Viaggio nonostante tutto: Appuntamento con Bauhbali
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IL MALATO siede sul gradino più basso della scala gerarchica del mondo della medicina. È lui il protagonista, è a lui che si rivolgono tutti gli attori del processo di guarigione: La Sanità Pubblica, le case farmaceutiche, i medici, gli scienziati, i ricercatori e le associazioni dei malati. Purtroppo sono tutti così impegnati a curarlo che si scordano di lui, del suo essere umano. Il malato diventa quindi una merce su cui lucrare. Guarneri, seduto così in basso, osserva, studia e ci informa sulle malefatte e le bugie che piovono dai gradini più alti della piramide. La piramide che produce guarigione, ma anche tanti soldi e tanto dolore. Durante il lungo decorso della sua malattia Guarneri sognava di viaggiare
e una volta guarito ecco il racconto. Viaggia nonostante tutto al Sud del Pianeta e ci narra le sue storie e quelle raccolte da altri. Si reca in India per l’ennesima e ultima volta. Si imbatte però in una statua alta 20 metri con cui aveva fissato un appuntamento 11 anni prima e si rende conto che l’India è dentro di lui e che ne è troppo innamorato per abbandonarla.
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Viaggio nonostante tutto - Ludovico Guarneri
Guarneri
1. LA SOLITUDINE DEL MALATO
Ho imparato che un uomo ha il diritto di guardare dall’alto in basso un altro uomo solo per aiutarlo a rimettersi in piedi.
Gabriel Garcia Marquez
Guardo le nuvole che passano veloci. Anche oggi è una giornata plumbea, ma d’altronde che ti aspetti da un gennaio milanese? La finestra si affaccia sulla strada trafficata, le persone guidano indifferenti. Noi che li guardiamo da dietro i vetri di queste stanze bianche così asettiche pensiamo alla loro incoscienza, al loro correre verso un appuntamento di cui domani si saranno già dimenticati. Noi malati, costretti in queste stanze dove si celebra il rito della medicina moderna, vorremmo fermarli e spiegare loro che la salute che li accompagna è il bene più grande, gridare che dovrebbero fare salti di gioia per ogni minuto da sani e non mostrare in giro quelle facce preoccupate e quegli sguardi tristi.
Ma lo so che è completamente inutile, potrei annunciarlo in televisione ma nessuno mi ascolterebbe, tutti preoccupati per le faccende che giorno dopo giorno sono da sbrigare. La diffidenza degli animi, l’informazione angosciante, la politica intrisa di interessi particolari e il fatto che non siamo più cittadini ma consumatori
ha cambiato il mondo. Ed io a cosa devo la presa di coscienza che mi fa parlare da saggio? Forse la sofferenza, il mio essere malato, il cancro che mi ha colpito e che, con l’aiuto dei medici e della medicina moderna, cerco di sconfiggere in queste stanze. Lui, il cancro, mi insegna il gioco della vita puntando la posta più alta.
Il mio letto è al centro della camera, le lenzuola appena sgualcite dopo l’ennesima notte costretto a stare immobile e quasi sempre insonne, attaccato ai tubi della chemioterapia. Stamani mi hanno permesso di alzarmi per andare in bagno, il braccio destro impugna l’asta con le rotelle dove sta appeso il sacchetto della soluzione fisiologica che dondola ad ogni passo. L’odore del bagno mi procura conati di vomito. Poi lo faccio, mi libero di quel poco cibo che sono riuscito a buttar giù ieri sera. La bocca si riempie di un sapore metallico, i denti mi dolgono di un dolore sordo ma continuo, una fascia di dolore diverso dal primo si è allacciata intorno alla mia testa e le gambe sembrano tremare. Le guardo ma, per fortuna, non tremano.
Chiamo l’infermiera, sono imbarazzato ma devo chiederle di pulire.
– Il Cisplatino fa vomitare anche gli stomaci più forti – mi dice, sorridendo.
Si chiama Manuela, è la mia preferita, quella con cui riesco a scherzare anche in certi giorni quando mi sento veramente a pezzi.
– Signor Ludovico non si butti giù, forza che ormai siamo al settimo ciclo e fra poco c’è il trapianto. Forza, ancora un piccolo sforzo!
Riesco a sorridere, ma ha colto nel segno, sono giù. Dopo sei ricoveri in ospedale, una settimana ogni mese, comincio a pensare che non ce la farò, che tutto il soffrire è stato inutile, che mi hanno dato false speranze e che mi nascondono la verità; che morirò e, forse, presto. Morirò di cure prima che di malattia.
Mi sento come una barchetta sballottata nell’oceano in tempesta. Non posso remare, perché le correnti mi trascinano ora verso est ed ora verso nord, poi a sud e poi ancora ad est. Le correnti sono i medici che mi raccontano storie diverse, che discutono fra loro intorno al mio letto la mattina. Apparentemente sembrano sicuri di sé ma se li guardo negli occhi intuisco il loro sgomento, forse temono di aver sbagliato qualcosa o forse temono quello che temo anch’io: che il prezzo da pagare per una momentanea guarigione sia troppo alto.
Ritorno a letto e mi accascio esausto, facendo attenzione ai miei tubi, alla mia flebo, all’ago infilato nelle vene, ormai consumate dai veleni che dovrebbero guarirmi. Qua il tempo perde ogni dimensione, è regolato dai ritmi dell’ospedale e dalla luce che viene dalle finestre. Mi accorgo quando è l’alba e quando è il tramonto, il resto è indifferente. La notte è il momento peggiore qui all’UTMO, l’Unità Trapianto Midollo Osseo. Siamo una ventina di ricoverati, non ci incontreremo mai perché dobbiamo stare isolati, lontani da un possibile contagio, ognuno dentro alla propria stanza. Anche un raffreddore potrebbe essere fatale per tutti noi che abbiamo un sistema immunitario soppresso dalle chemioterapie ad alte dosi, che uccidono le cellule tumorali, ma insieme a loro distruggono le cellule del sistema immunitario.
La notte tutto dovrebbe tacere nei corridoi del reparto ma ogni piccolo rumore viene ingigantito dall’insonnia che la solitudine ti procura. Sto lì ad occhi aperti a guardare il soffitto, dove le luci delle poche auto che passano giù in strada disegnano strisce rotte dall’ombra delle veneziane. A volte un grido interrompe quel sogno che finalmente ho raggiunto e tanto mi appassiona perché mi fa sentire lontano da qua.
È un grido di dolore o di rabbia, non si capisce. È il mio vicino di stanza? Quello che non conoscerò mai e di cui non so nulla ma che sento vicino, perché vive le mie stesse angosce. Forse ha vomitato anche lui o forse peggio? Non lo saprò mai.
Quanti ne muoiono qua dentro? Non lo saprò mai e forse è meglio così. A volte mi chiedo se quello che fanno i medici è veramente nel nostro interesse oppure serve ad appagare la loro sete di scienza. Provo a dormire, domani è giornata di esami e nel pomeriggio potrò vedere mia moglie per poche ore.
La mattina alle 5, come ogni giorno, passano a prelevarmi il sangue. Mi svegliano ogni volta e ogni volta mi ricacciano nel girone infernale da cui credevo di essere fuggito dalla porta che i miei sogni lasciano aperta. Ti chiedono scusa per il disturbo. Ma perché devono prelevarti i campioni di sangue così presto? Perché proprio quando stai finalmente dormendo davvero?
Spesso mi consolo pensando che sto meglio dei deportati nei campi di concentramento nazisti. Io almeno ricevo piccole gentilezze: mi cambiano le lenzuola, mi portano la colazione, ho la tivù, posso leggere un libro.
Non sento i sapori in bocca ma mangio comunque, solo per abitudine. Tuttavia anch’io mi sento un numero, anche se non me lo hanno tatuato su un braccio, e non riesco a cancellare questa sensazione di prigionia, di internamento forzato e di torture in agguato. Mi consolo pensando che almeno, se morirò, non sarà per volontà di qualcuno che disprezza la mia razza o la mia idea.
L’altro giorno dovevo fare la biopsia osto midollare (BOM), un prelievo di midollo osseo che viene eseguito con un grosso ago spinto a forza nella cresta iliaca posteriore. Se l’anestesia locale non è sufficiente o se il medico non aspetta quei pochi minuti perché questa faccia effetto, diventa un operazione dolorosissima. Una volta mi è stata fatta in modo così maldestro che ho provato dolore per almeno una settimana.
È entrato nella mia stanza un medico giovanissimo, un praticante. Ho subito capito che aveva ricevuto ordine di eseguire la BOM su di me. L’ho rispedito dai suoi superiori richiedendo che l’esame fosse eseguito da un medico esperto. Poverino, se tutti i pazienti fossero come me…
Sento che devo difendere me stesso dal dolore, dalle disattenzioni dei medici e del personale paramedico e soprattutto guardarmi dalla disperazione e dalla depressione che sono in agguato sempre. Le sento queste due arpie crudeli, appollaiate qua, sopra la mia spalla.
Non so come stiano andando le cose, i medici sono molto vaghi e navigano a vista.
Conosco la loro vigliaccheria nel comunicarti le cattive notizie. Fuori, quando non sei ricoverato e ancora ti senti relativamente sano, ti mettono in mano una busta chiusa coi risultati degli esami decisivi e scappano. Apro la busta e leggo positivo, che in questo caso non va preso nel suo senso letterale, cioè buono, ma nel senso di negativo, che va male, che hai il cancro e che ti aspettano anni di cure peggiori della malattia stessa. Ma loro non sono lì per lasciarti appoggiare la testa sulla propria spalla, per consolarti e rassicurarti.
Qua in ospedale invece riportano tutto per iscritto nella cartella clinica, dove, però, scrivono quello che pare a loro.
Al secondo ricovero un infermiere cercò di mettermi l’ago in vena ma non riuscì a trovarne una che potesse reggere la chemioterapia una notte intera. Allora chiamò il dottore, uno che mi sta simpatico e con cui scambio spesso una o due battute. Uno che sorride. E non è poco qua dentro.
– Ci penso io – disse gentilmente il dottor Servi.
– Ma non c’è vena, è da un’ora che provo.
– All’Università mi chiamavano Mister Vena
, per la capacità che avevo di trovare quella giusta.
Così ha infilato la farfalla nel braccio e mi ha lasciato con il Cisplatino, un forte chemioterapico che, goccia dopo goccia, durante la notte sarebbe sceso fra le mie cellule malate di linfoma con l’incarico di sterminarle.
La mattina dopo mi ha svegliato con un urlo l’infermiera di turno. Il mio braccio era gonfio come un palloncino. Il chemioterapico era uscito fuori della vena. Mi ha fatto male per mesi e non riesco più a piegarlo come prima. Sulla cartella clinica hanno scritto:
Leggero versamento… senza conseguenze.
Mia moglie viene a trovarmi ogni giorno e passiamo due o tre ore insieme. La prima mezzora le racconto quello che è successo la mattina e lei mi racconta delle sue peripezie per trovare l’albergo giusto. È sola qua a Milano e trovare una sistemazione decente senza essere derubati è difficile, così cambia spesso d’albergo seguendo le offerte del mercato. Forse un amico ci affitterà un appartamento ad un prezzo decente ma per ora Margherita passa da un alberguccio schifoso ad un altro. È incredibile quanto ci si possa sentire soli in una città grande come questa. Mi racconta della metropolitana affollata nelle ore di punta, che vomita fuori decine di persone affrettate e ne ingurgita altrettante, col risultato che tutti stanno così pigiati nelle carrozze che non si chiudono nemmeno le porte automatiche.
Poi non abbiamo più argomenti che non siano malattia e medici e allora abbiamo deciso di giocare. E siccome qui non si può portare niente che non sia disinfettato, non ci resta che giocare con carta e penna alla battaglia navale. Margherita è coperta da un accappatoio verde asettico, di un tessuto orribile, ha una cuffietta che le copre i capelli e porta la mascherina sulla bocca e i guanti. Non posso baciarla. Vedo solo i suoi occhi preoccupati. So che piangerebbe, se non avesse paura di spaventarmi, e cerca di sorridere il più possibile. Non posso nemmeno sentire la pelle delle sue mani, posso solo stringergliele avvolte nei guanti di gomma.
Nell’ascensore c’è una scritta che accoglie tutti i visitatori, gli addetti e i malati.
Invita a non danneggiare strutture come questa, di uso comune, ma ha un tono terribile e chi se l’è inventata deve avere un concetto perverso del significato delle parole medicina
e malattia
.
La migliore definizione di malattia che ho sentito è quella di un giornalista, Paolo Barnard, e recita così:
La malattia è un sequestro di persona.
Ma veniamo alla nostra scritta nell’ascensore:
"Chi, in qualsiasi modo, volontariamente imbratta questo luogo, sappia che deturpa un luogo sacro e disonora tutti noi che lavoriamo con serietà e fede.
L’Ospedale è un tempio dove gli ammalati, il personale e noi tutti celebriamo il rito della sofferenza e della medicina."
E la guarigione? È una parola troppo grossa?
Troppo incoraggiante? Potrebbe creare equivoci e false speranze?
Visto che sull’ascensore salgono anche i bambini si poteva scrivere, semplicemente:
Vietato imbrattare l’ascensore.
Sono passati otto anni da queste memorie di degenza presso l’UTMO del San Raffaele di Milano. È andato tutto bene visto che sono qua a raccontarlo. Da allora non ho mai cessato di interessarmi alle condizioni dei malati ricoverati negli ospedali, che a me piacerebbe rinominare strutture di guarigione
. La situazione da allora non è cambiata molto. La classe medica è ancora pervasa dall’idea che la loro sia una scienza indiscutibile e perfetta. Salvo ricredersi per nuove scoperte che annullano le precedenti o per fallimenti evidenti.
I malati sono spesso vittime della loro ignoranza sul tema della malattia e la soggezione nei confronti del medico impedisce loro di fare le domande giuste. Lo Stato non si cura dell’educazione sanitaria dei suoi cittadini e tanto meno della prevenzione primaria delle malattie più gravi come il cancro, le cardiocircolatorie e il diabete. Lo Stato spende cifre enormi in strutture e medicine invece che in campagne d’informazione capillare per cambiare le cattive abitudini della popolazione.
Le aziende sanitarie ricavano denaro dalle malattie e non si curano di risparmiare con la prevenzione primaria. Per logica la ricerca di una cura per il cancro dovrebbe andare di pari passo alla ricerca delle cause di questa malattia, che sempre di più assomiglia ad una peste, a una malattia epidemica. Purtroppo, invece, chi finanzia la ricerca è spesso la stessa azienda multinazionale, che produce le condizioni ambientali che innescano la malattia.
Lo sappiamo tutti, è perfino banale parlarne.
Siamo prigionieri di un sistema che non funziona senza che aumenti il Prodotto Interno Lordo. All’angosciante ricerca dell’obesità permanente.
In questi giorni di crisi ci invitano a consumare, ad aumentare la domanda interna.
Sarebbe bello aumentare le domande interne al nostro cervello e alla nostra anima e ricominciare