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Il morire tra ragione e fede
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Il morire tra ragione e fede

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Chi è il prossimo? Che cos’è la libertà? La morte è l’ultima parola? Il confronto tra il filosofo Emanuele Severino e il teologo Angelo Scola indica con forza che il parlare della morte è un tema che annuncia, sotto le ceneri dello smarrimento contemporaneo, la consapevolezza che oltre i tratti più dolorosi che caratterizzano il credersi “mortali” appare ciò che l’uomo è più autenticamente.
LanguageItaliano
Release dateSep 2, 2014
ISBN9788865123904
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    Il morire tra ragione e fede - Angelo Scola

    annotazioni

    Presentazione

    di Ines Testoni e Giulio Goggi

    In questa sede viene presentato il dialogo che si è tenuto tra il Cardinale Angelo Scola e il filosofo Emanuele Severino in apertura del convegno internazionale Il morire tra ragione e fede: Universi che orientano le pratiche di aiuto.[1]

    In quell’occasione, l’evento creò un notevole interesse, tanto che la sua risonanza mise le basi per ulteriori sviluppi che sembrano ancor oggi inarrestabili e certamente questo esito giustifica la riedizione aggiornata e la pubblicazione del testo, che è stato per la prima volta dato alle stampe dalla rivista Humanitas. Questo fatto è certamente inscrivibile in un fenomeno contemporaneo che nell’ultimo decennio sta prendendo una forma sempre più precisa, ovvero quella del superamento delle strategie di occultamento della morte che hanno fortemente caratterizzato il Novecento.

    Quello appena passato è stato infatti il secolo in cui alcuni studiosi, andando contro corrente, hanno messo le basi per un nuovo campo si studi: la tanatologia culturale. Citiamo tra questi pochi, Norbert Elias, Elisabeth Kübler Ross, Louis-Vincent Thomas, Edgar Morin, Philippe Ariès, Ernst Becker, i quali oggi sono divenuti il riferimento ineludibile di un numero davvero ragguardevole di ricercatori, che indagano le strategie più efficaci per affrontare l’argomento più temibile. Un rilievo particolare merita Ernest Becker, dalla cui opera hanno preso spunto un gruppo di psicologi sociali che hanno coniato un territorio empirico di ricerca chiamato Terror Management Theory, il cui successo sembra ormai irresistibile.

    Siffatto campo di studi ha dirottato l’esistenzialismo ispirato all’essere per la morte di Heidegger – da cui presero origine l’angoscia sartriana e gli orizzonti dell’assurdo tanto nell’arte quanto nella follia del comportamento collettivo tracimato nel nazismo – per rubricare l’ultima sponda della ricerca fenomenologica, affannosamente impegnata nel recupero dell’invisibile oltre il visibile, nella categoria dell’illusione che la specie animale umana produce per fuggire al terrore di sapersi mortale. È così che le grandi architetture della metafisica, dopo aver subito la demolizione sotto i colpi del martello niezscheano, hanno assunto lo spessore del contenuto sperimentale che l’uomo del disincanto indaga rinchiudendo le illuse cavie umane nelle gabbie della dimostrazione scientifica, in ossequio all’insegnamento darwinista, peraltro da sempre ignaro del proprio esser fondamento ideologico e nient’affatto scientifico.

    Sapersi mortali è insopportabile perché ormai si crede fermamente di essere animali e vedendo come l’umanità tratta i propri compagni di viaggio, rappresentati come materia biologica, l’angoscia è inevitabile.

    Sebbene si tratti di una ideologia, che in quanto tale è apparecchiata su argomentazioni confutabili quanto qualsiasi altra fede, di fatto questo orizzonte è semplicemente basato sulla convinzione che ciò che stabilisce la credibilità scientifica di una qualsiasi teoria sull’uomo è il criterio dell’animalità dell’uomo, destinato a morire come un qualsiasi altro animale.

    In questo congresso si è voluto restituire dignità al ragionamento e anche alla fede, cercando di mettere in dialogo chi, ragionando, stabilisce che la categoria dell’animalità non è affatto esaustiva.

    Il confronto tra Emanuele Severino e Angelo Scola indica con forza che il parlare della morte è un tema che annuncia, sotto le ceneri dello smarrimento contemporaneo, la ripresa di un discorso relativo all’essere al mondo, nella consapevolezza che oltre i tratti più dolorosi del credersi mortali appare ciò che più autenticamente siamo, insieme al mondo che ci accoglie.

    Il dialogo si concentra su due temi in particolare: il rapporto fede-ragione e il significato della libertà.

    Se per Scola la libera adesione a Cristo è la via della salvezza (essendo Cristo la via), per Severino la libertà appartiene invece all’essenza del nichilismo (e cioè alla persuasione che l’ente sia niente) e la fede sta alla radice dell’errore perché è la volontà di tenere fermo ciò di cui non appare l’impossibilità del contraddittorio.

    Il motivo di fondo che attraversa tutto il testo è però la destinazione alla Gloria che attende l’uomo oltre la morte – destinazione su cui entrambi gli interlocutori convengono pur divergendo radicalmente quanto al fondamento del discorso.

    Nelle parole di Scola possiamo scorgere la promessa fatta da Gesù: «Nemmeno un capello del vostro capo perirà» (Lc 21,18). Si tratta della partecipazione della Gloria del Figlio e della piena manifestazione della «Glo­ria futura che dovrà essere rivelata in noi» (Rm 8,18) nel culmine della visione facie ad faciem: nell’abbraccio del Padre, tutto l’essere è salvo e Tommaso può affermare che Cristo risorge con le piaghe «non

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