia…»
«Tuo padre è morto…»
Fu peggio della staffilata. Le mancarono le forze e si abbandonò sulla sedia, perdendo ogni capacità.
«Come morto? Non può essere.»
E poi tremante, supplice, come non avrebbe mai voluto essere: «Lo dite per fiaccarmi, lo dite per vendicarvi…»
«Tuo padre è morto» ripeté Passim, gelido, un po’ impaziente.
«Come è possibile?» e immediato il sospetto «Siete stati voi?»
Lo chiese piano, perché temeva la risposta.
«Ha avuto un attacco di cuore. Sei stata tu!»
La stanza si mise a ruotare, veloce, sempre più veloce. Strani bagliori le squarciarono la mente, fu come se un fulmine le attraversasse le membra, le arroventasse ogni organo, la dividesse in mille pezzi e… finalmente, fu il nulla.
Il deserto: sabbia e sabbia e sabbia. Il vento sfiora la superficie e nuvole di sabbia si spostano leggere mentre intensi vapori vaneggiano per l’aria torrida. Da lontano una lunga striscia nera ondeggia. Si avvicina serpeggiando come un grosso rettile minaccioso. Sono persone, sembrano anime perse. In testa alla lunga fila c’è un rabbino, giovanissimo con il viso appena ammorbidito da una lanugine rossastra, l’abito nero dalle braghe strette e la giacca dalle lunghe code e il cappellaccio da cui spenzolano due treccine che ondeggiano ritmando il suo passo. Dietro di lui una lunga fila di uomini bruni vestiti a lutto. Appaiono assorti nella lettura di libri di preghiera dalla copertina nera, addolorati. È nello snodo del percorso sinuoso che compare la bara, sostenuta a braccio da quattro giovani soldati israeliani. Poi il rettile si scompone, si rompe, si decompone: una folla di arabi impazziti, vestiti di candidi stracci, anima l’immobilità della scena. Danzano il dolore con