Kebap in Okinawa
By Macs Well
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About this ebook
Costretto a fuggire all'improvviso troverà rifugio in Giappone, sull'isola di Okinawa dove entrerà nella vita di tre donne profondamente diverse fra loro.
Un romanzo fatto di frasi non dette ed emozioni represse in cui il dolore, in ogni sua espressione, sarà protagonista nelle vite dei personaggi.
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Book preview
Kebap in Okinawa - Macs Well
Kebap in Okinawa
di Macs Well
ISBN 9788898313570
© 2011 Momentum Edizioni
© 2014 Koi Press
Koi Press è un marchio editoriale di Momentum Edizioni | Milano
Direttore responsabile : Massimo Di Gruso
www.koipress.it
Ogni riferimento a luoghi, cose e persone è puramente casuale.
La storia è di pura fantasia.
A chi trova la forza di alzarsi
…ogni mattina
Capitolo 1
Lisbona, giugno 1990
«Yankee-1, passo.»
«Qui Yankee-1.»
«Serata tranquilla?»
«Un po’ fiacca.»
«Ti andrebbe un kebap?»
«Dipende, con salsa piccante?»
«Questa volta è completo.»
«Un po’ pesante vista l’ora... ma non so dirti di no.»
«Angolo fra Rua da Prata e Rua da Vitòria. Uomo con valigetta diretto all’aeroporto. Non fare tardi che il kebap si raffredda.»
«Ricevuto.»
Spengo la radio e accendo la luce di occupato.
Una coppia di turisti si sbraccia per chiamarmi. Accelero. Il motore diesel del vecchio Mercedes ricorda un trattore agricolo che ha visto troppi raccolti e non una macchina un tempo considerata di lusso. Alla Turkysh Taxi le vetture sono nel migliore dei casi di seconda mano, talvolta anche di terza o quarta. Come nel mio caso. I sedili sono in pelle nera lucida mentre la radica è sparsa a caso, così come gli ammennicoli che tappezzano l’interno.
La strada è sgombra. Considerando l’ora non mi sorprende.
Lisbona dopo le dieci di sera si svuota. I turisti fanno rientro ai loro alberghi, mentre i popolani sono troppo provati dal vino per vagabondare per le strade. Per le vie si sente il costante odore di carne alla brace. È ovunque, dopo un po’ non ci fai più caso. Il mio po’ risale a circa cinque anni fa.
Originario del Maryland sono nato negli anni in cui avere vent’anni voleva dire impugna un’arma e segui lo zio Sam
. Dopo il primo anno di college, grazie alla borsa di studio per il football, avevo realizzato che il mio posto non era sul manto curato di un campus per ragazzi di buona famiglia, ma nella giungla umida e poco accogliente del Vietnam. Non sono mai stato uno troppo sveglio e per quelli come me, laggiù, c’era solo un posto dove venire assegnati: la prima linea. L’addestramento era durato appena due settimane, di cui una durante i voli di collegamento fra il nulla e un posto che a breve sarebbe stato cancellato dalle cartine. Sono sopravvissuto ai miei compagni più per fortuna che per bravura. Due anni in quell’inferno sono valsi come venti in qualunque altra vita e addosso me li sentivo tutti.
A due settimane dal mio rientro a casa un ragazzino vietnamita mi fece trovare come regalo d’addio una torta con granate e colpi di mortaio. Una scheggia di granata giocò a carambola con un menisco e l’onda dell’esplosione mi forò un timpano.
«Poteva andarti peggio» disse l’ufficiale medico mentre tagliava e cuciva noncurante di essersi dimenticato l’anestesia.
Feci rientro in patria secondo alcuni da eroe, secondo altri come un carnefice e reduce. Mi riservarono lo stesso trattamento di Rambo, ma io non ero di certo uno Stallone e soprattutto non avevo un colonnello che mi avrebbe parato il culo se avessi seminato cadaveri per mezza America.
Zoppo e mezzo sordo feci come molti commilitoni nella mia situazione: cercai di rifarmi una vita.
Annaspai fino agli anni ‘80... lavori come carpentiere, scaricatore rionale e fabbro si alternarono ogni mese facendomi portare a casa la pagnotta, ma solo quella.
Arrivarono gli anni del rock con nomi come Black Sabbath, Van Halen, Deep Purple, Led Zeppelin e Kiss. Un business che faceva tremare, a confronto, l’industria bellica per fatturato. Entrai per caso nel giro dei concerti. Smontavo e rimontavo nel giro di una notte palchi di gruppi che la storia, di lì a vent’anni, avrebbe celebrato ancora come icone. Loro che la storia l’avevano letta sui libri, fra una canna di marijuana e una pista di coca.
La mia stazza robusta faceva comodo in quell’ambiente di disadattati. Gente senza fissa dimora che non si faceva nessuno scrupolo a viaggiare lontano da casa per mesi. Il nuovo concetto di marinai o semplicemente dei nomadi.
Trasportavo carichi come un mulo senza bisogno della carota. Facevo il mio lavoro senza dare problemi, però neanche questo fu sufficiente.
Sbarcammo in Europa, ma troppe date del tour saltarono. Il gruppo non era stato ben pubblicizzato e nel vecchio continente le novità facevano fatica a imporsi.
L’organizzazione tagliò di netto i costi come il contadino taglia il grano a giugno.
Mi trovai così, nel giro di una notte, a piedi nel bel mezzo di Lisbona con una sacca piena di abiti sporchi e una misera liquidazione.
Accusai il colpo e andai avanti. Avevo 42 anni e mi trovavo a dover ricominciare da capo, questa volta come buttafuori.
Stesso repertorio. Facevo ciò che mi chiedevano. Se c’era da picchiare picchiavo, se c’era da prenderle le prendevo. Le pillole per il dolore alla gamba facevano il loro lavoro coprendo gli effetti di ogni livido.
Fu proprio in una di quelle sere, al Club Matisse, che Saif riapparse nella mia vita. Forse per caso, forse no.
Gli chiesi come aveva trascorso gli anni dopo il Vietnam. Se avesse rivisto gli altri: