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Vocabolario: Le parole dei mondi più grandi
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Ebook361 pages8 hours

Vocabolario: Le parole dei mondi più grandi

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"Tutto ciò che sappiamo può essere superato, se ne abbiamo il coraggio": su questo principio, Igor Sibaldi fonda la sua nuova psicologia, in cui il meraviglioso, il prodigioso non viene escluso come "non-scientifico", e diventa invece il principale criterio per la scoperta e l'analisi della nostra realtà quotidiana. Di questa nuova psicologia, Sibaldi dà nel Vocabolario l'esposizione più completa, le chiavi del sistema.
LanguageItaliano
Release dateJun 25, 2013
ISBN9788863651614
Vocabolario: Le parole dei mondi più grandi

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    Vocabolario - Sibaldi Igor

    CONSUETE.

    A

    ACCORGERSI. Penso sia il verbo più importante, per chi voglia esplorare la SAPIENZA. Molti ritengono invece che contino di più i verbi CREDERE e CAPIRE. Ma è solo perché temono che l’accorgersi sia troppo semplice.

    Lo è, infatti. La sua semplicità è tale (e talmente temibile) che, spesso, non ci accorgiamo neppure di sapere che cosa significhi accorgersi. In realtà, significa:

    –  notare qualcosa che prima non si era notato;

    –  cambiare idea, rendersi conto di aver avuto torto;

    –  percepire irresistibilmente la verità di qualcosa, dato che non ci si può accorgere di qualcosa che non sia vero; e

    –  fare tutto ciò autonomamente: nessuno, infatti, può obbligarti ad accorgerti di una qualunque cosa (mentre capita spesso che qualcuno riesca a farti credere qualcosa, o a farti capire qualcosa in un determinato modo).

    Il che spiega perché Gesù parli spesso dell’accorgersi, nei Vangeli: quei quattro aspetti del verbo sono proprio le operazioni mentali che vengono richieste ai discepoli prima d’ogni altra, e in qualsiasi circostanza dell’esistenza. Ma per comprensibili motivi, ogni volta che nei Vangeli compare il verbo accorgersi (in greco, metanoein: letteralmente, «far giungere la tua mente più in là»), le versioni consuete lo traducono: «convertirsi», come se dovesse per forza significare il passaggio da una religione a un’altra, cioè da un modo di credere a un altro. Il che davvero non è.

    Al contrario, chi si accorge smette di credere, cioè di fidarsi di quel che altri dicono – mentre solo chi non si è ancora accorto di una determinata cosa può credere che quella cosa sia vera, fidandosi di quel che ne sente dire da altri.

    ADULTI. Con questo termine indico tutte le persone nelle quali, indipendentemente dalla loro età anagrafica, l’io è meno rilevante dei condizionamenti che hanno subito – come illustrato dalla Mappa a p. 11. Caratteristiche fondamentali degli adulti sono:

    – l’identificarsi con il ruolo che rivestono nella famiglia e nella società (è veramente adulto, per esempio, chi dice: «io sono un ingegnere», e non «io adesso faccio l’ingegnere, per alcune ore al giorno»);

    – il non accorgersi di ciò che non comprendono, o il credere che ciò che non comprendono abbia comunque una sua ragion d’essere che non tocca a loro scoprire; e di conseguenza,

    – il domandarsi raramente «perché?»;

    – il non prendere in considerazione possibilità che si discostino da ciò a cui sono stati abituati, e che vedono fare dagli ALTRI, dai MOLTI (nella mente degli adulti, pensieri e idee hanno la terribile tendenza a seguire percorsi obbligati, come i tram);

    – l’atrofia dei desideri, cioè il volere non quello che veramente vogliono, ma soltanto quel che bisogna volere, perché anche gli altri o i molti lo vogliono;

    – la quotidiana sensazione di avere sempre meno futuro da vivere: gli adulti la chiamano «paura della morte», o pensano che la paura della morte ne sia la conseguenza; in realtà, dietro a questa paura della morte si nasconde un forte e segretissimo desiderio di morire, che è la vera origine di quella sensazione di aver sempre meno futuro da vivere.

    Tutto ciò rende gli adulti assai infelici, e invidiosi di chi adulto non è. Perciò buona parte di loro considera i bambini come esseri problematici, da far diventare adulti il più presto possibile – come se l’età adulta costituisse il vertice dell’evoluzione umana. Al contrario, proprio dal punto di vista dell’evoluzione gli adulti si sono rivelati, nella nostra epoca, gli esseri più arretrati e dannosi del pianeta: manca loro la principale qualità necessaria all’evoluzione stessa, cioè la capacità di adattarsi all’ambiente naturale (non sono stati gli adulti a distruggerlo, non riuscendo più a chiedersi «perché?» di tante cose?). Altrettanto arretrati essi risultano nei riguardi della crescita spirituale: non per nulla Mosè (Mes, o Mses) in egiziano significava «il Bambino», e nei Vangeli viene precisato che «se non diventerete come un BAMBINO, non entrerete nel Regno dei Cieli».

    ALBERO DELLA VITA. È il ben noto schema, immaginato non si sa da chi né quando, attorno al quale vertono la maggior parte delle ricerche cabbalistiche. Con la sua forma allungata e le sue sfere somiglia un po’ all’abete natalizio (che molto probabilmente ne ha tratto origine); ma non è né volle mai raffigurare un albero in alcun senso: lo ‘ets khayym, come si dice in EBRAICO, è bensì la «Crescita di tutte le vite», e mostra – così dice la tradizione – le fasi che ogni io attraversa, a partire dall’attimo in cui la possibilità di essa sta emergendo dall’Uno-Infinito divino, e fino all’attimo in cui a quell’Uno-Infinito ritorna. Ecco qui questo sublime Gioco dell’Oca, in una raffigurazione tradizionale (la lieve inclinazione verso sinistra allude al fatto che l’Albero della Vita è spesso descritto come elicoidale):

    Ne tratto spesso nei miei libri, perché ritengo sia uno schema fondamentale della psiche e della conoscenza umana, tanto quanto i punti cardinali lo sono per il nostro orientamento nello spazio. Non penso sia un caso se, quando in biologia si riuscì a organizzare un’immagine del DNA (in cui sono contenute le informazioni per la vita), ne risultò una struttura tanto simile a quella dello ‘ets khayyim:

    E così pure le funzioni degli emisferi cerebrali, secondo la neurologia attuale:

    Probabilmente gli antichi cabbalisti avevano «visto» bene. Avevano scoperto, cioè, che quanto più la mente indaga i fondamenti e l’origine di quel che essa sa al di là o al di qua del visibile, tanto più perviene a quello schema; e che la ragione per cui vi perviene, deve evidentemente essere la stessa per la quale quanto più tocchiamo qualcosa con una mano, tanto più sentiamo innanzitutto le cinque dita e il palmo della mano stessa. Ma di solito non ce ne accorgiamo. La nostra attenzione è focalizzata sull’oggetto toccato. Un gatto, un serpente, uno Spirito guida, se percepissero quel che percepiamo in quel toccare, sarebbero invece interessati soprattutto alle dita e al palmo: confrontando le nostre percezioni tattili con le loro, capirebbero molto di com’è il mondo per noi, e di come funzionano dunque i nostri pensieri, di come selezioniamo le nostre idee.

    L’Albero della Vita è appunto la descrizione del nostro organo di conoscenza, della sua forma e del suo modo di dar forma – dal punto di vista di un qualcuno o di un qualcosa (realmente esistente o ipotetico, non importa) che conosca e dia forma in altri modi. E non riesco a immaginare nulla di più utile alla sapienza, alla psicologia, alla filosofia, dell’intento di fornire una tale descrizione.

    Quanto al fatto che, per attuare tale intento, gli antichi cabbalisti avessero ritenuto necessario puntare l’organo della conoscenza verso l’impercepibile e il non-ancora-conoscibile, ciò scredita totalmente, oggi, le loro descrizioni agli occhi delle persone razionali – che ritengono l’ALDILÀ una questione di fede, incompatibile con la scienza. Ma questa è una banale sciocchezza. Solo i moderni credono ingenuamente che l’Aldilà debba essere qualcosa là fuori, chissà dove. In realtà, il nostro Aldilà, ciò che noi percepiamo e conosciamo meno di tutto è quel che in noi percepisce e conosce – così come la tua pupilla può vedere ogni genere di cose, ma non può vedere direttamente se stessa; e la tua mente può pensare ogni genere di cose, ma non se stessa nell’atto di pensare. E puntare il nostro organo di conoscenza direttamente sull’Aldilà equivale dunque a puntarlo direttamente sulle sue stesse dinamiche più profonde, più segrete.

    Ciò fa apparire in una luce diversa anche l’idea tradizionale che nell’Albero della Vita sia narrato il tragitto dell’energia vitale, dell’anima, dal più remoto Aldilà fino al nostro Aldiqua, cioè al mondo materiale. Tale narrazione è e vuol essere un MITO: un servirsi cioè delle potenzialità del discorso mitico, che sono assai più ampie di quelle di qualsiasi discorso teorico. Di discorsi teorici sull’Albero della Vita sono pieni migliaia di trattati, e se ne potrebbero scrivere altrettanti senza riuscire a esaurire tutto ciò che la descrizione mitica dello ‘ets khayyim comunica a chi la legga con un poco di attenzione.

    E il mito dell’Albero, in sostanza, è il seguente:

    Quando sei emerso dall’Uno Infinito – molto, molto tempo prima di venire concepito, – tu hai ricevuto innanzitutto il dono della Volontà, nella prima Sephirah («sfera»), che è chiamata Kether, «la Corona»: lì hai imparato, cioè, che alla base di ogni attività del nostro io cosciente vi è un’intenzione, un VOLER percepire; e che, di conseguenza, tutto ciò che ti avviene obbedisce direttamente o indirettamente al tuo volere – poiché ti avviene e ti avverrà sempre e soltanto ciò che il tuo percepire, il tuo voler accorgerti permetterà che ti avvenga. Poi, nelle Sephiroth successive, ricevesti gli altri «doni» delle Gerarchie angeliche, i quali sono, nell’ordine:

    Khokmah, la Sapienza illimitata, che è ciò che tu non sai di sapere, ed è tutto e più ancora di tutto: da questa sapienza attingerai quel che via via riuscirai a sapere di sapere nella tua vita, e che in realtà sarà sempre un ricordare ciò che vi è in Khokmah;

    Binah, l’Intelligenza, che è la facoltà di capire e organizzare sia la realtà, sia le possibilità, e che precede anch’essa ogni apprendimento e addirittura ogni percezione (v. SOGGETTIVITÀ);

    Da‘at, la Conoscenza (questa quarta Sephirah è, secondo la maggior parte dei cabbalisti, la più misteriosa di tutte, assimilata all’Albero della Conoscenza del Bene e del Male di cui l’’adam osò assaggiare i frutti): qui, Volontà, Sapienza e Intelligenza confluiscono, e diventano l’ACCORGERSI, l’atto cioè attraverso cui l’io accede alla rivelazione e si rende conto di accedervi;

    Khessed, l’Abbondanza di Sentimento, che è la capacità di superare ogni divisione, di percepire il nostro intimo legame con tutto ciò che percepiamo, e con tutti i viventi (v. ALTRI);

    Geburah, la Forza, che è l’opposto della precedente: cioè la capacità di percepire i confini, le differenze, l’individualità (v. INDIVIDUAZIONE);

    Tiphereth, l’Armonia, cioè la capacità di trovare un equilibrio, una sintesi tra le due precedenti: e, per gli iniziati, qui risiede la percezione della bellezza;

    Netsah, la Costanza, che è la capacità di perdurare: il nostro io l’ha, e se non l’avesse non vi sarebbe alcuna continuità tra le nostre percezioni; l’io può, altresì, comunicare la netsah a qualsiasi sua idea, impressione, relazione, intenzione, opera; oppure può toglierla;

    Khod, la Maestà, che è il potere di orientare e disporre; Yessod, il Fondamento, che, per gli iniziati, è di nuovo una sintesi tra le due precedenti: ed è la capacità di percepire e di dare forme a tutto – a un gesto, a un progetto, a un desiderio, a una frase.

    Il reticolo di canali che collegano le varie Sephiroth mostra le connessioni, le incidenze tra ciascun «dono» e gli altri. E particolarmente delicata è l’ultima connessione, il canale che conduce a:

    Malkuth, cioè al «Regno», al nostro Aldiquà, dove i viventi sono nati e agiscono: e qui tutti i «doni» ricevuti più su vengono a trovarsi in uno spazio terribilmente ristretto, che non è in grado di contenerli.

    In Malkuth dunque – nel tuo Aldiquà – vi sono gli ostacoli, cioè la tua certezza di valere e potere ben di più di ciò che le tue condizioni e la durata della tua vita ti consentano, e al tempo stesso le continue scoperte della mancanza di qualche tuo «dono», che non è ancora fluito del tutto lungo l’ultimo canale. Qui, in Malkuth, può anche avvenire che le varie doti ricevute entrino in contrasto fra loro (come altrettanti venti che prima soffiavano liberi e in quello spazio ristretto formano invece vortici) e producano circostanze avverse.

    In Malkuth hai, infine, anche la nostalgia di altri mondi, e tale nostalgia può spingerti a risalire i canali dell’Albero, ritrovando in ciascuna Sephirah la pienezza e il senso di quel che lassù avevi ricevuto. Per far ciò, non occorre essere degli iniziati (non occorre, cioè, aver cominciato a meditare sul significato delle undici Sephiroth, delle Gerarchie angeliche che a ciascuna di esse presiedono, e via dicendo); può avvenire benissimo che l’intuizione, o l’immaginazione, guidino a volte la mente verso qualche elemento dell’Albero. Gli iniziati hanno soltanto il vantaggio di accorgersi di quando ciò avviene, e di come avvenga.

    Parallelamente a questa interpretazione incentrata sulla conoscenza e sulla sorte dell’individuo, procede nella tradizione cabbalistica un’altra interpretazione dell’Albero come schema della Creazione – cioè del processo di trasformazione di tutta l’energia vitale dell’universo dalla soglia dell’Uno-Infinito divino fino al mondo della materia. Nelle VERSIONI CONSUETE della Genesi, la Creazione è narrata come se si fosse compiuta soltanto «in principio», un po’ come il Big Bang; in realtà, essa è perenne: i «Sette giorni» sono le sette Sephiroth più basse, le tre Sephiroth più alte sono il luogo in cui la Creazione stessa si prepara: la configurazione, potremmo dire, che Dio assume quando crea (e lì è il «noi» divino, menzionato nel versetto Genesi 3,22); mentre nella Sephirah Da‘at si trova l’Albero proibito da Yahweh.

    Yahweh, il Dio dell’ESSERE, è – in questa interpretazione cosmica – il modo in cui la Divinità opera nel Mondo della Formazione, cioè nelle tre Sephiroth che sovrastano Malkuth; ’Elohiym, il Dio del DIVENIRE, è invece l’agire della Divinità nelle tre sfere immediatamente superiori; mentre nelle tre sfere più alte si trova, in un certo senso, ciò che Dio è per Yahweh e ’Elohiym: ovverosia ciò che la Genesi non narra di Dio – ma che attraverso le dinamiche dell’Albero si può arrivare a scorgere. E non lo si immagini come qualcosa di lontano: tutt’altro! La Qabbalah insegna che i ventidue canali che congiungono le Sephiroth corrispondono alle ventidue lettere dell’alfabeto ebraico: e ciò vuol significare, simbolicamente, che nelle nostre parole sono contenute le vie – i canali, appunto – per scoprire tutto ciò che l’Albero raffigura.

    Dunque è vicinissimo. Hai quelle vie sulla punta delle labbra, nei nomi delle cose e delle persone e degli esseri invisibili, ne parli ogni volta che dici qualcosa – ma è come se un incantesimo ti impedisse di accorgertene (v. PASSAGGIO DEL MARE), così come chi tocca qualcosa non si accorge delle proprie dita. E l’incantesimo lentamente si dirada per chi lo indaga, fino a trasformare tutte le parole in rivelazioni, in parole magiche addirittura.

    Quello che invece si sottrarrà sempre al linguaggio (cioè agli aspetti della nostra conoscenza che possono venir spiegati come che sia, in discorsi teorici o in discorsi mitici) è l’Uno-Infinito che circonda tutti i contorni dell’Albero, e che in ebraico è chiamato ’Ayn Soph, cioè «Senza-limite». Questo ’Ayn-Soph non è un volto o un Nome di Dio, ma Dio stesso, e rispetto a esso sia l’uomo sia tutti i volti divini sono pressoché nella medesima condizione: l’’Ayin Soph si trova sempre e ovunque a un passo da loro, ma quel passo è al di là di loro.

    E qui vi è un elemento della teologia dell’Albero, al quale sono particolarmente affezionato: il fatto che nell’opera – ancora in corso – della Creazione, l’io dell’uomo e i vari volti di Dio siano impegnati in egual modo, rispetto all’Infinito che li circonda e da cui traggono le loro energie. Immagino quest’opera divino-umana come una tensione tra l’Infinito stesso e il limitato che ancora gli si oppone, e che in qualche istante avvenire diventerà infinito a sua volta, grazie proprio all’impegno creatore di chi sta in terra e di chi sta in cielo – qualunque cosa si voglia intendere con «terra» e con «cielo».

    ALDILÀ E ALDIQUÀ. È presto detto: chiamo Aldilà tutto quel che si trova al di là di ciò che sappiamo di sapere, di ciò che pensiamo di pensare, e di ciò che crediamo di percepire. L’Aldiquà, viceversa, è quel che nei Vangeli è chiamato, in greco, kosmos toutos, «questo sistema di cose» (nelle VERSIONI CONSUETE viene tradotto «questo mondo») e cioè il complesso ordinato e coerente di ciò che la stragrande maggioranza degli uomini ritengono vero e reale – non perché sia vero e reale, ma solo perché hanno imparato e si sono rassegnati a CREDERE che lo sia.

    Così inteso, l’Aldilà non coincide affatto con quel che i più indicano con questo termine, cioè con il regno dei morti. E non va cercato né altrove e neppure lontano, ma è come quel «Regno dei cieli» che secondo i Vangeli si trova dentro di noi e ovunque intorno a noi. Anche il confine tra Aldiquà e Aldilà è soltanto in noi stessi, e precisamente nella nostra capacità di ACCORGERCI di esso – e di quante cose vi siano in noi e intorno a noi, che siamo abituati a ignorare.

    In tal senso, l’Aldilà potrebbe corrispondere a ciò che la psicologia chiama Inconscio, se non fosse per due importanti differenze:

    – la psicologia si fonda sul presupposto che l’Inconscio sia costituito dai residui del passato individuale (secondo Freud) e in parte anche del passato ancestrale dell’umanità (secondo Jung), e che rappresenti perciò un livello psichico inferiore a quello raggiunto dall’io cosciente dell’odierna umanità civilizzata;

    – la maggior parte degli psicologi è persuasa che al cosiddetto Inconscio non si possa accedere volontariamente, ma soltanto in stati di incoscienza (come il sogno o l’ipnosi), o di semicoscienza (visioni, ecc.).

    Quanto al secondo punto, a me risulta invece che territori vastissimi dell’Aldilà siano accessibili abbastanza facilmente, e in modo del tutto consapevole, con l’aiuto di semplici tecniche di meditazione (v. IMMAGINAZIONE e MAESTRI) e di un po’ di coraggio.

    Quanto al primo punto, a me risulta che l’Aldilà apra all’individuo l’accesso a un livello evolutivo superiore. Constato infatti che nell’Aldilà sono possibili intuizioni, idee, elaborazioni concettuali straordinariamente più penetranti e più coerenti di quelle che la nostra mente riesce a formulare nell’Aldiquà. Nell’Aldilà la nostra memoria è più vasta, l’attenzione è più lucida, e si verificano normalmente fenomeni di veggenza che nell’Aldiquà apparirebbero prodigiosi. Secondo la fisica contemporanea, un buon 95% della materia esistente nel nostro universo non è percepibile né ai sensi umani né ad alcuno strumento attualmente in uso o progettabile; secondo la neurologia, un’analoga percentuale delle nostre facoltà psichiche non viene ancora utilizzata dagli individui civilizzati: penso che con queste ipotesi sia i fisici sia i neurologi stiano tentando di descrivere in termini quantitativi quello stesso Aldilà di cui stiamo discorrendo in questo libro, e che in termini qualitativi è da sempre oggetto della SAPIENZA.

    Quanto infine a un’idea fissa di alcuni psicologi, secondo la quale il cosiddetto Inconscio sarebbe molto pericoloso, sempre sul punto di interferire e addirittura di irrompere nell’attività della coscienza (che deve perciò prendere tutte le precauzioni necessarie per farlo rimanere al posto suo), penso che si tratti, da un lato, di una vecchia superstizione, molto simile a quella antica secondo cui al di là delle Colonne d’Ercole si voltolavano nell’Oceano terrificanti mostri. D’altro lato, come tutte le superstizioni, anche questa tende a produrre situazioni che la confermano: così come chi teme i gatti neri farà in modo che le cose gli vadano almeno un po’ peggio del solito dopo averne visto uno tagliargli la strada, allo stesso modo quanto più si teme l’Aldilà, quanto più si trema al pensiero di quel che potrebbe rivelare e di quanti cambiamenti produrrebbero le sue rivelazioni, tanto più ci si convince che possa venirne soltanto qualcosa di abominevole o perlomeno di abnorme, fino a che, da qualche parte, qualcosa di abominevole o abnorme non salta fuori davvero. Nulla di più facile! Una persona che abbia tanta paura di quel che non vuol conoscere alimenta pazientemente questa sua paura con le idee e le immagini più svariate, che giorno dopo giorno assumono consistenza sempre maggiore. Ma qui l’Aldilà c’entra ben poco, ed è soltanto l’io a far paura a se stesso, nel suo Aldiquà. Il vero accesso all’Aldilà, in questi casi, ha puntualmente l’effetto di dissolvere, e non di confermare quelle paure – semplicemente dando modo di vederle per ciò che realmente sono.

    ALTRI. È una parola importantissima per tutti, e soltanto gli ADULTI ne conoscono il significato: vale qui, appieno, quell’espressione tanto cara ai parenti: «Quando sarai diventato grande, capirai…» Il BAMBINO infatti non ha il concetto di «altri»; non l’ha, perché non concepisce il plurale riferito a esseri viventi: un bambino considera soltanto l’individuo; un gruppo, un parentado, la popolazione di una città, per un bambino sono, perciò, soltanto interessanti sfondi sui quali osservare i singoli io che ne fanno parte, e che gli appariranno significativi ciascuno di per sé. Per l’adulto, invece, il mondo è soprattutto un agglomerato di altri, i quali esercitano su di lui influssi irresistibili. Quanti adulti hanno scelto il proprio lavoro, il luogo dove abitare, il compagno di vita, e persino le proprie predilezioni più segrete, appunto in base a quel che gli altri ritenevano opportuno o inopportuno?

    E tuttavia è il bambino ad aver capito meglio la questione: davvero i cosiddetti altri non esistono, se non nell’idea che l’adulto si è fatto di loro. Chi sono, infatti, questi altri, e dove si trovano precisamente? Nessun passante a cui domandassi «Tu sei un altro?», risponderebbe di sì. Il che non significa che gli altri siano soltanto un modo di dire: sono, al contrario, un modo di non dire, di lasciare nel vago qualcosa che l’adulto non ha il coraggio di riconoscere, e precisamente: la totalità dei condizionamenti che ha subito e ai quali si è rassegnato, durante la sua trasformazione da bambino in adulto.

    Non per nulla ciascun adulto vede gli altri a modo suo: cioè a seconda dei condizionamenti con i quali lui personalmente ha avuto a che fare, e del modo in cui si è rassegnato a lasciarsene determinare. Ne deriva un grave equivoco, di cui pochi si accorgono: quando un adulto parla degli altri, e si comporta e ragiona in base agli altri, crede di riferirsi a un termine oggettivo, cioè a una moltitudine che tutti si figurano nello stesso modo in cui se la figura lui, e sta invece esprimendo qualcosa che riguarda lui solo. Le conseguenze di tale equivoco sono enormi: su questi altri si fondano infatti tutti quei contenuti della coscienza che si dicono collettivi, quali per esempio lo Stato, la morale, la cultura ecc. con tutti i sentimenti e le emozioni che essi suscitano – e su tali contenuti poggia interamente ciò che si chiama RAZIONALITÀ. Apparentemente sono tutti modi in cui un adulto riesce a pensare non con la propria testa, ma con la testa di quegli altri che, a suo parere, nel loro insieme pesano e contano più di lui: ma, dato che gli altri non esistono al di fuori delle sue personali proiezioni, quei contenuti collettivi, e la razionalità, e il buon senso esprimono non la mentalità di una popolazione reale, ma solamente le resistenze del singolo a fidarsi di sé. In tal senso, costituiscono un fenomeno paragonabile a certe fobie, per le quali ci si vieta di fare o dire determinate cose, temendo che non-si-sa-chi possa fare nonsisacosa per punirti di averle fatte o dette.

    E veramente grande è, qui, l’opera dell’ingegno: quanta creatività, quanta coerenza e tenacia vengono adoperate da ciascun adulto per tener vivi e per riempire di senso quei contenuti collettivi riferiti a una collettività irreale, e quindi di per sé vuoti! Quante cose potrebbe invece pensare e realizzare ciascun adulto, se invece di sprecare le suo forze per far esistere gli altri e la loro mentalità e il potere che attribuisce loro, le adoperasse per esistere lui un po’ di più. Ma la maggior parte delle persone non osa neppure immaginare come sarebbe il mondo se quei fantomatici altri sparissero (voi ci avete mai provato?).

    Dagli altri e da quei contenuti collettivi occorre in ogni caso distanziarsi, sia quando si comincia a scoprire la SAPIENZA, sia quando ci si avventura nell’Aldilà. Per stabilire una connessione autentica con il proprio Io grande, bisogna cioè imparare a lasciarsi alle spalle quelle convinzioni, regole, valori, validità, ragionamenti e parole altrui, che valgono in tutti quei contesti in cui tu coincidi con il ruolo che rivesti nel mondo degli altri. E tale superamento non è mai né definitivo, e nemmeno durevole: scivolare di nuovo indietro, ricominciare a pensare e a parlare come gli altri è bensì facilissimo tanto nella sapienza che nell’esplorazione dell’Aldilà, specialmente quando nell’una o nell’altra capita di toccare argomenti connessi con la posizione sociale o la famiglia. Parlo di ciò in varie altre voci: BLACK-OUT, CONFERME, CHIEDERE ecc.

    ANGELI E ANGELOLOGIA. Da almeno tremila anni gli Angeli sono l’immagine più dettagliata dei modi in cui l’io piccolo può utilizzare l’ENERGIA resa disponibile dalla sua connessione con l’Aldilà. L’angelologia, cioè la «scienza degli Angeli», d’origine egiziano-ebraica, è infatti una vera e propria energetica psichica, i cui princìpi vennero dimenticati soltanto nel cristianesimo, per quattro ragioni: antigiudaismo (cioè ostilità per la cultura ebraica durante i primi due secoli d.C.), antisemitismo (cioè avversione verso gli israeliti), ignoranza superstiziosa e, dal V sec. d.C. in poi, il timore ecclesiastico che, disponendo degli Angeli, i fedeli potessero fare a meno del clero per conoscere la «volontà divina».

    Perciò, degli Angeli antichi, rimasero ai cristiani soltanto le tradizionali figurazioni di splendidi giovani o di visetti alati, e alcune idee confuse a loro riguardo, nelle quali si mescolarono tratti di altre entità immateriali – degli Spiriti guida, per esempio, o delle cosiddette anime dei defunti. Non che quelle figurazioni alate siano fuorvianti di per sé: solo, erano SIMBOLI, andavano interpretati, e tra i cristiani ne andò persa la chiave, che è la seguente:

    – le belle membra umane dell’Angelo rappresentano ciò che l’Energia resa disponibile dalla tua connessione con il divino può diventare in ciascun istante della tua esistenza; e

    – le ali sono la «via» che quell’energia ti traccia nel mondo, il suo diagramma di flusso in tutti i punti dei tuoi rapporti con gli ALTRI.

    Riportato sulla Mappa di p. 11, un Angelo assumerebbe dunque questo aspetto:

    Settantadue Angeli così diametrali, ciascuno con una diversa inclinazione, sono un’efficace rappresentazione del mondo come lo intendevano gli antichi angelologi: tutto pieno di «ali» da riconoscere, da studiare, e da usare. L’angelologia ne è, dicevo, la sistematizzazione scientifica rigorosa, e tutto sommato abbastanza semplice, dato che si fonda su due elementi soltanto: l’alfabeto EBRAICO geroglifico, e i gradi dell’eclittica.

    Di lettere ebraiche è costituito il Nome di ciascun Angelo, e occorre conoscerle per scoprire come ciascuno di questi Nomi sia quella che oggi chiameremmo un’equazione dell’energia (adattati ad altre lingue, i Nomi angelici – Michele, Gabriele ecc. – non dicono di per sé nulla di significativo).

    L’eclittica (nel disegno riportato più sopra sarebbe la circonferenza esterna) rappresenta per gli angelologi il confine del mondo umano: e ciascuno dei settantadue Angeli varca tale confine per una «porta» di

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