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Caos: Economia, strategia e geopolitica nel Mondo globalizzato
Caos: Economia, strategia e geopolitica nel Mondo globalizzato
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Caos: Economia, strategia e geopolitica nel Mondo globalizzato

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About this ebook

Gli imperi occupano una centralità che è storicamente garante, nel bene e nel male, di determinati sistemi regolatori. Ma l’intrinseca tendenza all’espansione si traduce inesorabilmente in indebitamento e sovraesposizione, che radicalizzandosi obbligano le potenze dominanti ad aumentare le spese, ad intensificare lo sfruttamento dei loro sottoposti e a gettare in misura crescente la spada sul piatto della bilancia. Gli squilibri che scaturiscono da ciò alimentano una situazione di caos che rende pressoché impossibile la gestione coordinata e scarsamente conflittuale delle relazioni internazionali. Un circolo vizioso che accomuna i grandi imperi che si sono imposti sulla terra dagli albori della Storia fino ai giorni nostri. Gli Stati Uniti, odierna potenza dominante, stanno percorrendo tale sentiero già ampiamente battuto nel corso dei secoli. Questo libro offre un’analisi cruda e disincantata su ascesa e declino del sistema imperniato sulla supremazia statunitense nei suoi aspetti strategico, geopolitico ed economico.
Il libro analizza, attraverso una minuziosa analisi storico-economica, il percorso egemonico intrapreso, dopo le Guerre Mondiali, dagli Stati Uniti come unico arbitro dei destini economico-politici dell'intero Globo, spesso anche con l'uso della forza. Oggi però assistiamo ad un progressivo bilanciamento di quel sistema verso un equilibrio caratterizzato da un nuovo spazio multipolare.
LanguageItaliano
Release dateDec 22, 2014
ISBN9788897363736
Caos: Economia, strategia e geopolitica nel Mondo globalizzato

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    Caos - Giacomo Gabellini

    Autore

    Introduzione

    di Ali Reza Jalali*

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    «Che cosa si intende per mondo unipolare? Comunque si voglia abbellire questo termine, alla fine si riferisce ad un certo tipo di situazione, ovvero a un centro di autorità, un centro di forza, un centro decisionale. È un mondo nel quale c’è un padrone, un sovrano. Ed alla fine questo non solo è pernicioso per tutti coloro che sottostanno a questo sistema, ma anche per il sovrano stesso, perché distrugge se stesso dall’interno (…) Io ritengo che nel mondo d’oggi il modello unipolare non solo sia inaccettabile ma che sia anche impossibile. E questo non solo perché se ci fosse una singola leadership nel mondo d’oggi – e particolarmente in quello d’oggi – le sue risorse militari, politiche ed economiche non basterebbero (…). Con ciò, quello che sta accadendo nel mondo di oggi – e noi abbiamo appena incominciato a discutere di questo – è un tentativo di introdurre negli affari internazionali precisamente questo concetto, il concetto di un mondo unipolare (…).

    Stiamo assistendo ad un disprezzo sempre più grande per i principi fondamentali della legge internazionale. È un dato di fatto che norme legali indipendenti stiano diventando in modo crescente più legate al sistema legale di uno Stato. Primo fra tutti, gli Stati Uniti, che hanno oltrepassato i loro confini nazionali in ogni modo e forma. Questo è visibile nelle politiche economiche, governative, culturali e dell’istruzione che impongono alle altre nazioni. A chi giova tutto ciò?». Così Vladimir Putin, già nel 2007, in un meeting internazionale a Monaco di Baviera riguardo la sicurezza globale, indicava nel modello unipolare e nell’unilateralismo statunitense nelle relazioni internazionali, sia a livello economico, sia a quello politico-militare, la principale minaccia alla pace nel mondo. E nel promuovere questo pensiero egli non solo esprime un concetto, per così dire, umanitario, ma anche un chiaro richiamo a quello che deve essere il ruolo del suo Paese – e indirettamente quello dei Paesi emergenti non occidentali, Cina in primis – nel nuovo ordine internazionale, quello multipolare. Per instaurare questo nuovo sistema nelle relazioni internazionali però, bisogna prima capire come si è formato l’ordine mondiale degli ultimi decenni, ovvero quello incentrato sul ruolo egemone di Washington e di qualche suo fidato alleato come Londra. Per fare tutto ciò è utile consultare questo testo, scritto dallo studioso nonché amico Giacomo Gabellini, un saggio di alta qualità scientifica che descrive come è stato possibile creare un sistema globale americanocentrico, partendo dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, conflitto che ha sancito la fine, dopo cinque secoli, del predominio incontrastato europeo, come direbbe Carl Schmitt, la fine del sistema delle relazioni internazionali basato sul Jus publicum europaeum – il diritto pubblico europeo – a favore del sistema relazionale anglosassone e statunitense in particolare. In tutto ciò, oltre lo strapotere militare di Washington, il dato saliente è il predominio economico, istaurato grazie prima agli accordi di Bretton Woods (1944) e poi, negli anni ’70 del XX secolo, grazie all’escamotage dell’amministrazione Nixon, con l’abolizione, del tutto unilaterale, degli accordi medesimi.

    Il libro di Giacomo Gabellini quindi, dopo un’analisi di come gli USA hanno creato un sistema globale economico incentrato sul loro predominio, in cui il centro del sistema è rappresentato dal dollaro come moneta degli scambi internazionali, anche a discapito dell’Europa – quindi non solo in funzione antisovietica o antirussa – si concentra sulla nuova fase delle relazioni internazionali, ovvero quella attuale, in cui progressivamente stanno emergendo altre nazioni che chiedono a gran voce di superare – come dimostra il discorso di Putin citato in precedenza – il modello unipolare statunitense, a favore di un più equilibrato modello multipolare, nel quale, presumibilmente, i Paesi del cosiddetto BRICS avranno un ruolo sempre più importante. Non a caso Gabellini ci descrive la situazione cinese, Paese che si appresta entro il prossimo decennio – forse anche meno – a diventare la più grande economia del mondo, dopo settant’anni di dominio di Washington. Ciò è possibile grazie all’estrema abilità con la quale Pechino ha saputo muoversi nel mondo globalizzato, riducendo al minimo i rischi e cavalcando le possibilità di un mondo sempre più interconnesso, cosa che emerge con chiarezza ancora, sia nello scontro tra le superpotenze americana e sovietica prima, sia nella nuova diatriba tra mondo occidentale (USA più UE) e Russia oggi. Nella situazione in qui ci troviamo oggi, ovvero di una sempre maggiore tensione tra Europa e Russia, e in generale tra Occidente e Eurasia, la Repubblica Popolare di Cina, sarà il principale attore ad avvantaggiarsi. Se Europa e Russia prendono le distanze, di fatto sanzionandosi a vicenda, le relazioni commerciali imponenti dei due attori si indirizzeranno sempre più verso un legame fondamentale con Pechino. Tra i due litiganti il terzo gode. Mosca sarà costretta sempre di più a legarsi alla Cina visto che dovrà in qualche modo rimediare alla perdita delle relazioni con l’Unione Europea; lo stesso dovrà fare Bruxelles, visto che la logica impone di rimediare all’errore strategico di aver voluto isolare Mosca. Ho detto logica, una qualità che sembra ormai estranea alla dirigenza di non pochi Paesi europei. È evidente che esistono tensioni geopolitiche latenti tra la Russia e la penisola europea – estremità occidentale del continente eurasiatico – basterebbe consultare una cartina per comprenderlo. L’Europa orientale è il naturale punto di attrito tra gli interessi russi e quelli europeicontinentali, lo è sempre stato – cambia solo la nazione europea direttamente coinvolta, una volta la Francia, una volta la Germania – in quanto questa zona che va da Trieste a Kiev è al centro dei, sempre per citare il maestro Schmitt, grandi spazi di interesse vitale sia per Mosca che per la principale potenza del continente europeo propriamente detto. In fondo, questa area è stata sparita in passato tra russi e tedeschi (prussiani o austriaci), più raramente tra russi e francesi (ai tempi di Napoleone prima del Congresso di Vienna del 1815), ma è sempre stato terreno di scontro tra Europa e Russia. La geopolitica ha le sue leggi, se non sperimentali e immutabili, quantomeno parzialmente stabili. Se tra russi e europei esistono tensioni che vanno al di là del tempo e dei regimi politici, i motivi vanno cercati appunto nella geopolitica intesa in senso lato; ma ciò non vuol dire che per forza russi ed europei devono ammazzarsi tra di loro. Esiste infatti un’arma in possesso degli Stati – che pur nella globalizzazione impernate rimangono in un modo o in un altro gli attori centrali della politica internazionale – che serve a stemperare la tensione geopolitica. Quest’arma si chiama diplomazia. La diplomazia serve a evitare le guerre – a livello scientifico, oltre la strategia militare, la geopolitica è per eccellenza la scienza della guerra, e non è un caso che in questa epoca di pacifismo perbenista imperante e in cui l’unico credo ammesso è la religione dei diritti umani, questo tipo di approccio sia visto con sospetto, soprattutto in Europa – per non parlare dell’Italia, Paese con più di 100 università riconosciute in cui esistono pochissimi corsi accademici che si occupino di questa materia, in un modo o nell’altro – e questa arte diplomatica ha soprattutto uno sbocco che possa allentare le tensioni geopolitiche: la cooperazione economica. Più le nazioni sono integrate una con l’altra economicamente, più è difficile che possano scoppiare conflitti che le coinvolgano tra di loro. Nel momento in cui l’Europa decide di legarsi agli USA in modo sempre più stretto attraverso un accordo di libero scambio, il vecchio continente prende (definitivamente?) le distanze dalla Russia, con sanzioni che dimostrano la mancanza di logica politica, economica e strategica dei dirigenti europei. Insomma, se da un lato l’Unione Europea si lega a Washington – mi verrebbe da dire finché morte non li separi – decide di contrapporsi a Mosca in modo pesante; quindi non solo decide di non attenuare e moderare la tensione geopolitica naturale esistente tra Mosca e il vecchio continente, attraverso una collaborazione economica stretta, intrapresa negli scorsi venti anni, ma invece di migliorare le relazioni, come logica imporrebbe, si butta a capofitto in uno scontro frontale che non farà altro che aumentare la tensione e in ciò il caso ucraino è la massima manifestazione di tale fenomeno. Il saggio di Giacomo Gabellini però non si sofferma soltanto sul Nord America, sull’Europa (UE e le sue dinamiche economiche interne), sulla Russia e sulla Cina, delineando appunto la parabola che ha portato alla formazione dell’attuale ordine – o disordine a seconda dei punti di vista – mondiale, ma affronta anche i temi concernenti altre zone del globo, come quelle riguardanti il Medio Oriente e la sua importanza, come uno dei principali bacini energetici a livello mondiale e regione geopolitica fondamentale nell’equilibrio strategico tra le grandi potenze. Qui, come dimostrano le devastanti guerre in Iraq o Siria, si gioca una partita importante anche per le potenze regionali con uno scontro, che non ha solo valenza geopolitica, ma anche e soprattutto geoeconomica tra Iran e Arabia Saudita. Inoltre si analizzano le dinamiche di un’altra regione del mondo molto importante: l’America Latina. Qui probabilmente negli ultimi anni è emerso il più importante e interessante processo di integrazione regionale, dopo quello europeo, riguardante una serie di nazioni accomunate da lingua e religione, a eccezione del Brasile. Proprio questo ultimo Paese, di lingua portoghese ma pur sempre cattolico, si è rivelato un motore economico importante per tutta l’area, senza dimenticare l’Argentina, vittima sempre più spesso di odiosi ricatti promossi dai centri di potere economico globale, con i propri centri nevralgici a New York e Londra. Anche se dal punto di vista ideologico, a mio parere, l’esperienza più interessante di questa area geografica latinoamericana rimane quella dei Paesi dell’ALBA, guidati senza ombra di dubbio dal Venezuela bolivariano. L’eredità spirituale della buonanima di Hugo Chavez, promotore del socialismo del XXI secolo, un socialismo che mescola in modo razionale istanze progressiste, egualitarie, spirituali e nazionaliste, che sotto la guida carismatica del Comandante ha affascinato milioni di persone nel mondo, tra i quali chi scrive e anche – se ho imparato a conoscerlo bene – l’amico Gabellini che dimostra una completa padronanza dei temi affrontati in questo importante libro, sia quantitativamente – soprattutto per l’elevato numero di dati che mette a disposizione del lettore – sia qualitativamente, con una capillare selezione delle fonti più qualificate nel panorama scientifico italiano e straniero.

    Brescia, ottobre 2014

    *Ali Reza Jalali è un ricercatore italiano di origini iraniane. Si occupa soprattutto di questioni geopolitiche, religiose, culturali e giuridiche inerenti il Medio Oriente e il mondo islamico nel suo complesso. È autore, assieme a Sepehr Hekmat, del volume Giustizia e spiritualità. Il pensiero politico di Mahmoud Ahamdinejad, edito da Anteo Edizioni nel 2013.

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    Capitolo 1

    Moneta, petrolio e impero

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    Il dollaro rappresenta indubbiamente uno dei principali fattori attraverso cui gli Stati Uniti hanno avuto modo di imporre la propria superiorità strategica dal termine della Seconda Guerra Mondiale in poi. Luc Michel, analista strategico belga, nota a questo riguardo che: «Nel 1945 i massimi vincitori della guerra mondiale furono gli USA. L’unico concorrente degli USA, l’Unione Sovietica, era stremata da una guerra durata cinque anni sul proprio territorio e indebolita dalla perdita di milioni di vite. Oltre all’evidente divisione del mondo fra USA e URSS e all’asservimento dell’Europa occidentale da parte dell’America, Jalta significò anche la defenestrazione degli alleati europei dalla scena politica mondiale (Churchill mise in rilievo proprio questo). Da quel momento gli USA dominarono incontrastati nel mercato mondiale. Non restava loro altro da fare che rimodellare questo mercato mondiale a propria immagine e trarne il massimo vantaggio».

    Così, nel 1944, 730 rappresentanti di 44 nazioni del mondo si riunirono nella cittadina statunitense di Bretton Woods, nel New Hampshire, allo scopo di dar vita ad un nuovo ordine economico da applicare a tutti i Paesi estranei al comunismo. John Maynard Keynes, il più autorevole economista del tempo nonché principale esponente della delegazione britannica, caldeggiò l’introduzione di un organismo mondiale dotato del potere di stampare cartamoneta e regolare i rapporti tra debitori e creditori, nonché incaricato di emettere una valuta sovranazionale, il bancor, che i Paesi avrebbero utilizzato come riserva valutaria. La delegazione statunitense, guidata dall’economista e sottosegretario al Tesoro Harry Dexter White, si oppose a questa proposta e riuscì, gettando la forza militare USA sul piatto della bilancia, a imporre una linea più minimale imperniata sulla costituzione di un’entità sovranazionale che stabilizzasse i tassi di cambio e, soprattutto, sul conferimento al dollaro dello status di moneta di riferimento internazionale agganciata all’oro per un valore fisso di 35 dollari ad oncia. Le altre monete sarebbero dovute a loro volta essere ancorate al dollaro nell’ambito di un sistema a cambi fissi, segnando di fatto un passo avanti rispetto al vecchio Gold Standard cui ciascun Paese aveva aderito individualmente senza coordinarsi con gli altri e concordare valori di riferimento per le monete nazionali.

    Da Keynes, gli Stati Uniti ripresero quindi l’idea di dar vita ad un organismo sovranazionale e, strappando l’assenso ai proprio alleati, decretarono la costituzione del Fondo Monetario Internazionale (FMI), una istituzione – sprovvista del potere di stampare moneta ed incaricata unicamente di gestire i prestiti nei confronti dei Paesi in difficoltà attingendo alle proprie riserve costituite dalla ricchezza versata da ciascun Paese membro in base alle sue quote di partecipazione – presso la quale il potere decisionale di ogni singolo Paese fosse proporzionale alle quote in oro detenute nei forzieri delle rispettive Banche Centrali. A questo organismo venne inoltre conferito l’incarico di monitorare le oscillazioni relative ai tassi di cambio – che non avrebbero dovuto superare la soglia massima del 10% – tra le varie monete. Al Fondo Monetario Internazionale venne affiancata la Banca Mondiale per la Ricostruzione e per lo Sviluppo, chiamata a promuovere, attraverso vari finanziamenti, i progetti finalizzati allo sviluppo economico di tutti i Paesi non gravitanti attorno all’orbita sovietica. Questo nuovo sistema monetario stabilito a Bretton Woods, meglio noto come Dollar Exchange Standard, saldò quindi il vincolo tra dollaro ed oro suggellando l’egemonia della moneta statunitense, che venne impiegata come valuta di riferimento internazionale per il commercio di generi alimentari, metalli e, soprattutto, petrolio, materia prima dall’impareggiabile valore strategico. Il processo di consolidamento di questo sistema fu però tutt’altro che costante e lineare.

    Tra il 1945 ed il 1947 Washington decise infatti di modificare alcuni aspetti dell’accordo di Bretton Woods relegando a un ruolo marginale la Gran Bretagna sia nello sviluppo della politica monetaria internazionale che nel processo di ricostruzione del capitalismo europeo. Secondo i disegni originari di Bretton Woods, si sarebbe infatti dovuta attuare una fase di transizione contrassegnata dalla non convertibilità delle monete utilizzate nei Paesi sconfitti e dal ruolo dominante di una valuta principale, cioè il dollaro, affiancata da una sussidiaria, ovvero la sterlina. Fu in base a questo progetto che la Gran Bretagna assunse la responsabilità di fornire aiuti economici alla Turchia ed alla Grecia. Quest’ultima, in particolare, stava assumendo un’importanza crescente in quanto teatro di una sanguinosa guerra civile tra la resistenza esercitata prevalentemente alle forze comuniste e il governo appoggiato dagli anglo-statunitensi, cosa che Washington sfruttò per mitigare le pulsioni isolazioniste che spopolavano in patria e motivare la presenza costante delle truppe statunitensi sul territorio europeo e, successivamente, la creazione della NATO (1949) e l’installazione dei missili nucleari Cruise e Pershing nella Repubblica Federale Tedesca, in Italia, in Belgio e in Olanda.

    La tendenza ascendente degli USA sullo scenario internazionale, risalente alle guerre ispano americane (1898), portò inoltre Washington a scalzare la Gran Bretagna (che aveva cominciato a crollare con la gravissima crisi economica del 1873 e che subì un letterale dissanguamento con la Prima Guerra Mondiale) da quelli che per secoli erano stati i suoi esclusivi spazi economici compromise tuttavia la sostenibilità del progetto originario. L’apertura delle Sterling Balance, imposta dagli USA nonostante la forte contrarietà di Churchill, fece in modo che gli avanzi nei confronti della Gran Bretagna accumulati nei conti denominati in sterline da parte dei Paesi del Dominion, come il Canada, l’Australia ed il Sud Africa, venissero convertiti in dollari e utilizzati per acquistare dagli USA. Il che aggravò la situazione finanziaria britannica, le cui condizioni erano molto preoccupanti fin dal 1944, spingendo il Ministero del Tesoro a proporre di dichiarare il default riguardo il rimborso delle somme addebitate durante il Lend and Lease Program. L’esecutivo di Londra bocciò la proposta senza tuttavia impedire che la crisi scoppiasse ugualmente, ma in una forma scoordinata e incontrollata tale da costringere il governo laburista ad annunciare, nel febbraio del 1947, l’impossibilità di fornire aiuti alla Grecia ed alla Turchia e, come conseguenza, a esortare gli USA a compensare questa inadempienza. Gli USA accolsero favorevolmente tale richiesta, ma decisero anche di cancellare i debiti di guerra contratti da Italia, Germania e Francia obbligando allo stesso tempo la Gran Bretagna ad attrezzarsi per provvedere al rimborso. Schiacciata sotto la pressone del debito, la bilancia dei pagamenti britannica entrò in una crisi profonda, spingendo Londra ad abbandonare la convertibilità internazionale della sterlina, che si ritrovò così sullo stesso livello delle valute circolanti nei Paesi sconfitti. Il che, unitamente alla perdita di fonti di introito come il mancato rinnovo delle concessioni in Arabia Saudita, pose fine al ruolo di partner minoritario del dollaro di cui era titolare la sterlina vincolando l’intera architettura finanziaria internazionale alla disponibilità statunitense a fornire prestiti e liquidità di cui necessitavano gli Stati europei per approvvigionarsi di petrolio e derrate alimentari, entrambi facenti rigorosamente riferimento al dollaro. L’unico aspetto a rimanere in vigore tra quelli fissati a Bretton Woods nel 1944 fu quindi la rigidità del cambio tra dollaro e oro e tra il dollaro e le monete utilizzate nei Paesi partecipanti.

    La debolezza britannica, fortemente indotta dagli Stati Uniti, fu il frutto di una riconfigurazione del pensiero geoeconomico di Washington secondo le idee di George Kennan, James Forrestal e William Draper. Secondo questi alti funzionari, la strategia USA avrebbe dovuto poggiare su Turchia, Iran e Arabia Saudita sul fronte meridionale dell’URSS (con la prima a sorvegliare gli stretti sul Mar Nero, la seconda a presidiare le frontiere meridionali dell’Unione Sovietica e la terza a garantire i rifornimenti petroliferi in base all’accordo raggiunto sull’incrociatore Quincy in navigazione sul Grande Lago Amaro del Canale di Suez tra Roosevelt e Ibn Saud il 14 febbraio 1945), sul Giappone per quanto riguarda lo scenario asiatico e sulla Germania in ambito europeo. Germania e Giappone erano infatti Paesi dalle grandi capacità industriali e disponevano pertanto delle abilità necessarie a ritagliare aree di influenza attorno alla loro potenza economica. Gli Stati Uniti, dal canto loro, si sarebbero impegnati a finanziare il deficit estero delle partite in dollari di questi due grandi Paesi per un lungo periodo di tempo, secondo un modello di triade in cui la potenza globale si sarebbe fatta carico delle spese necessarie a rimettere in sesto i due poli regionali che, una volta ripartiti, avrebbero proseguito con le proprie forze esportando verso le rispettive aree di influenza. Su queste basi ha preso vita il progetto relativo al Piano Marshall, che venne lanciato l’anno seguente. L’attuazione di tale politica – che comportò sia la marginalizzazione dell’influente consigliere Hans Morgenthau (favorevole a colpire pesantemente la potenza economica tedesca) che l’acceso scontro con il Generale Douglas MacArthur, capo del Supreme Command Allied Powers in Giappone (il quale intendeva smantellare i conglomerati monopolistici nipponici noti come Zaibatsu) – richiedeva in primo luogo che l’Unione Sovietica rimanesse tagliata fuori dai compiti gestionali della Germania, ma ciò era impensabile, visti e considerati gli interessi che Mosca aveva nei confronti dello Stato tedesco. La soluzione fu quindi la divisione della Germania in due zone di influenza, la cui parte occidentale sarebbe dovuta divenire un polo industrialmente forte con l’aiuto della Francia, nonché guidato dalle stesse classi imprenditoriali del periodo nazista e dotato di un suo spazio europeo verso cui esportare. L’appoggio al Giappone si rivelò particolarmente urgente in seguito alla affermazione in Cina dei comunisti guidati da Mao Tze Tung a scapito del Kuomintang di Chang Kai Shek. La spettacolare ripresa del Giappone fu peraltro favorita dallo scoppio della Guerra di Corea del 1950, la quale portò Washington a lanciare una fortissima spinta al riarmo (nel 1952/1953, gli USA destinarono alle spese militari il 15% del PIL, dopo aver trainato la corsa al riarmo della NATO, con la spesa militare dei Paesi membri che passò dai 38 miliardi di dollari del 1949 ai 108 miliardi del 1952) che produsse ripercussioni estremamente benefiche sul Paese nipponico. Come scrive il l’autorevole economista Joseph Halevi: «La ricostruzione del capitalismo mondiale ricadeva dunque sugli Stati Uniti diventando in tal modo tanto un fine quanto un mezzo. Gli Stati Uniti offrivano crediti e fornivano, attraverso il controllo esercitato dalle loro società, materie prime, soprattutto petrolio. Gli USA erano quindi i garanti del flusso delle materie prime i cui prezzi erano e sono fissati in dollari. A questo bisognava aggiungere le vendite di macchinari e derrate alimentari. Questa strategia unificava gli interessi delle società finanziarie con le multinazionali dell’energia e con quelle industriali interessate ad effettuare investimenti diretti in Europa. Fintanto che gli USA erano esportatori netti tutto sembrava andar liscio. Il deflusso di denaro dagli USA tramite crediti ed investimenti diretti veniva rispeso su prodotti USA (macchinari e derrate) o di proprietà di società USA (petrolio ed altre multinazionali). Sembrava aver raggiunto la quadratura del cerchio. Non solo le multinazionali USA si aprivano degli spazi fondamentali a livello mondiale (…) ma l’estensione di crediti in dollari permetteva ai Paesi capitalistici di ottenere materie prime e petrolio senza doversi ricavare uno spazio imperialista».

    Il Dollar Exchange Standard non si limitò, tuttavia, a fungere da strumento egemonico degli Stati Uniti, ma rese possibile l’avanzata dell’Europa, che iniziò ben presto ad acquisire un crescente peso economico, specialmente in seguito alla sottoscrizione, da parte di Repubblica Federale Tedesca, Italia, Francia, Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo, del Trattato di Roma del 1957, che preluse alla costituzione, l’anno seguente, della Comunità Economica Europea. Va tuttavia ricordato che furono i fondi previsti dal Piano Marshall, che gli Stati europei accettarono in cambio della propria sovranità politica, ad imprimere un forte impulso alla ripresa economica del vecchio continente, impedendo che la necessaria ricostruzione dell’immediato dopoguerra si infrangesse sullo scoglio rappresentato dai vincoli della bilancia dei pagamenti di ogni singolo Paese. A ben guardare, la particolare linea operativa portata avanti da Washington produsse effettivamente ricadute molto più positive sull’Europa e sul Giappone che sugli stessi Stati Uniti, i quali, fungendo anche da mercato di sbocco per le merci prodotte in Europa, non stavano riuscendo a crescere in misura analoga a quella capitalizzata dalla Comunità Economica Europea (il cui export, nel 1960, fu superiore a quello statunitense) e si videro costretti a far leva sull’enorme spazio di manovra garantito dal ruolo di valuta di riferimento di cui era titolare il dollaro per emettere una quantità esorbitante di moneta tesa a finanziare il proprio deficit, che stava cominciando a crescere in maniera preoccupante. Il consigliere economico del presidente Charles De Gaulle, Jacques Rueff, aveva preso atto di come la convertibilità tra dollaro ed oro fosse divenuta ormai soltanto di facciata, in quanto il dollaro aveva ormai acquisito lo status di moneta fiduciaria solo formalmente ancorata ad un valore fisico reale. Rueff fece quindi notare a De Gaulle come questo stato di cose fosse garante di pesanti squilibri valutari e consentisse agli Stati Uniti di accumulare deficit crescenti nella bilancia commerciale senza pagarne il prezzo corrispettivo. Confortato dai numerosi riscontri empirici messi in evidenza dal suo consigliere economico, il generale Charles De Gaulle levò pubblicamente la propria voce contro l’operato statunitense, avanzando forti dubbi sulla reale possibilità, da parte degli Stati Uniti, di convertire in oro l’intera massa monetaria immessa in circolazione. «Riteniamo necessario – affermò De Gaulle nel corso della celebre conferenza stampa del 4 febbraio 1965 – che gli scambi internazionali si stabiliscano, come era prima delle grandi catastrofi mondiali, su una base monetaria indiscutibile e che non porti il marchio di alcun Paese».

    Ma già prima che De Gaulle lanciasse tale monito si era verificato un crescente afflusso di detentori di valuta statunitense intenzionati a scambiare i propri dollari in oro, erodendo le riserve auree statunitensi. Ciò aveva portato Washington ad esercitare forti pressioni sui propri alleati (Paesi europei e Giappone), dai quali era riuscita infine ad ottenere la ratifica, nel 1961, di un trattato che limitava il diritto alla conversione ai soli dollari depositati nelle rispettive banche centrali. La Repubblica Federale Tedesca, tuttavia, aveva sviluppato il proprio sistema industriale a livelli tali da superare in competitività il concorrente statunitense, attirando una forte pressione al rialzo sul marco che costrinse la Bundesbank ad acquistare grandi quantità di dollari sui mercati valutari per mantenere le parità prestabilite. In breve tempo la stessa Bundesbank, vista e considerata l’inefficacia dei propri interventi di fronte alle speculazioni a favore della moneta tedesca, fu però costretta a ritirarsi per lasciar fluttuare il valore del marco, il quale cominciò a subire una serie di rivalutazioni che misero parzialmente in ombra il prestigio e la centralità del dollaro, assestando un colpo molto duro al vacillante sistema di Bretton Woods.

    Così, dopo ben tre recessioni (1953/1954, 1957/1958, 1960/1961), le turbolenze generate dalla politica adottata da De Gaulle e la prorompente ascesa tedesca, Washington decise di portare fino in fondo il keynesismo militare, varando un robusto piano di riarmo nucleare (patrocinato da John Fitzgerald Kennedy) in previsione di un’escalation in Estremo Oriente. L’acuirsi della crisi nel sudest asiatico in seguito all’inarrestabile avanzata della fazione filosovietica del Vietnam del Nord stava infatti spingendo Washington a prendere in considerazione la possibilità che un’eventuale ed assai probabile successo conseguito da Ho Chi Minh avrebbe verosimilmente potuto rinsaldare l’asse comunista Mosca-Pechino-Hanoi. Sotto il profilo prettamente economico, invece, gli USA erano preoccupati per la crescente popolarità che le tesi comuniste stavano conoscendo in buona parte del Terzo mondo (contro cui gli USA cominciarono a scagliarsi con inaudito vigore), che avrebbero dovuto continuare a fornire materie prime a costi sufficientemente bassi da assicurare un consistente margine di guadagno alle imprese multinazionali statunitensi senza inceppare la crescita economica europea e giapponese. L’intervento diretto statunitense, ordinato dal presidente Lyndon Johnson (subentrato a Kennedy, appena assassinato per ragioni presumibilmente legate alla guerra) per sventare queste minacce, comportò un ulteriore aumento delle spese militari (che tornarono a superare il 10% del PIL) che il governo, tuttavia, scelse di non finanziare attraverso l’inasprimento della pressione fiscale a carico della popolazione nordamericana, che stava peraltro dimostrando una crescente irritazione nei confronti del conflitto. Le continue difficoltà incontrate dall’economia statunitense finirono rapidamente per entrare in rotta di collisione con i costi del conflitto in Vietnam e con gli sproporzionati consumi del popolo nordamericano, provocando un crescente disavanzo con l’estero che raggiunse i 36 miliardi di dollari nel 1967, a fronte del progressivo assottigliamento delle riserve auree che passarono da oltre 20 a 12 miliardi di dollari nell’arco di un decennio. Il governo di Parigi propose allora di rivalutare l’oro, incassando lo sdegnoso rifiuto da parte di Washington e Londra (poiché anche la sterlina, che rappresentava il secondo caposaldo del sistema scaturito da Bretton Woods, avrebbe subito una forte svalutazione in seguito ad una manovra simile). Per tutta risposta, De Gaulle annunciò l’imminente revoca del trattato del 1961 ed iniziò immediatamente a convertire in oro (il cui valore al mercato di Londra schizzò letteralmente verso l’alto) tutte le riserve di valuta statunitense depositate nella Banque de France, innescando una reazione a catena che portò numerosi Paesi ad emulare tale esempio. Londra cedette alle pressioni internazionali accettando di svalutare del 14% la sterlina, cosa che contribuì pesantemente ad incrementare le richieste di conversione in oro della valuta statunitense. Nel marzo del 1968, Johnson, conscio dell’impossibilità statunitense di soddisfare tali richieste, dispose di concerto con Londra la sospensione temporale del mercato dell’oro e ordinò successivamente di trasferire le residue riserve auree nei forzieri di Fort Knox. Alcuni economisti avevano allora suggerito di allentare i controlli sulle esportazioni di capitale allo scopo di favorire la conquista del mercato europeo da parte delle multinazionali americane, ma ciò avrebbe ulteriormente aggravato lo stato della bilancia dei pagamenti. In altre parole, «Non esistono – annotava Henry Kissinger, fresco di nomina a capo del Comitato per la Sicurezza Nazionale – accorgimenti monetari attraverso i quali gli altri Paesi concederanno agli Stati Uniti la completa libertà di fare spese estere nella misura da essi desiderata, siano esse per difesa, aiuti, investimenti o importazioni. Anche sotto un regime di limitata flessibilità, che aiuterebbe entro certi limiti, gli Stati Uniti sarebbero soggetti a vincoli sia interni sia internazionali, se il dollaro dovesse tangibilmente deprezzarsi sui mercati del cambio in seguito a eccessive spese estere».

    Per le alte sfere statunitensi, il problema consisteva dunque nell’architettare un sistema che permettesse a Washington di effettuare investimenti esteri in misura illimitata, scaricando su altri le relative ripercussioni. Nel frattempo la Comunità Europea stava avviando il processo di definitiva applicazione del Piano Werner finalizzato a realizzare la completa Unione Monetaria Europea (UEM) nell’arco di un decennio. Vennero così ridotti i margini di oscillazione (dallo 0,75% allo 0,60%) consentiti rispetto alla parità tra monete, ma la Germania si vide subito costretta a lasciar fluttuare il marco per effetto del massiccio afflusso di dollari presso la Bundesbank. Ma nonostante questo inquietante segnale premonitore, l’Europa, la cui industria ormai ricostruita era riuscita a colmare il gap con quella statunitense, rappresentava comunque un serio concorrente per gli USA, specialmente grazie all’UEM che, secondo alcun autorevoli economisti come Arthur Bloomfield, avrebbe incrementato il potere contrattuale europeo in campo monetario, determinato una riduzione dei flussi di capitale tra gli USA e la Comunità Europea e ridimensionato il ruolo del dollaro come riserva valutaria internazionale. Queste difficoltà, aggiuntive a quelle segnalate da Kissinger, connesse alle mosse strategiche europee costrinsero il governo statunitense a prendere in considerazione l’ipotesi di ripudiare univocamente gli accordi di Bretton Woods, specialmente in seguito a un documento della Federal Reserve in cui si sottolineava che: «Se prendiamo l’iniziativa, coglieremo di sorpresa gli altri Paesi, e in particolare quelli della Comunità Europea, prima che siano in grado di elaborare una posizione coordinata per affrontare la crisi, e avremo maggiori possibilità di prevalere nei negoziati successivi».

    Di fronte alla pericolosa situazione venutasi a creare, il nuovo presidente Richard Nixon decise quindi di procedere. Nel luglio del 1971, il presidente inviò in gran segreto Kissinger, trasferitosi nel frattempo al Dipartimento di Stato, nella Cina comunista per trattare direttamente con il leader effettivo Zhou Enlai e quello spirituale Mao Tze Tung sia le questioni strategiche legate al contenzioso con l’Unione Sovietica, in Guerra Fredda con gli USA e allo stesso tempo in conflitto ideologico e geopolitico con la Cina (per via della vicinanza di Mosca ai comunisti vietnamiti, assai malvisti da Pechino), sia i termini economici, legati al riconoscimento della Repubblica Popolare Cinese da parte di Washington, di quella che sarebbe poi diventata una cruciale intesa strategica per entrambi i Paesi, suggellata dalla visita ufficiale del presidente Nixon a Pechino nel 1972. Grazie al lavoro oscuro svolto da Kissinger e Zhou Enlai, gli Stati Uniti riuscirono infatti a trovare un formidabile mercato di sbocco per le proprie merci, mentre la Cina cominciò ad usufruire dei flussi costanti di investimenti esteri americani, che sono alla base del poderoso rilancio industriale avviato da Deng Xiao Ping. Parallelamente, Kissinger sabotò la politica mediorientale, incardinata sulla risoluzione ONU 242, portata avanti dal Dipartimento di Stato nel 1969 e nel 1970, blindando l’alleanza strategica con Israele e gettando le basi per una presenza costante delle forze armate statunitensi in quella cruciale regione e suscitando il plauso delle grandi compagnie petrolifere.

    Gratificato dal raggiungimento dell’intesa segreta raggiunta con i cinesi e soddisfatto delle manovre di Kissinger, Nixon decise a quel punto di vibrare il colpo finale al Dollar Exchange Standard; il 15 agosto del 1971, Nixon proclamò, nel corso di una diretta televisiva, il lancio del New Economic Policy (NEP), un nuovo piano di riforme economiche che prevedeva l’adozione di un pacchetto di stimoli atti a favorire la crescita e gli investimenti produttivi, il congelamento per i tre mesi successivi dei prezzi e dei salari in tutto il Paese, l’imposizione di un dazio doganale supplementare (pari al 10%) sulle importazioni e, soprattutto, la fine della convertibilità dei dollari in oro (per i non residenti) e del sistema dei cambi fissi tra valute. In altre parole, l’alto prezzo della guerra del Vietnam, con la crescita parallela del debito pubblico e del deficit della bilancia dei pagamenti accumulato dagli Stati Uniti, connesso ai rischi derivanti dall’affermazione europea, spinse Washington a dichiarare superata la centralità dell’oro in favore di un nuovo modello economico fondato sulla fluttuazione dei tassi di cambio, in cui il valore del dollaro, sostenuto internazionalmente dalla potenza poltico-economico-militare statunitense, sarebbe stato determinato dal meccanismo classico di domanda e offerta. Ciò rese il dollaro una moneta completamente fiduciaria e consolidò il potere finanziario di Washington a scapito degli alleati. Non a caso, da quel momento, «Il dollaro è [diventato] al tempo stesso la nostra moneta e il vostro problema», come ebbe a dire, con notevole arroganza, agli europei l’allora segretario al Tesoro John Connally. Da allora gli USA hanno potuto provvedere al finanziamento degli investimenti esteri in misura pressoché illimitata, limitandosi a stampare moneta che il resto del mondo avrebbe dovuto accettare come pagamento in quanto riserva valutaria internazionale, agevolando l’invasione del mercato statunitense da parte di una quantità di beni stranieri (prodotti soprattutto in Germania e in Giappone) tale da scavare un’autentica voragine (mai colmata) nella bilancia dei pagamenti. L’imposizione della propria divisa su scala internazionale permise quindi agli USA di iniziare a comprare la produzione reale in tutto il mondo, certificando implicitamente, sul piano squisitamente concettuale, la validità delle previsioni relative all’imperialismo elaborate da Lenin nel 1917, le quali ritenevano che una fase fondamentale dell’evoluzione capitalistica fosse rappresentata dall’espansione internazionale del capitale monopolistico finalizzata ad esercitare un controllo politico ed economico di entità sociali e territoriali più arretrate, escludendo il ricorso alla modalità di dominio diretto sperimentata durante l’epoca del colonialismo.

    Nell’immediato, comunque, la sospensione della convertibilità del dollaro in oro e la trasformazione del dollaro in moneta fluttuante fecero in modo che il mercato internazionale piombasse nel caos più assoluto, spingendo i ministri del Tesoro e i governatori delle Banche Centrali delle nazioni facenti parte del G10 (Belgio, Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Olanda, Regno Unito, Stati Uniti, Svezia e Svizzera) a riunirsi presso la sede dello Smithsonian Institute nel dicembre del 1971, nel tentativo di salvare l’agonizzante Gold Exchange Standard fissando nuovi rapporti di parità. La sproporzione tra dollari circolanti e oro detenuto dalla Fed era però tale da richiedere un amento del prezzo dell’oro del 400% almeno, cosa che avrebbe minato definitivamente la già vacillante fiducia internazionale nei confronti del dollaro. Gli Stati Uniti, per niente disposti ad accettare questa soluzione, fecero valere il proprio peso specifico per far naufragare tutte le proposte avanzate dai rappresentanti stranieri presenti a quella riunione, i quali giunsero addirittura (con l’onorevole eccezione di Charles De Gaulle) ad approvare una clausola che prevedeva il divieto di fissazione di qualsiasi limite temporale alla decisione americana (che nel 1977 venne definitivamente scolpita su pietra grazie alla fissazione del principio di inconvertibilità assoluta del dollaro, valido e applicabile tanto nei confronti delle valute alternative quanto dei vari metalli preziosi). Fu la fine di Bretton Woods. Si riuscì solo a raggiungere un’intesa in base alla quale il dollaro si svalutò dell’8%, innescando automaticamente i meccanismi di rivalutazione di marco, yen e franco svizzero.

    Nel 1972, la pubblicazione dei dati relativi ai deficit statunitensi mosse una poderosa ondata speculativa contro il dollaro guidata proprio dalle grandi banche statunitensi che, unitamente alle dinamiche di sganciamento dall’oro, provocò una svalutazione della divisa statunitense pari a circa il 40%. Dal momento che era proprio il dollaro a regolare il mercato petrolifero mondiale, il suo deprezzamento avrebbe ridimensionato gli introiti dei Paesi produttori e del cartello oligopolistico delle cosiddette sette sorelle. Ciò avrebbe potuto portare i Paesi produttori a richiedere valute più stabili del dollaro per i pagamenti delle forniture di petrolio, e aggravato il problema delle rendite petrolifere, che erano in calo per questioni monetarie nei bilanci dell’oligopolio petrolifero. Le compagnie che componevano tale oligopolio (che controllava quasi l’intera produzione mondiale) commissionarono allora uno studio alla Chase Manhattan Bank, (appartenente al gruppo Rockefeller), che consegnò la propria relazione finale nel 1972; essa conteneva una serie di raccomandazioni attraverso cui si evidenziava la necessità di eliminare i controlli sui prezzi e di abolire i dazi sulle importazioni di oro nero, favorendo la libera circolazione del greggio in vista di un aumento dei prezzi indispensabile al mantenimento della sicurezza energetica nazionale. Le necessità indicate nel rapporto redatto dall’istituto bancario Chase Manhattan Bank (nata dall’unione tra la Chase National Bank dei Rockefeller e la Bank of the Manhattan Company vicina al gruppo Warburg e poi a sua volta trasformatasi, in seguito alla fusione con la banca JP Morgan, nel colosso JP Morgan Chase) erano in parte basate sulle teorie di Marion K. Hubbert, relative all’approssimarsi del cosiddetto picco della produzione statunitense, che aveva iniziato a calare attorno al 1970. Hubbert riteneva che la produzione petrolifera seguisse una specifica legge matematica esprimibile all’interno di un grafico mediante una curva che dal basso cresce costantemente e sempre più rapidamente fino a un culmine massimo, raggiunto il quale inizia un altrettanto costante e repentina decrescita verso il basso. In altre parole, la produzione di ogni giacimento crescerebbe progressivamente fino a raggiungere un picco che corrisponde allo sfruttamento di metà delle riserve; raggiunto il picco, inizierebbe il declino. Questo metodo ha consentito ad Hubbert di profetizzare con largo anticipo (1956) che il picco petrolifero statunitense sarebbe stato raggiunto nel corso degli anni ’70, e che da allora in poi la produzione avrebbe subito un inesorabile declino. Ciò che viene regolarmente ignorato in relazione al vaticinio di Hubbert è che di esso si servirono allora le grandi compagnie petrolifere angloamericane per perseguire i propri scopi.

    A livello generale, la teoria del picco fu indispensabile per giustificare l’esorbitante rincaro del prezzo del petrolio. Gli studi di Hubbert fornirono infatti i presupposti logici necessari a legittimare le misure d’emergenza raccomandate dalla Chase Manhattan Bank, producendo un rilevante surriscaldamento dei mercati internazionali capace di insinuare un clima di tensione dettato dal timore che la declinante produzione statunitense avrebbe finito per costringere Washington a ricorrere alle importazioni per far fronte alle crescenti necessità interne (gli Stati Uniti erano stati, fino a quel momento, autosufficienti dal punto di vista energetico), aumentando considerevolmente la domanda internazionale di greggio e sortendo quindi pesanti ripercussioni sul prezzo del petrolio.

    Sul versante locale, l’applicazione delle direttive indicate all’interno dalla relazione emessa dalla Chase Manhattan Bank, offrirono alle compagnie Exxon, Mobil, Texaco e Socal la possibilità di invadere il mercato statunitense con una quantità esorbitante di petrolio grezzo a basso costo proveniente dall’Arabia Saudita tramite la controllata Saudi Aramco, per stritolare economicamente i piccoli e medi produttori locali e costringerli a chiudere, consolidando il predominio del potente cartello petrolifero.

    L’evento destabilizzante in grado di produrre l’effetto indicato dalla Chase Manhattan Bank si concretizzò il 6 ottobre del 1973, quando Siria ed Egitto entrarono in conflitto con Israele per la riconquista delle regioni del Golan e del Sinai occupate dallo Stato ebraico nel 1967. La Guerra dello Yom Kippur fu un evento alquanto particolare, perché fu preceduto da chiari segnali di allarme provenienti dall’Egitto, che sotto la presidenza di Anwar al-Sadat aveva dapprima espulso il personale tecnico sovietico, compromettendo un’alleanza che aveva garantito al Paese aiuti di natura sia civile che militare messi a disposizione da Mosca, e successivamente proclamato dichiarazioni e organizzato manovre militari alquanto inequivocabili. L’intelligence, non a caso, informò Tel Aviv dell’imminenza dell’attacco egiziano, ma ciò non impedì alle forze siriano-egiziane di colpire piuttosto duramente l’aviazione e le forze di terra israeliane. Alcuni analisti tendono a giustificare la sbalorditiva inadeguatezza militare dimostrata da Israele in quell’occasione specifica con motivazioni di carattere eminentemente politico, secondo cui fu in realtà l’intervento diretto di Kissinger a convincere, dietro la minaccia del blocco dei finanziamenti che gli USA concedevano (e continuano a concedere) annualmente allo Stato ebraico, i dirigenti di Tel Aviv a tenere un profilo artificiosamente passivo di fronte alla minaccia incombente.

    Mentre conflitto infuriava, Arabia Saudita ed Abu Dhabi decretarono il blocco degli approvvigionamenti di idrocarburi destinati agli Stati Uniti e a tutti i Paesi accusati di sostenere Israele, ma le grandi compagnie petrolifere fecero leva sulla collaborazione accordata dallo Shah di Persia Reza Pahlavi per aggirare l’embargo e garantire comunque il regolare afflusso di petrolio. Quando Israele riuscì poi a rovesciare la situazione e ad avere la meglio sui propri avversari, l’Organizzazione dei Paesi Produttori di Petrolio (OPEC) decretò un primo aumento del prezzo di riferimento dell’oro nero da 3,01 a 5,11 dollari al barile prima di procedere a una seconda rivalutazione l’anno seguente, che fece toccare al greggio quota 11,65 dollari per barile, per un aumento complessivo del 400% circa. Secondo gli stessi analisti che hanno parlato di passività artificiosa israeliana pilotata dagli Stati Uniti, questo rincaro petrolifero rappresenterebbe il punto d’approdo di un’ambiziosissima e complessa operazione orchestrata dietro le quinte dal presidente Richard Nixon e dal segretario di Stato Henry Kissinger, dalle compagnie petrolifere americane, dagli sceicchi arabi e dallo Shah di Persia Reza Pahlavi nel corso della riunione del Gruppo Bilderberg (un gruppo di pressione che riunisce i più influenti personaggi dell’establishment politico, economico e giornalistico di Europa e Stati Uniti) del maggio 1973 a Saltsjoebaden, in Svezia . Tema centrale della discussione era la questione politico economica europea, con particolare riferimento alla individuazione e alla stima delle possibili ricadute sui rapporti tra Stati Uniti ed Europa (incrinati per via dell’arrogante unilateralismo del duo Nixon Kissinger) che avrebbe potuto provocare l’adozione di una politica energetica e di sicurezza di carattere comunitario da parte del vecchio continente. Secondo documenti resi pubblici molti anni dopo , nel corso dell’incontro, cui presero parte ospiti alquanto illustri come Lord Richardson e Lord Greenhill della British Petroleum, Robert O. Anderson dell’americana Atlantic Ritchfield Corporation (ARCO), Eric Roll della Warburg, George Ball della Lehman Brothers, David Rockefeller, Zbigniew Brzezinski, Arthur Dean, Giovanni Agnelli ecc., era stata prospettata la possibilità di sacrificare la crescita economica mondiale allo scopo di favorire il quadruplicamento del prezzo del petrolio, in modo da rafforzare il dollaro e affidare ad alcune banche angloamericane accuratamente selezionate (Chase Manhattan Bank, Citibank, Barclays, Lloyds, ecc.) il compito di gestire il processo di riciclaggio dei petrodollari che avrebbe preso automaticamente vita, consolidando lo strapotere degli istituti bancari di Londra e New York e del potente cartello oligopolistico del petrolio. La Guerra del Kippur sarebbe quindi stata l’evento catalizzatore che gli USA e i loro alleati sfruttarono per produrre tale esito finale.

    Nel 1979, la rivoluzione islamica guidata dall’Imam Ruhollah Khomeini provocò la cacciata dello Shah di Persia e l’insediamento al potere di una classe dirigente estremamente ostile agli Stati Uniti e ai Paesi occidentali. Il successo della rivoluzione spinse alcune frange sciite interne all’Arabia Saudita ad emulare l’esempio iraniano. L’altro evento destabilizzante (oltre allo scoppio del conflitto per procura tra Iran ed Iraq, con Saddam Hussein che si adoperò per fare il gioco degli USA) fu l’occupazione della Grande Moschea della Mecca ad opera di alcuni gruppi estremisti sunniti, indignati per la corruzione e la sudditanza verso gli Stati Uniti da parte del regime saudita. L’insurrezione, oltre a contribuire a provocare l’aumento del prezzo del greggio da 12,70 a 28,76 dollari al barile, minacciava di portare al potere anche in Arabia Saudita una classe dirigente animata da marcati sentimenti antioccidentali, ingrossando le fila dei Paesi rivoltosi interni all’OPEC. Gli Stati Uniti barattarono allora il proprio aiuto, necessario a stroncare la rivolta, con l’impegno solenne, da parte del governo di Riad, di negoziare i propri prodotti petroliferi solo ed esclusivamente in valuta statunitense, cosa che poi, sulla scorta dei sauditi, accettarono di fare, dietro fortissime pressioni esercitate da Washington, gran parte dei restanti Paesi produttori di petrolio. Questo meccanismo avrebbe, da quel momento in poi, di fatto obbligato i Paesi consumatori ad acquistare dollari per garantirsi il proprio fabbisogno petrolifero.

    Riassumendo: il primo shock petrolifero, incardinato sull’aumento vertiginoso del prezzo del greggio, permise agli Stati Uniti di salvaguardare il ruolo di moneta di riferimento internazionale di cui era titolare il dollaro e di adottare una linea politica espansiva fondata sui prestiti esteri verso i Paesi del terzo mondo gestita dalle grandi banche commerciali, ma si ripercosse inesorabilmente (come osservato in precedenza) tanto su questi ultimi, che finirono progressivamente strozzati dal capestro del debito, quanto sui sistemi produttivi europeo e giapponese, penalizzando le rispettive bilance commerciali (nel 1974, i Paesi maggiormente industrializzati dello schieramento capitalistico registrarono un deficit commerciale pari all’inaudita cifra di 35 miliardi di dollari) inaugurando una profonda e drammatica fase recessiva (che comportò fallimenti aziendali a catena, aumento della disoccupazione e innalzamento dei tassi di inflazione) che colpì, seppur parzialmente, anche gli stessi Stati Uniti (Ford e General Motors, assieme a tante altre compagnie dipendenti dal petrolio, furono costrette a licenziare milioni di lavoratori), i quali ebbero comunque modo di conoscere un incremento dei consumi energetici del 20% a fronte di un crollo del 25% registrato a livello planetario. Le necessità economico-finanziarie statunitensi condensatesi nella politica estera condotta da Herny Kissinger gettarono le basi affinché presso l’intero Medio Oriente si instaurasse un clima di guerra permanente e i Paesi del terzo mondo venissero progressivamente risucchiati nella crisi del debito che esplose in maniera dirompente negli anni ’80. Da questo spietato gioco al massacro ideato da Kissinger trassero invece beneficio, oltre alle già citate banche commerciali, le grandi imprese multinazionali (sulle 100 più potenti del mondo, ben 27 erano di origine statunitense verso la fine degli anni ’90), che grazie al nuovo status ottenuto dalla divisa statunitense riuscirono a raddoppiare gli investimenti esteri da 7,5 a 14,2 miliardi di dollari nell’arco del quinquennio 19701975. Grandi vantaggi spettarono anche alle grandi compagnie petrolifere, le quali ebbero la possibilità di moltiplicare esponenzialmente i propri profitti e di trovare anche la legittimazione politica degli alti prezzi per avviare una serie di estrazioni offshore nel Mare del Nord e nelle gelide acque territoriali dell’Alaska.

    Con il secondo shock petrolifero, determinato dall’ascesa di Khomeini e dallo spauracchio saudita, l’ancoraggio del dollaro al petrolio divenne invece granitico, consolidando l’era dei petrodollari aperta nel 1973, pur a spese dell’intero comparto industriale degli Stati Uniti.

    Il governatore della Federal Reserve (Fed) Paul Volcker, preoccupato dall’endemica instabilità monetaria susseguente al ripudio di Bretton Woods, decise di operare una drastica stretta creditizia (credit crunch) elevando i tassi di interesse a livelli ben superiori a quello d’inflazione. Questa mossa servì indubbiamente a stabilizzare e rafforzare il dollaro a spese dei concorrenti, che per mantenersi competitivi sul mercato dei capitali si videro costretti ad elevare i propri tassi di interesse. Dal momento che i prestiti da essi contratti erano agganciati al dollaro ed erano regolati da tassi variabili, gli interessi aumentarono esponenzialmente determinando numerose crisi debitorie nei Paesi maggiormente esposti nei confronti degli USA. Il dissesto economico in cui caddero molti Paesi in via di sviluppo canalizzò un flusso sempre crescente di investimenti negli Stati Uniti, consolidando il ruolo di Wall Street come perno finanziario mondiale, mentre sul piano interno fu la popolazione statunitense a pagare il prezzo di tale linea restrittiva per effetto del declino dei servizi statali e della riduzione di posti di lavoro dovuta alle delocalizzazioni da parte delle grandi imprese (specialmente quelle operanti nel settore della grande distribuzione) incoraggiata dalla politica del dollaro forte. A livello generale, si manifestò una inversione di tendenza, in cui l’incrementata capacità di attrarre capitali da parte dei Paesi industrializzati e ad alto reddito allargò nuovamente la forbice con quelli più deboli, dopo un decennio durante il quale si era verificato il fenomeno opposto. La stretta monetaria effettuata da Volcker non influenzò però il pericoloso andamento dell’economia reale, danneggiata dal profondo deficit della bilancia dei pagamenti indotto dagli elevatissimi consumi interni e dal costante declino industriale radicalmente aggravato dagli shock petroliferi. La crisi originaria dell’industria statunitense era però imputabile anche ad altri fattori. Aldo Giannuli, storico e studioso dell’economia, osserva che: «A partire dalla fine degli anni ’70, iniziarono a manifestarsi i primi segnali della crisi: le spese militari, la burocratizzazione dell’apparato welfarista, le aspettative crescenti suscitate da esso condussero alla crisi fiscale dello Stato. D’altro canto, una serie di fenomeni socioculturali, come l’applicazione dell’informatica ai cicli produttivi, la trasformazione delle città, l’introduzione delle tecnologie digitali nella vita quotidiana, la sempre più debole identificazione dell’individuo con il proprio ruolo produttivo a vantaggio di una maggiore sensibilità per la propria collocazione di consumatore, iniziarono a logorare [il] blocco sociale [lavorista]». Questa disillusione spinse le aziende statunitensi a delocalizzare la produzione in America Indio-latina e in Asia orientale, integrando nei cicli produttivi interi eserciti di manodopera a basso costo che si sostituirono progressivamente ai lavoratori salariati negli Stati Uniti. Ciò determinò un crescente declino del settore manifatturiero, trasformando gli Stati Uniti da punta di diamante del mondo industrializzato a grande supermercato dotato di un’economia basata sui servizi, dove il consumo è arrivato a corrispondere a una quota del Prodotto Interno Lordo (PIL) superiore al 70%. «Si teorizzò allora – scrive Giannuli – l’inizio di un’era postindustriale, in quanto l’industria rappresentava una forma di produzione più arretrata al terziario emergente. Ormai, sulla produzione materiale prevaleva quella immateriale, e quindi la produzione di merci era diventata meno decisiva. Il nuovo capitalismo sarebbe stato un capitalismo cognitivo».

    Tale cambiamento di pelle del sistema produttivo determinerà pesanti squilibri che, a loro volta, sfoceranno in cicliche crisi congiunturali, aggiustamenti, sviluppi drogati, guerre valutarie, ecc. Mentre il comparto industriale europeo cominciava ad essere interessato da un lento ma costante deterioramento e l’Unione Sovietica imprimeva una forte accelerata al processo di riarmo che si sarebbe poi rivelato fatale, gli Stati Uniti ebbero modo di affinare l’arte di invadere i mercati mondiali con il loro massimo strumento di penetrazione, ovvero il dollaro. Il che, oltre ad essere alla base della soverchiante bolla monetaria che è finita per gravare sul pianeta, diede l’impulso fondamentale per l’innesco di processi cruciali quali la nascita dell’euro, l’organizzazione (un po’ ovunque nel mondo) di sistemi finalizzati al contenimento dei contraccolpi che produrrebbe il ripetersi di un evento traumatico come l’abbandono della copertura aurea, e lo sviluppo prorompente della Repubblica Popolare Cinese.

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    Capitolo 2

    Gli squilibri indotti dalla globalizzazione

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    Dal primo shock petrolifero in poi, l’economia capitalistica a guida statunitense è stata segnata da cicli di crescita rapida e breve depressione che hanno determinato una lunga fase di sviluppo lenta e molto stentata. Lo slancio economico che aveva preso vita subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale era ormai giunto al punto di saturazione, provocando brevi periodi di crisi recessive cui facevano seguito affannosi tentativi di recupero. In alcuni Paesi dell’Asia orientale, il fenomeno non si manifestò, per via all’abilità di dirigenze politiche (Deng Xiao Ping in Cina, soprattutto) capaci di affrontare la globalizzazione indotta dal perno irradiante statunitense senza esporre gli Stati nazionali alle devastanti ripercussioni strutturali verificatesi in tutto il resto dei Paesi in via di sviluppo. Gli interventi pubblici a sostegno dell’industria, guidata magistralmente grazie a efficaci forme di dirigismo economico, consentirono a Paesi come la Cina di registrare tassi annui di crescita vicini al 10%. Lo sviluppo poderoso dell’Asia orientale non riuscì però a compensare il declino economico generalizzato. Il tasso di crescita del PIL (PIL) mondiale diminuì dal 5% circa capitalizzato durante il periodo interessato dal boom economico – che si protrasse dal dopoguerra (1946) al primo shock petrolifero (1973) – al 3% della fase successiva – che va dal 1973 alla caduta del Muro di Berlino (1989) –, con il 40% circa di calo relativo. Questa lunga fase recessiva trasse origine dall’esaurirsi della domanda mondiale dovuta alla saturazione del processo di allocazione delle merci, che segnalava un forte eccesso produttivo e alimentava una forsennata competizione economica tra le varie potenze planetarie.

    L’Europa e il Giappone erano risorte dalle macerie della Seconda Guerra Mondiale beneficiando degli aiuti concessi da Washington e, canalizzando i propri prodotti verso il mercato di sbocco statunitense, erano cresciuti economicamente al punto da insidiare il primato industriale detenuto dagli Stati Uniti. L’insieme dei Paesi più industrializzati raggruppava una capacità produttiva che il pianeta, abitato in larghissima parte da popolazioni povere, non era assolutamente in grado di assorbire. La tendenza al trasferimento dell’attività produttiva verso il gruppo dei Newly Industrializating Countries (NIC), che riuniva Hong Kong, Taiwan, Singapore e Corea del Sud, contribuì inoltre ad incrementare ulteriormente l’eccesso produttivo. I NIC cercavano di conquistare fette sempre maggiori del mercato mondiale propugnando abili strategie economiche che permisero a tale aggregato geoeconomico di portare dall’1 al 7% la propria quota di esportazioni mondiali nel corso dell’arco temporale che va dal 1950 al 1975. Le più serie minacce portate alla supremazia economica statunitense erano tuttavia rappresentate da Repubblica Federale Tedesca e Giappone che, grazie alla poderosa crescita interna cui erano soggetti, stavano incrementando costantemente il proprio peso nell’ambito delle esportazioni mondiali. Il Giappone, in particolare, era riuscito nell’impresa di crescere a ritmi estremamente sostenuti mantenendo basso il valore dello yen, cosa che conferiva alle proprie merci un decisivo vantaggio competitivo su quelle prodotte dai propri concorrenti dotati di valute pesanti, favorendo la penetrazione economica giapponese nei mercati mondiali. Gli Stati Uniti di Ronald Reagan, preoccupati dall’ascesa giapponese e tedesca e danneggiati dalla recessione (e da tutte le relative ripercussioni ad essa legate), imposero un vasto programma di ristrutturazione volto in buona sostanza a costringere Volcker ad abbandonare la politica del dollaro forte.

    Sotto la direzione di Reagan, Washington fece valere tutto il proprio potere politico e militare per regolare i conti con i propri concorrenti. Il 22 settembre del 1985 i ministri delle Finanze di Stati Uniti, Giappone, Repubblica Federale Tedesca, Francia e Gran Bretagna (i cinque Paesi più industrializzati) si riunirono all’Hotel Plaza di New York per discutere le modalità attraverso cui si sarebbe dovuta attuare questa riconfigurazione dell’economia mondiale. Al termine del summit fu stipulato un accordo che sancì l’apprezzamento dello yen e pose le basi per la rivalutazione progressiva del marco tedesco, attraverso un colossale programma di vendita di valuta statunitense da parte delle Banche Centrali dei Paesi industrializzati, quantificato in circa sei miliardi di dollari dall’istituto svizzero UBS. Grazie a questo atto di forza, Washington ebbe modo di rovesciare la politica restrittiva portata avanti dalla Federal Reserve guidata da Paul Volcker e trasferire la recessione sui propri concorrenti, allo scopo di restituire, attraverso il dollaro svalutato, competitività alle merci statunitensi sui mercati mondiali. Giappone e Germania Ovest sprofondarono puntualmente nella recessione, ma ciò si ripercosse pesantemente anche negli stessi Stati Uniti, poiché i due più grandi concorrenti rappresentavano anche i maggiori mercati di sbocco dei prodotti statunitensi. Nel tentativo di stimolare l’economia in funzione antirecessiva, Reagan, in barba alla retorica liberale sullo Stato minimale, aveva anche rilanciato gli investimenti pubblici nel settore bellico approfondendo il solco tracciato in precedenza dai governi Kennedy e Johnson, sia attraverso il massiccio rifornimento di armi ai mujaheddin intenti a combattere l’Armata Rossa in Afghanistan, sia stanziando corposissime somme per la costruzione del cosiddetto scudo stellare, che determinò una crescita delle spese militari del 7% all’anno circa per l’intero arco di tempo che intercorre tra il 1981 e il 1985, con un aumento delle spese militari all’interno del bilancio federale dal 23% al 27%. L’aumento delle spese militari e la svalutazione del dollaro non impedirono tuttavia al comparto dell’industria civile di perdere 1,6 milioni circa di lavoratori nel corso dell’amministrazione Reagan, a fronte di una notevole crescita del complesso militar-industriale, che giunse ad occupare oltre 600.000 unità in più.

    Per far fronte a queste preoccupante situazione, il presidente Bill Clinton rovesciò la situazione cedendo alle pressioni del segretario al Tesoro Robert Rubin, il quale riteneva che un dollaro forte avrebbe riequilibrato la situazione. Il dollaro fu così rivalutato rispetto a yen e marco tedesco, in modo da stimolare la ripresa delle esportazioni giapponesi e tedesche. In altre parole, gli USA tutelarono inizialmente la propria industria a spese degli europei e dei giapponesi, per poi salvare le economie europee e giapponesi a scapito del sistema industriale statunitense. I benefici portati da quest’ultima manovra – che contenne l’inflazione, consentì alla Federal Reserve di mantenere bassi i tassi di interesse, attirò gli investimenti esteri concorrendo a finanziare il deficit commerciale accumulato dal Paese – non impedirono infatti alle merci americane di perdere competitività sia sul mercato interno che su quello internazionale. Le aziende multinazionali, dal canto loro, colsero l’occasione per sussidiare alcune attività a imprese straniere e, soprattutto, per trasferire gli stabilimenti produttivi all’estero, producendo forti ricadute sull’occupazione in patria. In compenso, oltre 90 miliardi di dollari confluirono verso il Messico nell’arco temporale che va dal 1990 al 1994, una quantità di denaro equivalente al 20% circa dell’intero flusso di capitali diretto ai Paesi in via di sviluppo. Questa invasione di capitali esteri, favorita dall’ingresso del Paese nell’area di libero scambio comprendente anche USA e Canada nota come North American Free Trade Agreement (NAFTA, su cui torneremo), fu tuttavia accompagnata da una forte contrazione del PIL e dall’aumento considerevole (oltre il 40%) del tasso di disoccupazione, indotti dai programmi di aggiustamento strutturale somministrati dal Fondo Monetario Internazionale nel corso degli anni ’80.

    L’adesione del Messico al NAFTA favorì inoltre l’invasione di merci prodotte dalle grandi multinazionali statunitensi e canadesi, provocando la rovina di milioni di agricoltori, allevatori e piccole imprese messicane portandole alla bancarotta. La disintegrazione dell’economia legale fece emergere con grande clamore il contrasto con la fioritura del commercio di droga, che generò a sua volta una crescente domanda di ausiliari da reclutare tra le folte schiere di disoccupati. In questa iper redditizia economia parallela, i cartelli della droga si alimentano della miseria di milioni di lavoratori e contadini spinti sul lastrico dall’élite messicana che aveva saccheggiato il tesoro pubblico, speculato sul mercato immobiliare, derubato l’industria petrolifera, e creato enormi monopoli nel settore delle comunicazioni e in quello bancario. Gli USA si inserirono in questo caotico scenario, con il Pentagono che iniziò ad armare il governo messicano, il quale, appoggiato dalla Drug Enforcement Agency (DEA) condusse operazioni di guerra contro i cartelli della droga, assistiti nelle operazioni di riciclaggio dalle maggiori banche degli Stati Uniti. Grazie ai servizi forniti da Citibank, Bank of America, JP Morgan Chase, Wells Fargo, ecc., i signori della droga hanno potuto acquistare più o meno legalmente quantitativi enormi di armi dalle compagnie militari USA, assoldare interi eserciti di mercenari e corrompere politici e membri delle forze dell’ordine su entrambi i fronti. L’entità dello scontro tra forze governative e miliziani al soldo dei cartelli raggiunse il proprio culmine in seguito all’elezione fraudolenta (risalente al 2006) di Felipe Calderón, il quale, incoraggiato tanto dall’amministrazione guidata da George W. Bush quanto da quella retta da Barack Obama, dichiarò solennemente guerra al narcotraffico, nel corso della quale oltre 40.000 soldati scesero per le strade nelle città e nei quartieri aggredendo violentemente i cittadini e provocando la ritorsione dei cartelli, che intensificarono i loro attacchi alle forze di polizia. Nell’arco di pochi mesi, la guerra si estese a tutte le principali città e nelle campagne, causando un aumento esponenziale degli assassinii e delle morti violente che hanno definitivamente gettato il Messico nel caos.

    Ad ogni modo, la deregolamentazione totale del mercato finanziario (specialmente in seguito all’ingresso del Messico nell’OCSE), gli elevati tassi di interesse mantenuti dalle autorità locali e le grandi prospettive di investimento offerte dal Messico avevano attirato questo enorme flusso di capitali, che era però stato dirottato verso i canali speculativi anziché in direzione dell’economia reale. I tassi di interesse, in particolare, vennero elevati a percentuali ben superiori a quelle vigenti nei Paesi industrializzati, assicurando agli investitori la possibilità di raccogliere denaro a Wall Street per riversarlo immediatamente nella vicina economia messicana, lucrando sul differenziale tra il tasso di interesse applicato negli USA (56%) e quello applicato in Messico (1213%). Città del Messico fissò inoltre il tasso di cambio tra peso e dollaro, allo scopo di rendere inattuabile qualsiasi svalutazione competitiva che avrebbe ridimensionato il valore dei capitali, espressi in divisa locale, investiti in Messico dai vari

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