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Galileo a Roma: Trionfo e tribolazioni di un genio molesto
Galileo a Roma: Trionfo e tribolazioni di un genio molesto
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Galileo a Roma: Trionfo e tribolazioni di un genio molesto

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Galileo, padre della scienza moderna, fece sei lunghe visite a Roma, per un totale di più di cinquecento giorni, in cui incontrò il papa, esponenti d’alto rango della Chiesa e della nobiltà, così come importanti figure del mondo letterario e scientifico. Questo libro racconta dettagliatamente ciò che accadde a Galileo a Roma e lo fa attraverso una ricerca di prima mano su documenti, lettere, cronache. Per la prima volta si presenta al lettore la carriera di Galileo dal punto di vista privilegiato della città nella quale egli era ansioso di essere conosciuto e approvato.

L’analisi di alcuni aspetti e meccanismi delle dinamiche culturali della Roma del seicento permettono di comprendere meglio sia la vicenda personale e pubblica, del genio Galileo, sia gli avvenimenti di uno dei più drammatici e affascinanti capitoli della storia e della scienza.
LanguageItaliano
Release dateSep 8, 2014
ISBN9788865123423
Galileo a Roma: Trionfo e tribolazioni di un genio molesto

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    Galileo a Roma - Mariano Artigas

    2009

    CAPITOLO I

    A caccia di lavoro

    Primo viaggio: 1587

    Nell’autunno del 1587 giunse a Roma un giovanotto di ventitre anni; veniva da Firenze ed era al suo primo viaggio nella Città Eterna. Il suo nome era Galileo Galilei. In un’epoca in cui la consapevolezza della propria appartenenza sociale aveva, in Italia, una notevole rilevanza, Galileo era fiero del fatto di discendere da una famiglia nobile. Originariamente chiamati Bonaiuti, essi avevano cambiato quel cognome con quello di Galilei nel quattordicesimo secolo, pur mantenendo il loro stemma di famiglia immutato: una scala rossa in campo dorato, che veniva a formare un pittogramma della parola ‘buonaiuti’, letteralmente ‘buon aiuto’. Il primo Galileo Galilei, fratello maggiore del bisnonno del giovane Galileo, fu un dottore famoso e un professore importante all’Università di Firenze; ricoprì alte cariche nella Repubblica, inclusa quella di gonfaloniere, cioè capo magistrato, nel 1445. Morì nel 1450 circa e venne sepolto con pubblici onori nella chiesa di Santa Croce, a Firenze, dove i visitatori possono ancor oggi ammirare la sua raffigurazione marmorea a grandezza naturale sul pavimento della navata, vicino al portale d’ingresso. Il secondo Galileo Galilei, lo scienziato che è l’eroe della nostra storia, nel 1587 non poteva sapere che un giorno egli sarebbe diventato ben più famoso e che la sua tomba sarebbe stata posta nella stessa chiesa, a pochi metri appena da quella del suo antenato.

    Vincenzio, il padre del nostro Galileo, fu di mezzi modesti ma godette di un’alta reputazione come liutista e teorico musicale. Da sua moglie, Giulia Ammannati, ebbe tre figli, Galileo, Michelangelo e Benedetto (morto in tenera età), e quattro figlie, delle quali solo due, Virginia e Livia, sopravvissero. A tutti fu data una formazione musicale e Galileo divenne un buon organista e un notevolissimo liutista. Egli continuò a suonare durante tutta la sua vita ed ebbe grande consolazione dal liuto negli ultimi anni, specialmente quando la cecità venne ad aggiungersi alle altre sue pene. Michelangelo, il fratello più giovane, divenne un insegnante di musica e fece la maggior parte della sua carriera alla corte del Duca di Baviera, a Monaco.

    Il padre di Galileo arrotondava le magre entrate di musicista commerciando in stoffe e tessuti nella città marittima di Pisa, che era parte della Toscana. E fu in questa città che il suo primogenito, Galileo, vide la luce, il 15 febbraio 1564, giusto tre giorni prima che il suo illustre compatriota, il grande artista e scultore Michelangelo Buonarroti, chiudesse gli occhi a Roma.

    Galileo ricevette la sua prima educazione a Pisa; la famiglia ritornò a Firenze quando egli aveva dieci anni. Fu poi mandato alla scuola benedettina di Vallombrosa, vicino a Firenze, ma vi dovette rinunciare a causa di una infiammazione agli occhi, un problema che si sarebbe ripresentato anche in seguito. Si iscrisse alla Facoltà di Arti all’Università di Pisa nel settembre del 1581 e la lasciò tre anni e mezzo dopo senza aver conseguito un titolo. Tale pratica era a quel tempo comune e non costituì un ostacolo quando Galileo, più tardi, cercò un posto all’università. Le pubblicazioni e delle buone referenze erano molto più utili di un pezzo di carta con scritto Maestro o Dottore.

    Ostilio Ricci dava lezioni di matematica ai paggi del granduca e a Galileo venne dato il permesso di assistervi. Presto scoprì che la sua vera passione non era la medicina, come aveva pensato in un primo momento, ma la matematica, che di recente era ritornata al centro dell’interesse a motivo della pubblicazione degli scritti originali di Euclide e Archimede. Ciò non significa che Galileo trascurasse la letteratura e le altre arti, anzi: in questo periodo egli scrisse alcuni saggi su alcuni grandi scrittori italiani, come Dante, Ariosto e Tasso. Dimostrò inoltre un notevole talento per il disegno e, se le circostanze gli avessero permesso di scegliere, egli avrebbe voluto diventare un pittore. La sua bravura nel disegno e nella pittura gli avrebbe guadagnato, più tardi, l’ammirazione di alcuni dei più famosi artisti del suo tempo. Ludovico Cigoli, forse il pittore più noto tra quelli che lavoravano a Roma all’inizio del diciassettesimo secolo, era solito dire che Galileo era stato il suo maestro nell’arte della prospettiva e che tutta la reputazione di cui godeva come artista la doveva ai consigli e all’incoraggiamento di Galileo.

    Come far carriera

    Quando lasciò l’università nell’estate del 1585, comunque, una carriera come pittore era fuori discussione. Con una famiglia che cresceva e con pochi mezzi, Vincenzio si aspettava che il figlio maggiore trovasse un lavoro. Galileo era d’accordo e iniziò a dare lezioni private di matematica a degli studenti di Firenze e della vicina città di Siena. Ben presto però si rese conto che così non sarebbe andato molto lontano. Ciò di cui aveva bisogno era un lavoro stabile e, con la matematica, questo corrispondeva a un posto in una università. Decise di provare a concorrere per il primo posto che si fosse reso vacante e, nel frattempo, iniziò ad informarsi su ciò che era necessario fare a tal fine. Per prima cosa, egli doveva produrre un lavoro originale e, in secondo luogo, doveva procurarsi delle buone raccomandazioni. La prima cosa era condizione per la seconda e, mentre stava cercando un tema di ricerca adeguato, Galileo udì, forse dalle labbra di Ostilio Ricci, la famosa storia di Archimede e dell’orafo al quale era stata data una certa quantità di oro per fabbricare una corona per Gerone, tiranno di Siracusa. Quando l’opera fu compiuta, Gerone sospettò che l’orafo l’avesse ingannato mescolando l’oro con qualche altro metallo meno nobile, e si rivolse ad Archimede sperando di poter scoprire l’inganno. L’orafo lo aveva assicurato che la corona pesava esattamente quanto l’oro fornitogli, ma poiché l’argento, a parità di peso, ha una massa superiore all’oro, se fosse stato aggiunto dell’argento la corona sarebbe stata più grande. Questo era vero, ma il problema era misurare le quantità (e quindi verificare la purezza del metallo) senza distruggere l’opera d’arte, cioè senza fondere la corona. Archimede fu quasi totalmente assorbito dall’enigma e decise di fare una pausa e di andare ai bagni pubblici. Quando entrò nella piscina, che era piena fino all’orlo, realizzò che una quantità d’acqua dello stesso volume del suo corpo doveva tracimare prima che egli potesse immergersi completamente. In un lampo egli vide la soluzione al suo problema e uscì di corsa dai bagni pubblici completamente nudo gridando Eureka! Eureka! (Ho trovato! Ho trovato!). Ricompostosi un poco, tornò a casa, si procurò due masse di metallo, una d’argento e l’altra d’oro, entrambe dello stesso peso della corona. Riempì un recipiente d’acqua fino all’orlo e lo collocò in un contenitore più grande. Poi immerse la massa d’argento nel recipiente e raccolse accuratamente l’acqua che tracimava. Ripeté la stessa operazione con la massa d’oro e trovò che era fuoriuscita una quantità minore d’acqua. Poi immerse la corona nel recipiente e osservò che essa muoveva più acqua di quanto aveva fatto la massa d’oro ma meno di quella d’argento. Senza dubbio la corona non era né interamente d’oro né interamente d’argento, ma di una mistura dei due!

    Questo esperimento fece riflettere Galileo tanto intensamente quanto Archimede stesso. Si rese conto che un corpo con massa maggiore come l’oro è più compatto di uno meno massiccio come l’argento e, quindi, pesa di più per volume. Si accorse che il metodo di Archimede, sebbene corretto come principio, non era rigoroso abbastanza, e costruì una ingegnosa bilancia di precisione, quella che chiamiamo bilancia idrostatica, per misurare i due pesi dei metalli più accuratamente.

    La cattedra di matematica all’Università di Bologna era vacante e Galileo decise di provare. Ma le abilità pratiche, pur tanto importanti, non erano sufficienti ad assicurare un posto universitario. Era richiesto un lavoro matematico originale e Galileo decise di studiare alcuni problemi geometrici relativi al centro di gravità dei solidi. Il risultato fu un lavoro che non venne pubblicato in una rivista di matematica perché non ne esistevano ancora, ma venne messo in circolazione e mandato ad alcuni eminenti matematici, tra i quali Giuseppe Moletti, professore di matematica dell’Università di Padova, e il marchese Guidobaldo del Monte, autore di importanti opere di matematica e meccanica. Entrambi risposero molto gentilmente e si congratularono con il giovane studioso.

    Un eminente matematico gesuita

    Nell’Italia della Controriforma, il supporto ecclesiastico non era cosa da trascurarsi e Galileo cercò di assicurarselo sottoponendo il suo lavoro ai Gesuiti, che erano considerati il più colto e progredito ordine della Chiesa cattolica. La principale istituzione di studi superiori era il Collegio Romano, fondato nel 1551, e il professore di matematica, Cristoforo Clavio, era famoso in tutta Europa. Una sua lettera di raccomandazione avrebbe anch’essa avuto un peso d’oro.

    La Compagnia di Gesù, fondata da Ignazio di Loyola, era stata approvata da papa Paolo III nel 1540. Nel 1581 essa contava più di 5.000 membri e, nel 1612, quando fu fatto un censimento, se ne contarono 13.112. I suoi membri eccellevano nell’insegnamento e, entro il 1580, erano stati aperti 140 collegi, numero che crebbe a 245 all’inizio del secolo seguente. Essi erano specializzati in teologia e filosofia ma non trascuravano la matematica e le scienze della natura. Numerosi gesuiti diedero importanti contributi al progresso della conoscenza, ma il più famoso fu Cristoforo Clavio, che aveva lasciato la sua nativa Bamberga, in Germania, per unirsi alla Compagnia di Gesù nel 1555, quando aveva appena sedici anni. Tra il 1555 e il 1557 vi furono notevoli difficoltà per i Gesuiti perché l’elezione al soglio pontificio di Paolo IV creò ostilità tra il papato e la Spagna. La giovane Compagnia, quasi all’indigenza, non era in grado di mantenere tutti i suoi novizi a Roma e per questa ragione molti vennero inviati in altri collegi gesuiti. Così Clavio nel 1556 fu mandato a studiare in Portogallo e rientrò a Roma quattro anni dopo. Fu ordinato sacerdote nel 1564, l’anno in cui nacque Galileo. Poco dopo fu nominato professore di matematica al Collegio Romano, posto che avrebbe occupato fino alla sua morte, avvenuta nel 1612.

    La riforma del calendario

    Uno dei risultati più brillanti conseguiti da Clavio nella sua carriera fu determinato dal ruolo da lui avuto nella riforma del calendario, quale membro di una commissione istituita da Gregorio XIII a metà della decade del 1570. La Chiesa la ritenne una questione urgente perché la Pasqua, la più importante solennità cristiana, non cade in un giorno fisso come il Natale ma è celebrata dai cristiani d’occidente la prima domenica dopo il plenilunio che coincide o immediatamente segue l’equinozio di primavera. In pratica tra il 22 marzo e il 25 aprile. Nel calendario giuliano, introdotto sotto Giulio Cesare nel 46 a.C., le stagioni e gli equinozi erano sfasati. Questo calendario, secondo cui l’anno contiene esattamente 365 giorni e un quarto, aggiungeva un giorno ogni quattro anni. Dato che la durata effettiva di un anno è poco meno di 365 giorni e un quarto, ciò comportava un errore di circa tre giorni ogni 400 anni. La commissione creata da Gregorio XIII mise le cose in ordine omettendo 3 anni bisestili ogni quattro secoli. Secondo il vecchio schema, era bisestile ogni anno divisibile per 4. Secondo il nuovo, non sono bisestili gli anni divisibili per 100 ma non per 400. Quindi il 1800 e il 1900 non erano anni bisestili, ma il 2000 lo fu, e lo sarà il 2400. Questo ridusse l’errore a circa un giorno ogni 4000 anni. La riforma gregoriana che fu introdotta nel 1582 recuperò l’anno reale omettendo dieci giorni. Così il giorno seguente al 4 ottobre 1582 fu il 15 ottobre 1582. Santa Teresa d’Ávila, la grande mistica spagnola, morì nella notte tra il 4 e il 15 ottobre 1582.

    A noi oggi la riforma può sembrare una cosa semplice o addirittura banale, ma allora essa fece sorgere accese discussioni. I lavoratori temevano di perdere così giorni di paga e in molte città scoppiarono disordini. Clavio impiegò molto tempo per illustrare le basi e le applicazioni del nuovo calendario, con un successo assai limitato nei paesi non cattolici. Il calendario gregoriano non venne adottato in Inghilterra fino al 1752 e in Russia fino al 1918.

    Un eminente teologo gesuita

    Se Clavio fu il matematico di punta del Collegio Romano, il suo più famoso professore fu invece il teologo e futuro cardinale Roberto Bellarmino, che proveniva da una nobile famiglia toscana. Nel 1555 un suo zio era stato eletto papa con il nome di Marcello II, ma era morto poco dopo. Nel 1560 il diciottenne Bellarmino si recò a Roma per unirsi ai Gesuiti. Nel 1569 entrò nel corpo docente dell’Università di Lovanio e nel 1576 fu nominato professore di teologia al Collegio Romano. Uomo generoso e santo, egli fu anche amante della disciplina e dell’ordine e quindi non gradiva la confusione dottrinale che seguì alla Riforma. Egli riteneva che il compito della teologia fosse principalmente quello di sistematizzare e chiarificare la fede, concepita come un corpus di proposizioni intellettuali coerenti, in modo da ottimizzare la sua certezza e la sua finalità.

    Bellarmino articolò le dottrine cattoliche in sistemi che potevano essere diretti, nella più inequivocabile e effettiva forma, contro il dubbio e l’eresia. Per rendere più facili i confronti egli sistematizzò anche le dottrine dei suoi oppositori. I suoi scritti più noti sono i quattro volumi delle Controversie che ebbero a tutto il secolo XVII ben trenta edizioni. Tali scritti erano così popolari che quando fu pubblicato, nel 1588, il secondo volume, tutte le copie alla Fiera di Francoforte furono immediatamente vendute. Vi sono incluse le lezioni di Bellarmino al Collegio Romano, che consistono in una chiarificazione della dottrina cattolica, frutto del confronto con la teologia protestante. Ciò non significa che Bellarmino ed i suoi avversari protestanti fossero totalmente estranei, come si evince dal fatto che una delle opere devozionali di Bellarmino, L’arte di ben morire, fu tradotta in inglese da un prete anglicano ed ebbe almeno due edizioni.

    È possibile che nel 1587 Galileo abbia incontrato Bellarmino ma essi avevano ben poco in comune in quel tempo. Bellarmino, che aveva allora quarantacinque anni, era infatti uno dei più eminenti rappresentanti del pensiero cattolico, mentre Galileo era un semplice matematico senza impiego, che cercava di attirare l’attenzione sul suo primo scritto. Bellarmino divenne rettore del Collegio Romano nel 1592, ma le sue abilità amministrative furono presto richieste altrove, e così, nel 1595, venne mandato a Napoli a dirigere la Provincia dei Gesuiti. Successivamente il papa decise che i di lui servizi erano ancora più urgentemente necessari a Roma, dove lo richiamò e lo fece cardinale. Il nome di Bellarmino apparve tra i papabili nei due conclavi cui prese parte ma egli non volle essere considerato come candidato al papato. Nel 1606, quando il cardinale Camillo Borghese divenne papa Paolo V, Bellarmino accettò di comporre le controversie sorte con Venezia (1606), con la Chiesa Anglicana (1607-1609) e con i Gallicani francesi (1610-1612). Bellarmino aveva esaminato il caso del filosofo Giordano Bruno, l’ex frate domenicano che finì sul rogo a Roma nel 1600. Bruno fu condannato per le sue idee teologiche eterodosse, ma egli aveva anche abbracciato il copernicanesimo che aveva ipotizzato il movimento della terra. Nel 1587 Galileo non era ancora coinvolto nello studio della nuova teoria, ma probabilmente sapeva già della sua esistenza e forse aveva già incominciato a riflettervi.

    Il Concilio di Trento

    Per comprendere il ruolo di Bellarmino è necessario dire qualche parola sul Concilio di Trento e la cosiddetta Controriforma cattolica, di cui egli fu uno dei massimi portavoce. La Chiesa aveva celebrato concili generali o ecumenici in diverse epoche della sua storia, fin dall’antichità. Il Concilio di Trento, così chiamato dalla città del nord Italia in cui si svolse, venne convocato nel 1545 con la speranza di riunire Protestanti e Cattolici. I Protestanti erano scettici circa le intenzioni dei Cattolici e rifiutarono di andare, con il risultato che al Concilio di Trento parteciparono prevalentemente vescovi italiani. Dei 270 vescovi presenti nelle varie sessioni tra il 1545 e il 1563, 187 erano italiani, 31 spagnoli, 26 francesi e 2 tedeschi. La crescente influenza italiana si può vedere anche nel Sacro Collegio dei Cardinali che, all’inizio del secolo XVI, erano 35, 21 dei quali italiani (68%). Nel 1598, quando il numero dei cardinali era salito a 57, 46 provenivano dall’Italia (più dell’80%).

    Delle numerose questioni dottrinali che vennero discusse a Trento, due in particolare sarebbero state importanti per Galileo, e cioè l’interpretazione della Scrittura e la dottrina dell’Eucarestia. Nella Sessione IV del Concilio, in data 8 aprile 1546, venne approvato il seguente decreto:

    Inoltre, per reprimere gli ingegni troppo saccenti, dichiara che nessuno, basandosi sulla propria saggezza, negli argomenti di fede e di costumi, che riguardano la dottrina cristiana, piegando la Sacra Scrittura secondo i propri modi di vedere, osi interpretarla contro il senso che ha (sempre) ritenuto e ritiene la santa madre Chiesa, alla quale spetta di giudicare del vero senso e dell’interpretazione delle Sacre Scritture o anche contro l’unanime consenso dei Padri, anche se queste interpretazioni non dovessero esser mai pubblicate. Chi contravvenisse sia denunciato dagli ordinari e punito secondo il diritto.¹

    La Chiesa cattolica volle sottolineare l’importanza della tradizione e del magistero di fronte ai Protestanti che ne sminuivano la rilevanza. Le parole chiave del decreto che abbiamo appena citato sono in rebus fidei et morum. Il Concilio operò in questo contesto teologico e nessuno a quel tempo sembrò ritenere che la scienza in generale, men che meno l’ipotesi specifica che la Terra si muove, da poco avanzata da Copernico, potesse essere una questione religiosa.

    Se l’esegesi della Sacra Scrittura costituiva motivo di conflitto tra Cattolici e Protestanti, la dottrina dell’Eucarestia era anch’essa controversa. Il punto dolente era l’interpretazione delle parole di Cristo nell’Ultima Cena: Questo è il mio corpo; questo è il mio sangue. Alcuni Protestanti erano per un’interpretazione puramente spirituale o simbolica di tali parole, mentre i Cattolici e altri Protestanti insistevano sulla presenza reale di Cristo nel pane e nel vino consacrati. Quest’ultima fu la posizione sostenuta dal Concilio di Trento e, per rimarcare che il pane e il vino si cambiavano nel corpo e nel sangue del Salvatore, essi usarono il termine tecnico transustanziazione, che divenne il motivo della contesa con i Protestanti. Il decreto avrebbe poi causato problemi anche agli scienziati che, come Galileo, sostenevano l’atomismo. Alcuni teologi affermavano che l’atomismo era una teoria incompatibile con gli insegnamenti del Concilio di Trento perché essa toglieva la distinzione tra sostanziale e accidentale. Questi teologi ritenevano che tale distinzione fosse necessaria per comprendere la dottrina secondo cui la sostanza dell’ostia consacrata diventa corpo di Cristo mentre le apparenze rimangono quelle del pane. Vedremo come il problema si fece serio quando prenderemo in considerazione il quarto viaggio di Galileo a Roma nel 1624.

    La bolla papale con cui Pio IV approvò i decreti del Concilio di Trento venne firmata il 26 gennaio 1564, pochi giorni prima della nascita di Galileo. I decreti posero la base dottrinale sulla quale le relazioni tra scienza e religione sarebbero state da allora in poi discusse nei paesi cattolici. La base amministrativa prese forma a partire dallo sviluppo del governo pontificio o Curia Romana, come si è soliti chiamarla. Di speciale rilevanza sono due nuove Congregazioni (che oggi chiameremmo ministeri): il Sant’Uffizio e la Congregazione dell’Indice.

    Il Sant’Uffizio era la terza e modernizzata versione dei due precedenti tribunali dell’Inquisizione. Il primo fu l’Inquisizione medievale, creata nel secolo XII per combattere i movimenti eretici e sociali, come quello degli Albigesi nella Francia meridionale e nell’Italia del nord. Il secondo fu l’Inquisizione spagnola, che operò indipendentemente ma che era stata riconosciuta dal papa e che durò fino al secolo XIX. Il terzo, il Sant’Uffizio, fu creato nel 1542 da Paolo III come un’arma contro la diffusione del Protestantesimo; assurse poi al rango di prima tra le Congregazioni e, nel 1566, ne venne fissata la sede vicino a San Pietro, in un edificio con il quale più tardi Galileo avrebbe avuto fin troppa familiarità.

    La Congregazione dell’Indice, il cui lavoro era censurare i libri, fu istituita dopo la creazione del Sant’Uffizio. Un indice di libri proscritti esisteva fin dal tempo del IV Concilio Lateranense, del 1515, ma era stato applicato a livello locale dai vescovi e dalle università. Paolo IV ritenne che esso doveva essere gestito da Roma e, nel 1559, fece pubblicare il primo Indice dei libri proibiti ufficiale, una lista che comprendeva tutte le opere di Erasmo da Rotterdam, l’intero lavoro di 61 stampatori e tutte le traduzioni della Bibbia nei vari volgari nazionali. Era una lista tanto severa che, di fatto, il Concilio di Trento nel 1562 la mitigò. Poco dopo, Pio V (1566-1572) cambiò la natura dell’Indice, intendendolo non più come una lista fissata di scritti condannati ma come un’azione continua di vigilanza e di censura. Per sovrintendere all’impresa egli creò, nel 1572, la Congregazione dell’Indice.

    La Roma della Controriforma

    Quando Galileo arrivò a Roma, nel 1587, non poté non rimanere colpito dal riassetto urbano che inaspettatamente si era messo in moto un paio d’anni prima, con l’ascesa al soglio pontificio di un francescano dai modi gentili e dall’eloquio soave, che si chiamò Sisto V. Sessantaquattrenne, reputato di salute cagionevole, di Sisto V si previde che sarebbe stato un pontefice di transizione che non avrebbe vissuto a lungo né intrapreso grandi imprese. Ma le cose sarebbero andate diversamente. Durante i cinque anni del suo pontificato, egli fu più attivo di qualunque altro papa a memoria d’uomo. Era convinto che una Roma in cattivo stato fosse una disgrazia e che la cristianità avesse bisogno di un simbolo di vittoria sul paganesimo e l’eresia. Si indignò inoltre per il fatto che i 140.000 abitanti di Roma vivessero ammassati vicino al Tevere che spesso straripava causando gravi disagi e malattie. Egli fece una semplice domanda: perché non potevano vivere su un terreno più elevato? I colli romani del Quirinale, dell’Esquilino e del Viminale erano stati abitati nei tempi antichi e Sisto V lo rese possibile ancora facendo mettere giù nuove strade e costruendo un grande acquedotto per risolvere il problema della ricorrente scarsità d’acqua potabile. Inoltre rese le strade di Roma più sicure di quanto non fossero state per decenni. Rimodellò i palazzi del Laterano e del Vaticano e, due settimane prima della sua morte, sopraggiunta il 27 agosto 1590, fu in grado di ammirare dalla sua dimora sul Quirinale, che è oggi la residenza del presidente della Repubblica italiana, la cupola di San Pietro completata. Invero, egli trasformò Roma in un museo all’aria aperta.

    Sisto V portò la sua azione riformatrice anche al cuore dell’amministrazione pontificia. Nel 1588 fece crescere la Curia a quindici Congregazioni permanenti, ciascuna composta da vari cardinali, e confermò la priorità del Sant’Uffizio. Per ricordare a tutti il trionfo del cristianesimo egli aveva collocato sulle antiche colonne di Traiano e di Marco Aurelio le statue di san Pietro e di san Paolo. Incoronò con la croce anche quattro grandi obelischi che erano stati portati a Roma al tempo degli antichi Romani. Uno lo fece collocare in Piazza del Popolo e gli altri davanti al Laterano, a Santa Maria Maggiore e a San Pietro. La più spettacolare di tali imprese di ingegneria fu il trasloco del pesantissimo obelisco che era stato posto nel Circo di Caligola e Nerone. I papi rinascimentali avevano pensato di trasportare la colonna di 25 metri, ma Michelangelo e Sangallo li avevano dissuasi. Sisto V persuase il suo architetto, Domenico Fontana, che la cosa era fattibile. Dopo sei mesi di preparativi, l’obelisco fu caricato su un carro di quercia, appositamente disegnato e costruito, e trasportato nel centro di Piazza San Pietro: il 10 settembre 1586 venne alzato da 800 uomini e 140 cavalli. Alla folla che assisteva era stato ordinato di rimanere in silenzio, ma all’improvviso si levò forte il grido Acqua! Acqua!. Un operaio aveva notato che le corde secche si stavano arroventando e rischiavano di incendiarsi, ed ebbe il coraggio di disobbedire all’ordine e lanciare l’allarme. Il

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