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Credo, Amo, Spero: Catechesi sulla Fede, la Carità, la Speranza
Credo, Amo, Spero: Catechesi sulla Fede, la Carità, la Speranza
Credo, Amo, Spero: Catechesi sulla Fede, la Carità, la Speranza
Ebook314 pages4 hours

Credo, Amo, Spero: Catechesi sulla Fede, la Carità, la Speranza

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Secondo il percorso di vita proposto da queste Catechesi, tutto si salda nell’uomo: per sperare deve credere, per poter credere deve avere dentro di sé la certezza che proviene dall’avvertire la portata dell’amore di Dio, la Carità. Arrivando ad affermare “credo, amo, spero”, ciascuno potrà dire “io sono”: a quel punto potrà affermare “io sono in Cristo” e anche “io sono in Dio” e quindi prendere in mano la propria vita e camminare verso la meta dove il Signore lo condurrà.

Prefazione del Card. Camillo Ruini
LanguageItaliano
Release dateMar 18, 2014
ISBN9788865123140
Credo, Amo, Spero: Catechesi sulla Fede, la Carità, la Speranza

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    Credo, Amo, Spero - Mario Torregrossa

    TORREGROSSA

    Catechesi sulla Fede

    (1981-1982)

    Una decisione per il Signore

    «Un uomo, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, a ciascuno secondo la sua capacità, e partì. Colui che aveva ricevuto cinque talenti, andò subito a impiegarli e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone. Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò, e volle regolare i conti con loro. Colui che aveva ricevuto cinque talenti, ne presentò altri cinque, dicendo: Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque. Bene, servo buono e fedele, gli disse il suo padrone, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone. Presentatosi poi colui che aveva ricevuto due talenti, disse: Signore, mi hai consegnato due talenti; vedi, ne ho guadagnati altri due. Bene, servo buono e fedele, gli rispose il padrone, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone. Venuto infine colui che aveva ricevuto un solo talento, disse: Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso; per paura andai a nascondere il talento sotterra: ecco qui il tuo. Il padrone gli rispose: Servo malvagio e infingardo, sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha. E il servo fannullone gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti» (Mt 25,14-30).

    La Parabola dei talenti è un brano che stuzzica chi ha l’orecchio avvezzo alla Parola, e, nello stesso tempo, fa paura per la sua chiarezza incredibile. Ma per poter comprendere il senso di questa Parabola, come di tutte le altre, per poter comprendere il senso della Parola, è necessario che esista la Fede, quel dono che viene da Dio e che dà all’uomo la possibilità di credere che quello che dice Dio è vero. Questa affermazione significa che quello che dice Dio è la verità: è la verità della realtà e, quindi, anche la verità dell’uomo; è la verità della salvezza; è la verità di tutto ciò che accade. Ad esempio, davanti alla conclusione di questa Parabola, che può lasciare un po’ perplessi, di cui sfugge il senso, qualcuno potrebbe iniziare a chiedersi: ma io in questo Dio ci credo o no? In altre parole, mi interessa o non mi interessa un Dio fatto così?"

    Quando si intraprende una Catechesi, in fondo si dà per scontato di credere. In realtà, quando poi si passa all’applicazione di ciò che si ascolta, nascono tutta una serie di problemi e di ostacoli che impediscono la realizzazione di quello che è stato donato. E allora in chi comunica sorge il dubbio che in fondo la causa non risieda soltanto in una mancanza di buona volontà o nell’incapacità di realizzare, ma, forse, in una ragione più radicale: si crede davvero che questa Parola sia Parola di vita? Si crede che questa sia la Verità, e non solo la verità di chi ascolta ma anche la verità di Chi parla, la verità di Chi viene annunciato? Si crede in Colui che viene annunciato? I problemi non nascono forse da un’idea un po’ vaga di Dio? Dio esiste, ma chi è?

    La Fede è il criterio per risolvere tutti questi problemi. È necessario affermare subito che l’uomo ha bisogno della fede perché è peccatore, non perché si trova su un piano diverso da Dio. In origine, Adamo parlava con Dio, quindi non aveva bisogno di fede. Quando l’uomo si pose su un altro piano a causa del primo atto di disubbidienza – un atto di superbia e di non fiducia in Dio – Dio lo mandò via dall’Eden: da allora egli ha avuto bisogno della fede, perché non vedeva e non ascoltava più Dio direttamente. Non era la realtà di Dio ad essere cambiata, era l’uomo che era stato messo in un altro posto, perché non aveva accettato di vivere nell’Eden secondo l’unica condizione che gli era stato chiesto di rispettare. Parlare di fede vuol dire riportare l’uomo alla sua condizione originaria, ricollocarlo nella sua vera umanità, recuperare il dialogo interrotto da Adamo. Ma l’uomo, posto su un altro piano, ha camminato lungo tutta la storia della sua umanità indipendentemente da Dio. Gli allontanamenti da Dio, le crisi di fede nascono quindi sempre dai peccati, cioè da atti compiuti contro Dio. Come insegna la storia della salvezza, l’uomo va per conto suo ma Dio lo insegue perché lo vuole salvare. È bellissimo quello che dice il profeta Osea a questo proposito.

    Ogni volta che l’uomo si allontana dalla via che il Signore gli ha prospettato, la sua mancanza di fede è un non vedere, un non ascoltare. Infatti, per giustificarci, non potendo dire a noi stessi: sto sbagliando ma mi va di fare così, arriviamo all’estremo limite di dire Dio non c’è, perché così ci sentiamo svincolati e possiamo procedere tranquillamente per la nostra strada senza che nessuno ci disturbi. Si tratta di un atteggiamento tipico dei giovani: tante sbandierate crisi di fede non nascondono altro che questo. Il fatto che un simile atteggiamento uccida invece di dare vita lì per lì non interessa perché non viene capito. Lo sarà in seguito: verrà il momento in cui sarà capito, perché Dio, malgrado le affermazioni dell’uomo, esiste e lo vuole salvare, nonostante tutto, pertanto trova il modo per farlo riflettere e comprendere. Si pensi alla carestia nella Parabola del figliol prodigo (Lc 15,11-32): che cosa sarebbe capitato a quel giovane se non ci fosse stata?

    Quando parliamo di fede, quindi, ci riferiamo in realtà alla riscoperta del nostro legame con Dio. Ma quando affermiamo che Dio esiste, dobbiamo essere consapevoli che la sua esistenza non inizia in quel momento: Egli esiste indipendentemente da noi. In questa prospettiva, la fede non è altro che il recupero di noi stessi, il nostro avvicinarci sempre più a Dio, fino a ritornare veramente a camminare con Lui in una dimensione nella quale è possibile recuperare la nostra umanità e finalmente la felicità che era stata pensata per noi. Dio, infatti, aveva creato l’uomo per l’Eden, non per questo tipo di terra, così pieno di difficoltà: questa situazione è stata scelta dall’uomo, che credeva invece tutto il contrario.

    In questa prospettiva, è possibile cominciare ad enunciare alcuni contenuti molto generali. Fede vuol dire credere. Credere vuol dire affermare un’esistenza e poi affidarsi; in questo senso, il peccato di Adamo è stato un peccato di fede dato che non ha avuto fiducia in Dio che gli diceva: tutto questo è per te! La fede è il recupero della fiducia in Dio: quando la fede comincia a vacillare, l’uomo afferma se stesso contro Dio e nasce il peccato di disubbidienza. Il recupero della fede, invece, è obbedienza a Dio.

    Ma l’uomo, dopo quel primo atto di disubbidienza, ha incominciato a mettere tutto in discussione: è nata allora la categoria del dubbio. Inizialmente, più che di dubbio si è trattato di negazione e la negazione di ciò che chiamiamo fede si è espressa con un peccato, un atto di rifiuto di Dio; in seguito, si è tramutata in un atteggiamento della ragione che oggi viene teorizzato come necessità della ricerca.

    Se si vuole recuperare il senso della fede, è necessario riportare il discorso nel giusto ambito. Non è questione di dubbio o di mancanza di dubbio, la prova della fede si supera credendo; non sciogliendo il dubbio alla maniera della dialettica o della logica, ma cancellando il rifiuto, magari con un atto di volontà. Bisogna decidere di credere e poi correre il rischio insito in quella decisione. La visione di Dio che hanno i puri di cuore non è secondo l’evidenza, anche se è secondo certezza. Ogni decisione ha un proprio tempo di sviluppo prima che si possa dimostrare la sua consistenza. Se ci si tira indietro, non si realizzerà nessuna decisione e si rimarrà solo nell’ambito delle parole. Ad esempio, se ad un certo punto Abramo, arrivato a metà del monte, avesse detto: adesso torno indietro, il Signore può fare e dire quello che vuole e lo avesse fatto, non solo non sarebbe diventato il Padre della fede, ma avrebbe modificato l’intero corso della storia. Chissà quanto forte sarà stata nel suo animo quella tentazione! Ma egli è stato il Padre della fede proprio perché ha dimostrato come si deve vivere una decisione nella fede, anche la più dura, la più difficile, la più dolorosa: egli fece quello che doveva fare, arrivò in cima, raccolse le fascine, vi fece salire il figlio, alzò il pugnale, compì tutte queste azioni con una fede incrollabile in Dio, perché un affidamento simile non può essere lasciato a metà. Quando diciamo credere, intendiamo credere in senso pieno: credo che ci sei, che quello che dici è vero, che quello che mi prospetti è buono; è bene quindi farlo, anche se non lo capisco, perché scoprirò che era bene, che era vero, che dovevo farlo.

    Questa è la Fede, questo è credere. Nessuno potrà affermare di essere inserito in un’esperienza di fede autentica finché non avrà compiuto il suo primo atto percepito come un rischio e compiuto soltanto seguendo quella decisione che fa dire: credo, quindi opero secondo la fede. Finché non avremo compiuto quell’atto, non potremo affermare che la nostra storia con Dio sia diventata un fatto serio ma si tratterà solo di premesse. Soltanto dopo inizierà la nostra vita di fede, con tutto quello che ne consegue. È qualcosa che può fare paura, che si sperimenta veramente come un rischio, perché il Signore non dice quello che accadrà dopo: si deve credere, ci si deve affidare, si deve obbedire e basta. Soltanto dopo il Signore si rivelerà.

    Ma Egli si rivela già prima di quel momento: infatti tutti noi abbiamo conosciuto momenti della nostra vita nei quali, pur non avendo ancora la Fede, abbiamo sperimentato l’amore di Dio, la sua benevolenza, la sua presenza: in una parola, la sua Provvidenza. E ci è piaciuto farci cullare dal Signore, perché le sue sono davvero le braccia più belle del mondo ed Egli è il Padre migliore del mondo. Nel momento in cui ci facciamo cullare, possiamo dire di avere Fede? In teoria sì, perché percepiamo quello che il Signore opera in noi. Ma se il Signore poi ci presenta la sua istanza, prospettandoci una situazione nella quale dobbiamo agire, mossi unicamente dal criterio della fede, e noi invece restiamo fermi, allora è chiaro che neanche nella prima parte della storia si trattava di fede: era altro. Era la bontà di Dio verso tutti gli uomini, anche verso chi non crede, perché il Signore ci ama.

    È possibile affermare di avere Fede soltanto dopo avere risposto per fede, nonostante le esitazioni, le incertezze, le ansie e i dubbi propri di un essere umano alla ricerca di una ragione, con una trepidazione ed una paura che rimangono senza risposta. Ed il Signore non dà risposta, perché il nostro deve andare oltre. Soltanto in seguito, Egli ci farà capire che non c’era motivo di avere incertezze e paura, che non c’era alcun rischio. Il fatto di averci cullato avrebbe dovuto aiutarci a capirlo. Come nel caso di Abramo, il Signore mostra la sua benevolenza e poi fa la sua richiesta. Da quel momento nasce l’atto di Fede, da quel momento si può dire di credere veramente. Ma fino a quel momento si tratta di un rapporto che non è entrato nel vivo.

    Per sentirsi vivo, l’essere umano deve poter fare tre affermazioni: io credo; io spero, io amo. Ritengo che l’essere vivente che possa fare queste affermazioni sia felice poiché sa che la sua vita ha un senso, ha un compimento, ha una meta. Ma in che cosa credere? La nostra risposta è questa: si deve credere veramente in questo Dio d’amore, che ci ha creati per una vita che è eterna e che è la nostra meta e che ci ha salvati perché con il peccato l’avevamo persa. La quarta preghiera eucaristica, parlando del Regno, recita: «dove, asciugata ogni lacrima, non ci sarà più né dolore né pianto». Il Regno è la vita eterna, è la promessa del Signore. Ma è necessario individuare la strada da percorrere per arrivare lì dove non ci sarà più né dolore né pianto. Ecco allora che la Fede diventa affidamento: ci faremo portare per mano dal Signore, il quale ci condurrà per tutta la vita fino a quella meta, fino a quella Terra Promessa, dove, asciugata ogni lacrima, non ci sarà più né pianto né dolore. In questo crediamo e speriamo, in questa promessa che il Signore ci ha fatto di una felicità eterna, e ci affidiamo e ci facciamo condurre. E allora scopriremo che più saremo fedeli al modo che avrà il Signore di condurci, prima arriveremo alla meta, perché cominceremo a gustarla in noi stessi mentre siamo ancora in vita. La nostra vita terrena in Cristo, infatti, è già anticipazione della vita eterna. Questo è il motivo per cui il cristiano arriva a comprendere da solo che l’obbedienza a Dio è la strada migliore: infatti, più seguiremo quello che Dio ci dice, prima e con più pienezza lo realizzeremo.

    Ecco allora che il segreto della perfezione e della vita eterna, ma anche il segreto della felicità e della pace dell’uomo è l’obbedienza alla volontà di Dio, perché una simile volontà di vita eterna, di bene, di pace, di felicità, di serenità è per l’uomo. L’uomo tende la mano al Signore e gli dice: prendimi e conducimi. Ciò che gli consente di realizzare e di comprendere questo disegno, di considerarlo attuabile nella propria vita, una prospettiva per sé e, nello stesso tempo, una luce che fa sì che tutto si realizzi, è il dono della Fede.

    Credere vuol dire credere in tutto questo.

    La Fede, criterio concreto

    del rapporto con Dio

    «Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli, si siederà sul trono della sua gloria. E saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri, e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra. Allora il re dirà a quelli che stanno alla sua destra: Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi. Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti? Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me. Poi dirà a quelli posti alla sua sinistra: Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli. Perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e non mi avete dato da bere; ero forestiero e non mi avete ospitato, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato. Anch’essi allora risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo visto affamato o assetato o forestiero o nudo o malato o in carcere e non ti abbiamo assistito? Ma egli risponderà: In verità vi dico: ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l’avete fatto a me. E se ne andranno, questi al supplizio eterno, e i giusti alla vita eterna» (Mt 25,31-46).

    Meditare su questo passo del Vangelo di Matteo ci permette di comprendere che il Signore ci viene incontro e ci chiama in tanti modi, che si rende presente a noi continuamente attraverso le situazioni della vita. In base alla nostra consapevolezza della presenza costante di Dio nella nostra esistenza, il problema della Fede si sposta nella componente umana, cioè come dire al Signore.

    È estremamente importante approfondire questo punto per chiarire la portata di questo . Qualcuno potrebbe dire: Tutto sommato, porto avanti il mio rapporto con Dio senza farmi enormi problemi a proposito di questo sì, di questa adesione esplicita al Signore. Vivo la mia vita di tutti i giorni, tutto considerato credo al Signore e vado avanti come mi capita. Il Signore rimane là, io rimango qua. I fatti della vita vanno come devono andare. Di fronte ad una situazione come questa, ci si dovrebbe chiedere: chi vive in questo modo, è in condizione di affermare che la Fede è il criterio della sua vita? La risposta è no! In una vita vissuta così non esiste il criterio della Fede, perché ci si ricorda di Dio soltanto quando si ha bisogno; si fa riferimento a Lui soltanto ogni tanto, quando l’animo è portato a pensare a Qualcuno più grande di noi. Ma questo non significa che Dio sia il criterio della vita.

    L’uomo deve decidere esplicitamente se aderire al Signore, perché così pone fine all’alibi che continuamente si costruisce. Fintanto che non si è detto quel , ci si sente liberi, non si hanno obblighi, non si è tenuti a niente. L’essere umano è fatto così, giostra la sua vita, sgattaiolando continuamente di qua e di là. Arrivato alle soglie dell’incontro con Dio, prende quello che può prendere, senza nessun cambiamento nella sua vita…e poi via! Tanto un non l’ha ancora detto! L’uomo conosce bene l’importanza delle parole perché è stato creato in quel modo. La parola in sé è creatrice: Dio pronuncia il nome e la creatura esiste. La parola ha questa potenza e deve essere pronunciata. Il a Dio è costitutivo: il rapporto di fede nasce nel momento in cui l’uomo dice a Dio. Prima esiste una proposta, non ancora un rapporto. La relazione con Dio diventa un rapporto di fede nel momento in cui l’uomo pronuncia il suo e finché non l’ha pronunciato, si rimane sempre nella fase delle premesse. Si può consumare una vita nelle premesse e poi meravigliarsi del fatto che il Signore non si comunica.

    L’uomo riceverà milioni di segni nella sua vita che gli diranno che Dio esiste, ma quello determinante, così come lo vorrebbe, non lo avrà finché non avrà detto e dovrà essere una decisione nella fede. Maria, quando vide l’Angelo che era apparso per farle il grande annuncio, riconobbe la presenza di Dio e disse ; da quel momento lo Spirito Santo la adombrò – per usare l’espressione della Bibbia – ed ella concepì per opera dello Spirito Santo. La comunicazione di Dio inizia dopo il dell’uomo, indispensabile perché costitutivo della condizione posta da Dio per comunicarsi a noi: per fare un esempio, quando si prepara un trattato internazionale, gli Ambasciatori si incontrano, lo stesso fanno i Ministri plenipotenziari, ma fino al momento in cui non si procede alla firma, ogni Stato può fare quello che vuole. I Capi di Stato possono vedersi anche tutti i giorni, ma non vincolano nessuno. Il trattato, cioè l’accordo, nasce al momento della firma. Così anche il nostro a Dio deve essere una decisione esplicita, senza esitazioni, perché è una caratteristica della Fede non ammettere incertezze. Tutti i miracoli del Vangelo presentano una stessa caratteristica: non ci sono dubbi sul fatto che il Signore avrebbe compiuto quello che gli veniva chiesto. Nel miracolo del paralitico, la gente scoperchiò addirittura il tetto di una casa: si trattò chiaramente di un atteggiamento di fede, quelle persone non nutrivano alcuna incertezza, sarebbe stato sufficiente raggiungere il Signore ed Egli avrebbe realizzato il miracolo. Pensiamo alla Cananea, al cieco di Gerico: quell’uomo si mise ad urlare, i discepoli tentarono di fermarlo ma lui urlò più forte perché non nutriva il minimo dubbio, bastava solo che il Signore lo sentisse: «che vuoi che io faccia per te?» (Lc 18,41). La Fede ha questa caratteristica: non ha incertezze perché è Fede. Credere vuol dire fidarsi e si tratta di una caratteristica costante di tutti gli atteggiamenti di fede: Pietro camminò sulle acque, ma quando si fece prendere dalla paura, affondò (Mt 14,22-23); il Signore non gli disse: avevi ragione perché il vento effettivamente era molto forte ma «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?» (Mt 14,31).

    Un’altra caratteristica è che si tratta di un espresso senza esitazioni ma che manifesta la nostra certezza in Dio. Una terza caratteristica è la perseveranza, perché nessuno di noi potrà mai sapere quando il Signore attuerà e manifesterà la sua benevolenza. Solo chi avrà perseverato, sarà salvato. La Lettera ai Romani a proposito di Abramo dice: «egli ebbe fede, sperando contro ogni speranza» (1 Rom 4,18). L’attesa dell’intervento di Dio è la certezza che il Signore realizzerà quanto ha promesso, a volte subito, a volte non si sa quando perché solo Lui conosce il tempo opportuno. Alcuni atti di fede sono complessi e la loro pienezza richiede che l’uomo usi certe attese, è una questione di maturità di fede. In questi casi, solo la perseveranza può essere una garanzia.

    Ritorniamo ancora una volta sull’episodio di Abramo ed Isacco: il Signore lo chiamò e gli presentò la sua richiesta, Abramo acconsentì. Certamente egli doveva nutrire la speranza che ad un certo punto Dio sarebbe intervenuto e avrebbe fatto qualcosa perché suo figlio non venisse ucciso. Ma quale sarebbe stato il momento? Abramo prese Isacco e lo portò via; camminarono, arrivarono, egli raccolse le fascine: ancora niente. Lo legò sulle fascine: ancora niente. Prese il coltello e finalmente, all’ultimo momento, Dio intervenne. La Fede di Abramo è stata piena, perfetta, si è fidato di Dio, non ha scelto. Era il Padre della fede, colui che doveva indirizzarci. Ecco allora spiegata la definizione di Fede in relazione all’episodio di Abramo: egli è colui che spera contro ogni speranza. La Fede ha una forza che va al di là di tutto, perché si fonda su un punto fermo: Dio non viene mai meno alle sue promesse, Dio è fedele. Questa è la fede di base e su questa base è necessario affrontare la vita, anche sperando contro ogni speranza, anche quando l’apparenza è contraria, anche quando tutto ci contraddice, perché il Signore non può venire meno alle promesse. Quindi la nostra decisione deve essere esplicita, senza esitazioni, perseverante.

    Questo aspetto ci permette di comprendere perché il momento della decisione è fondamentale: la Fede si manifesta a noi e per noi come rapporto che si attiva nel momento della risposta dell’uomo. È un rapporto di elezione, di alleanza. In base a questa Alleanza, il Signore disse nel Vecchio Testamento: Voi siete il mio popolo, io sono il vostro Dio, sia dopo l’Alleanza del Sinai sia dopo il ritorno dalla schiavitù in Babilonia. Accettate? Sì, accettiamo. Tutto Israele ascoltava la lettura della Legge

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