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L'Amuleto del Sonno: Iskìda della Terra di Nurak - Prima Stagione
L'Amuleto del Sonno: Iskìda della Terra di Nurak - Prima Stagione
L'Amuleto del Sonno: Iskìda della Terra di Nurak - Prima Stagione
Ebook429 pages5 hours

L'Amuleto del Sonno: Iskìda della Terra di Nurak - Prima Stagione

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About this ebook

«Lianda stette immobile come pietrificata, gli occhi sbarrati.
- Iskìda, dammi il tuo medaglione.
La voce della strega fu un comando. Iskìda portò la mano al ciondolo, proteggendolo col palmo.
- Perché?
- Dammelo e basta.
Cosa aveva Lianda? Esitò, se lo sfilò piano dal collo. Quella lo afferrò.» [...]
«Lianda avvicinò il talismano al bagliore del fuoco. Lo rigirò tra le mani, lo sguardo concentrato.
Era un cordino di cuoio morbido a cui stava appeso un medaglione del diametro di una nespola, anch´esso di cuoio, ma cotto col fumo, con incisa sopra la tripla spirale del Kaelion. Sotto il medaglione stava una mezza luna di selce rivolta verso il basso e, ai lati, appese al cordino, due zanne canine. Iskìda cercò di ricordarsi quando l´aveva ricevuto, ma non seppe dirselo. Per quanto rovistasse indietro nei ricordi, lo aveva sempre avuto al collo.»

Terra di Nurak,
terra antica di Dei e Giganti,
trentadue i Clan, trentadue i Segni Astrali,
trentadue le Lune e quattro gli Elementi della Magia.
Sottile è il velo che separa sonno e veglia, sogno e realtà,
e nel sangue degli Erranti è il potere di varcarlo...
Iskìda...
LanguageItaliano
PublisherCondaghes
Release dateJan 30, 2014
ISBN9788873568230
L'Amuleto del Sonno: Iskìda della Terra di Nurak - Prima Stagione

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    Book preview

    L'Amuleto del Sonno - Andrea Atzori

    al James nonno che mi ha donato una penna

    Andrea Atzori

    Iskìda della Terra di Nurak

    Prima Stagione

    L’Amuleto 

    del Sonno

    illustrazioni di Dany & Dany

    www.terradinurak.net

    ISBN 978-88-7356-823-0

    Condaghes

    Indice

    Libro I - Figlia di Clan

    Preludio

    Capitolo I

    Capitolo II

    Capitolo III

    Capitolo IV

    Capitolo V

    Capitolo VI

    Capitolo VII

    Capitolo VIII

    Capitolo IX

    Capitolo X

    Capitolo XI

    Capitolo XII

    Capitolo XIII

    Capitolo XIV

    Capitolo XV

    Capitolo XVI

    Capitolo XVII

    Capitolo XVIII

    Capitolo XIX

    Libro II - Auro

    Capitolo I

    Capitolo II

    Capitolo III

    Capitolo IV

    Capitolo V

    Capitolo VI

    Capitolo VII

    Capitolo VIII

    Capitolo IX

    Capitolo X

    Capitolo XI

    Capitolo XII

    Capitolo XIII

    Capitolo XIV

    Capitolo XV

    Capitolo XVI

    Capitolo XVII

    Capitolo XVIII

    Capitolo XIX

    Libro III - La Grande Assemblea

    Capitolo I

    Capitolo II

    Capitolo III

    Capitolo IV

    Capitolo V

    Capitolo VI

    Capitolo VII

    Capitolo VIII

    Capitolo IX

    Capitolo X

    Capitolo XI

    Capitolo XII

    Capitolo XIII

    Capitolo XIV

    Capitolo XV

    Capitolo XVI

    Capitolo XVII

    Capitolo XVIII

    Capitolo XIX

    Capitolo XX

    Capitolo XXI

    Capitolo XXII

    Capitolo XXIII

    La Mappa e i Clan di Nurak

    I Personaggi

    Nota dell'Autore

    L'Autore

    Ringraziamenti

    La collana Kìndhalos

    Colophon

    Libro I

    Figlia di Clan

    Preludio

    Il vento infuriava nella notte di Lùn. Il mare in burrasca si scaraventava contro le scogliere facendo tremare la terra e l’aria. Nell’antro della Roccia del Lupo il baluginio di un fuoco tremolava sulle pareti e la grotta sapeva di resina e fumo.

    La Jana era seduta a gambe incrociate sulla nuda roccia, i lunghi capelli d’argento lisci sull’esile volto senza età, gli occhi bianchi e ciechi. Ai suoi piedi era disteso un drappo di cuoio su cui era tracciata una tripla spirale. La Jana aprì i palmi e le rune rotolarono sul corame con un cozzare sordo.

    Un tuono squarciò la notte.

    Allungò le mani sottili e le passò sui ciottoli, sfiorandoli, senza smuoverli.

    Annuì.

    – Dunque sono morti...

    Da un’alcova nel buio un falco spiccò il volo e si adagiò sul suo braccio. Lei lo accarezzò.

    – Non saranno gli ultimi...

    La Jana rimosse delle rune, rapida, in sequenza, e protese i palmi.

    – E così di nuovo si abbatte su Nurak la volontà dell’Ultimogenito. Vento del Caos, di Terrore, Carestia e Pestilenza; di Morte... Sorta è la superbia e caduto è l’Uomo. Troppo pochi i giusti perché il coraggio non fosse barattato con la vita... Troppi gli orfani...

    Il lampo illuminò la grotta, la pioggia cominciò a cadere pesante.

    Ancora il tuono lacerò il silenzio.

    Il falco balzò sul drappo e becchettò una runa. La Jana sospirò.

    – Paura e diniego investiranno Lùn e i Branchi del Clan del Cane... Lo sai bene, Radu, che attraversi incappucciato la tempesta con il tuo fardello verso la Roccia del Lupo. Avresti potuto fermarli, non l’hai fatto. Non li hai però neanche spinti ad andare, forse questo il tuo errore... per questo si lacera il tuo cuore, per questo senti la colpa. Ma quel fardello stringi al petto e speri che le vie di Akasha siano così grandi e clementi da far sì che lei possa riuscire dove tu hai fallito, dove tu fallirai... forse, stregone, forse... in lei in fondo scorre il sangue di sua madre. Se gli Dèi fossero ancora qui saprebbero dirtelo. Ahimè, ora puoi solo attendere...

    Le palpebre della Jana tremolarono.

    Il falco tese il capo. Spiccò il volo e fu di nuovo nell’alcova, nel buio.

    Fuori, oltre il frastuono della tempesta, dei passi.

    Un lampo dipinse un’ombra nera sulla parete della grotta. Un uomo incappucciato si chinò ed entrò nell’antro della Roccia del Lupo, seguito da un cane nero.

    Si scrollò il fradicio mantello di pelliccia e si asciugò gli occhi.

    Il suo volto segnato dalle rughe era contratto in un’espressione tetra. Sul nudo cranio portava dei tatuaggi a spirale e una barba grigia gli scendeva sino al torace, dove sotto una collana di zanne teneva avvinghiato in fasce un fagotto.

    Un fagotto che si mosse, vagì, e iniziò a piangere.

    I

    Ferma!

    Ino la fulminò con lo sguardo, gli occhi rossi chiusi in una fessura. Il mastino era acquattato nell’erba alta, il muso teso ad annusare, il suo manto crespo più nero della notte senza luna.

    Iskìda si abbassò di scatto, il cuore un martello nel petto. Rimase in ascolto: il fruscio dell’erba, il crepitio delle fiamme. Li avevano forse visti?

    Ino aveva ragione, doveva stare più attenta. Eppure, da dove erano nascosti, la cima del promontorio era ancora celata alla vista. In lontananza il fuoco continuava a sfiorare il cielo stellato, e quella cantilena lamentosa non dava cenno di smettere; cresceva anzi di intensità, lenta e inarrestabile come la marea che lambiva la scogliera di sotto. L’erba attorno era rossa al bagliore delle fiamme, e c’era un odore, un odore nauseante che si mischiava alla salsedine, denso e dolciastro peggio di un carrubo in fiore.

    Io vado. Tu segui, bassa!

    Ino strisciò acquattato sulle zampe e sparì tra l’erba. Iskìda trattenne il fiato e scattò. Avanzò lesta, respirando a mala pena per non fare rumore. La notte era silenziosa come non se ne ricordava altre. Nel pieno della Stagione dei Lunghi Giorni il fruscio delle alette degli spiritelli dell’erba, i Sei-Sei, avrebbe dovuto far più rumore dei grilli; l’aria invece era immobile quasi fosse la Stagione del Freddo, con i Mamudu muti e in agguato nel buio.

    Inciampò su qualcosa. Scartò di lato e si rannicchiò, pronta a mordere.

    Di fronte, tra gli steli, stava un gatto selvatico. Il suo manto grigio striato si gonfiava su e giù, su e giù con il respiro. Dormiva.

    Iskìda annusò meglio, sorpresa che la bestia non le avesse ancora soffiato contro e graffiato il muso. Non mosse le vibrisse, non aprì nemmeno mezzo occhio. Non dormiva il normale riposo vigile dei felini; sembrava immerso in un innaturale sonno profondo.

    Si avvicinò furtiva, lo scosse. Niente.

    Si girò in cerca di Ino, e il fiato le mancò. Nell’erba tutt’attorno stavano gatti, volpi, arieti, cervi, civette, falchi, aironi, bestie di terra, d’aria e acqua, tutti addormentati allo stesso modo. Era come se gli animali di Nurak si fossero ritrovati là, alle pendici del grande fuoco sulla scogliera, e si fossero poi assopiti nel medesimo istante.

    Sgranò gli occhi. Cosa sta succedendo?

    Continuò a strisciare tra l’erba, la cantilena sempre più forte. Quando tornò a guardare, fu abbastanza vicina da scorgere delle ombre stagliate sul cielo stellato danzare attorno alle fiamme.

    Ino! – nessuna risposta.

    Ino! Dove sei? – nulla.

    Si fece forza. Mosse il primo passo ma inciampò ancora in avanti. Si girò, e trasalì. Una radice le attanagliava la zampa, spuntata dal suolo come dal nulla, guizzante come un serpente.

    Scalciò con forza e la radice si ritirò dentro il terreno. Che cosa succede...?

    Fece un passo e si bloccò. Un’altra radice sibilò e le schizzò contro.

    Ino! – urlò. Ruzzolò di lato. Quando si sollevò, la radura attorno al promontorio sulla scogliera era un intrico di radici che brulicavano aggrovigliate agli animali addormentati e inermi. D’un tratto un coro di risate gutturali lacerò la notte, e dal fuoco il fumo si alzò nero sino a oscurare le stelle.

    Un istante dopo si ritrovò con il muso a terra.

    Un’altra radice le si attorcigliò intorno – Inooo! Dove sei! – ancora un’altra, e un’altra.

    Qualcosa le strinse il collo, qualcos’altro il torace.

    Ansimò in cerca d’aria – INOOO! – Fu solo un fiato. Guardò il cielo, poi anche quello sparì, inghiottito da un impenetrabile muro di rovi.

    II

    Iskìda si svegliò di soprassalto, la mano alla gola, la bocca spalancata in cerca d’aria.

    "La mano, non la zampa. Di nuovo quel maledetto sogno."

    Si guardò attorno, ansimante. Ino se ne stava sdraiato al caldo sole d’estate. Il grosso cane nero sbadigliò e la fissò con quello sguardo corrucciato che le rivolgeva ogni volta che sembrava non capisse i suoi comportamenti. In sogno era più facile. Nei sogni il corpo astrale di ognuno era lo stesso dell’Animale Guida del proprio Clan. Era più semplice comunicare con Ino quando anche lei era un cane. Ora si sarebbe dovuta arrangiare con i cenni e gli sguardi della lingua dei canidi.

    Tu-strana – disse il molosso arricciando seccato il muso dai baffi grigi.

    Iskìda ripensò al sogno, al puzzo nell’aria, all’orrore. Fu ­troppo.

    Niente... – rispose muovendo veloce la testa di lato.

    Ino rimise il muso sulle zampe davanti e riprese a sonnecchiare.

    Ino era un Molosso di Lùn, discendeva direttamente dai leggendari Nèfili Lupo, i padri della specie. Per quanto Iskìda potesse tornare indietro con i ricordi, era sempre stato accanto a lei, così come ora, nelle grandi praterie delle Terre Basse, degli Altipiani di Jàr.

    La ragazzina allungò una mano e gli scompigliò la grigia cresta sul collo. Quello brontolò.

    Stette ferma a respirare a pieni polmoni e a sgranchire le braccia ora libere. Era la seconda volta in un ciclo di luna che aveva lo stesso incubo, ed era successo anche prima di questa Luna del Gheppio. Quel fuoco, quel promontorio sul mare, gli animali addormentati, in quel luogo c’era già stata; l’aveva già visitato, in sogno. Più continuava a sognarlo più se ne ricordava. Non era successo spesso, però era già successo, di questo era certa.

    Pensò che avrebbe potuto dirlo a Lianda. La strega del Clan del Cavallo avrebbe saputo spiegarle di cosa potesse trattarsi; avrebbe potuto tesserle un Amuleto del Sonno per proteggerla.

    Afferrò il bastone e si alzò. Il levigato legno di sambuco era divenuto rovente al sole. Anche i suoi occhi si lamentarono dell’astro. Dannati Altipiani di Jàr, senza un albero come si deve per giorni e giorni di cammino... Iskìda sospirò. Le mancavano le sue foreste, le enormi querce, gli aceri e i castagni, l’ombra delle loro fronde, quella delle grotte dai massi levigati delle sue montagne.

    Le mancava Lùn, le mancava casa.

    In lontananza il villaggio di Nusae era ammantato dalla foschia del torrido mezzogiorno. Il nurak svettava sino alle nuvole e ai suoi piedi si concentravano torri e capanne, una cittadella di pietre e massi accostati le une agli altri secondo l’antica maestria dei costruttori, con tetti di frasche di ginepro e drappi di cuoio. Qua e là tra le case spuntavano enormi alberi di fico e all’ombra, tra le radici, si ammassavano i raccoglitori con le ceste di vimini e le canne a pinza. Erano i fichi migliori, quelli della seconda maturazione. C’era di buono almeno questo, a Jàr.

    Al pensiero dei succosi frutti dolciosi sentì la pancia brontolare.

    – Be’, cagnaccio, abbiamo dormito abbastanza oggi. Che ne dici di uno spuntino?

    Guardò Ino in attesa della solita smorfia di quando gli ­parlava nella lingua degli Uomini, quella però non arrivò. Il Molosso stava con la testa diritta, il muso corrucciato, le orecchie tese.

    Che cosa c’è?

    Iskìda non fece in tempo a finire il cenno della domanda che qualcosa di duro, di duro come un sasso, le colpì la nuca.

    – AHIA!

    Si girò furiosa. A una cinquantina di passi stava una dozzina di ragazzini: brache di lino, petto nudo al sole, sorrisetti strafottenti e molti altri sassi nelle mani.

    – Cosa c’è, ragazzina-cane, non li sai afferrare al volo con la bocca? Il mio cane fa così quando gli lancio gli avanzi!

    La banda di ragazzini scoppiò a ridere. Iskìda pensò che con la crocchia in testa e la treccia a imitare i guerrieri adulti del Clan del Cavallo fossero tutti spassosamente ridicoli.

    – Ahah... molto divertente, puledrini, forse perché il tuo cane è un pulcioso di pianura. Da noi a Lùn i cani mangiano ben altro. Ora vengo lì e ti stacco un orecchio, e vediamo se Ino prende quello, al volo.

    Il Molosso sembrò aver aspettato quel momento per scattare in piedi. Si abbassò sulle zampe davanti, digrignò i denti e tra le fauci serrate lanciò un ringhio gutturale. Iskìda non trattenne un sorrisino, sapeva bene che il suo compagno ritto sulle zampe le arrivava sin oltre la cintola.

    I ragazzini indietreggiarono.

    – Di’ a quel demonio di non fare un passo o vi riempiamo di pietre!

    Alzarono tutti le mani, rivelando sassi di ogni forma che qualcuno si mise a far saltellare tra i palmi con ghigno beffardo.

    Iskìda fece una smorfia. Le pietre erano poca cosa. Se Ino fosse scattato i ragazzini avrebbero scagliato nel panico e, evitati i primi tiri maldestri, il Molosso gli sarebbe stato addosso come una furia. L’ultima volta che Ino si era messo a disperdere i rampolli di Jàr, uno di quelli, preso dal terrore, si era arrampicato su un fico così di fretta che era piombato giù dall’altra parte, rompendosi un braccio. Lianda l’aveva minacciata dicendo che se fosse successo di nuovo avrebbe legato Ino a un palo.

    Fermo – gli bisbigliò. Prese un respiro profondo e guardò gli aggressori dritti in faccia.

    – Paura, eh? O forse dovrei dire invidia.

    Sogghignò. I figli del Clan del Cane avevano un compagno a quattro zampe sin dalla nascita. Per quelli del Clan del Cavallo era diverso: domare il proprio cavallo selvaggio faceva parte del Rito del Clan, il passaggio all’età adulta, e sarebbero dovute passare ancora parecchie lune prima che uno di quei monelli potesse permettersi un animale proprio.

    Iskìda montò in viso uno sguardo sbarazzino, fece roteare il bastone e si acquattò in posizione d’attacco: il braccio teso di fronte e il palmo aperto e sollevato con le dita serrate.

    – Be’? Che vi prende? Il Cane vi ha mangiato la lingua?

    I ragazzini rimasero fermi come fichi caduti dall’albero. Poi la rabbia salì nei loro volti così veloce che se fosse stato possibile le orecchie avrebbero iniziato a fumare come un pentolone sul fuoco. Il condottiero della banda strinse i pugni e sputò fuori quella parola più veloce e dura di qualsiasi pietra.

    BRUJA!

    Il sorriso di Iskìda si rattrappì in volto.

    – NON È VERO! – gridò. Il ringhiare di Ino crebbe in ferocia. – Ritira quello che hai detto! SUBITO!

    – INVECE È VERO! Sei una B-R-U-J-A, una maga nera! Per questo Lianda ti tiene nella sua capanna, devi essere custodita. Guardati poi, con quel talismano al collo, quei tatuaggi sulla faccia, e quel bastone! BRUJA!

    – BRUJA! BRUJA! – inveirono in coro.

    Iskìda strinse i pugni sul bastone. Non era vero! Erano tutte bugie! Il poco di magia che sapeva era magia di Akasha, magia dello Spirito Creatore. Era Magia Bianca. La rabbia le attanagliò il respiro. "Maledetti Cavalli, maledetta Jàr, maledette Terre Basse, maledetta Nurak!"

    Arrivò in un lampo, una folata di vento le agitò le trecce sul viso e l’erba alta della prateria si piegò come un’onda. Non c’era acqua attorno, il suo Elemento; c’era però sempre l’aria...

    Inspirò a fondo, ricordò le parole, assaporò il Brebus tra le labbra e... una voce la sorprese dal profondo dei suoi ricordi.

    "Iskìda, ragazzina testarda, non è l’Elemento a rendere la Magia Bianca o Nera: è l’intenzione di colui che ne fa uso..." Il volto di Radu, lo stregone del suo Branco, ciò che di più simile aveva a un padre, le si parò di fronte agli occhi in quella sera d’estate in cui al villaggio le aveva per la prima volta insegnato ad ascoltare il respiro di Akasha, il primo passo per percorrere la via della magia; la via dei Brebus.

    La mano di Iskìda si rilassò sul bastone e... i ragazzini ­caricarono.

    ACCIUFFIAMOLA! – si lanciarono di corsa per il pendio urlando e lanciando pietre.

    Ino scartò di lato.

    Fuga!

    Un momento dopo Iskìda correva a gambe levate verso il villaggio.

    III

    I piedi nudi frusciavano veloci sul terreno. Iskìda correva bassa, la mano tesa a sfiorare l’erba, in un fitto zigzag con Ino al fianco per evitare la sassaiola.

    Avevano saltato muretti, schivato cavalli al pascolo e irascibili raccoglitori di fichi, ma gli inseguitori non avevano perso un passo. Quando entrarono al villaggio, fu come se una mandria impazzita si fosse riversata tra le capanne.

    Iskìda dovette rotolare sotto una giumenta che ostruiva il sentiero e, quando si rimise in piedi dall’altra parte, urtò una donna che finì a gambe all’aria insieme al suo cesto di more.

    – RAGAZZINA! SE TI PRENDO... – la donna non fece in tempo a finire che Ino la sorpassò in salto, seguito a ruota da dodici ragazzini.

    Imprecazioni e risate proruppero tra le vie e Iskìda si girò con un ghigno birichino.

    Il bivio arrivò subito dopo. Fu Ino a salvarla dal finire con il muso contro una capanna.

    Tu-là! – il molosso le diede una spinta e schivò dall’altra parte.

    Metà dei monelli esultò selvaggia e virò a destra per rincorrerlo. L’altra metà continuò invece alle sue calcagna.

    "Non li mangiare!" – avrebbe voluto gridare Iskìda, ma ormai non ci poteva far niente.

    Continuò a correre.

    Iniziava a sentirsi stanca, ma sarebbe morta piuttosto che farsi raggiungere dai puledrini di Jàr.

    PRENDIAMOLA! – urlarono ancora; lei digrignò i denti e accelerò.

    Il cuore era sul punto di scoppiarle quando un pony dal manto ocra le si affiancò al trotto.

    – ISKI!

    – SISINÉ!

    Iskìda sentì nuova forza pulsarle nelle gambe. Sisiné era l’unico umano sopportabile che aveva trovato a Jàr, anzi, era proprio l’unica cosa che si salvava di tutta Jàr; lei e i fichi. Aveva la stessa età sua e dei ragazzini ma era stata scelta dalle Amazzoni sin da piccola, per questo poteva cavalcare, e sembrava avesse il dono di arrivare sempre quando ce n’era bisogno.

    La ragazzina cicciottella, arco a tracolla, le rivolse un sorriso complice.

    – Al nurak! Pronta? ORA!

    Diede di redini e si mise di traverso sul sentiero. Il pony impennò e Sisiné lo tenne fermo dov’era. Iskìda s’infilò di lato tra due capanne e corse via con le ultime energie verso l’enorme sagoma del nurak.

    L’inveire dei ragazzini e i nitriti del pony sparirono presto dietro di lei.

    Ringraziò l’amica tra sé. Si meravigliò di non aver pensato prima a rifugiarsi nel nurak. Là non avrebbero potuto seguirla. Per una volta fu grata di essere Figlia di Clan, sotto la protezione di capi e affidata a una strega.

    Le strade si fecero pian piano deserte e Iskìda rallentò.

    Quello di Nusae era un nurak a quattro braccia: così venivano chiamati i torrioni laterali delle enormi costruzioni. Quando arrivò alla cinta muraria, sotto la grande ombra si sentì piccina. Alzò lo sguardo. Nella sua Lùn, nel villaggio delle Zanne Luna, il nurak aveva solo tre braccia. Questo era più grande in tutto, e la torre centrale svettava alta nel cielo, masso su masso ricoperta di rami di vite. Era un nurak Antico, così le aveva detto Lianda; costruito da Nùr in persona, il primo Gigante, perché il Popolo degli Uomini avesse una casa dove poter pregare gli Dèi e lo Spirito Creatore. Per questo la Terra di Nurak si chiamava così, per ringraziare.

    Iskìda si avvicinò e poggiò la mano sugli scuri massi di basalto. Lei un Gigante non l’aveva mai visto, ed era un peccato, pensò, perché erano tutti scomparsi. Non aveva però mai dubitato che fossero esistiti, perché nessuno, niente su Nurak, neanche un Nèfile, avrebbe potuto sollevare e impilare l’uno sull’altro dei massi così grossi con tanta maestria.

    Un rumore di passi alle sue spalle la fece tornare alla realtà e si ricordò della fuga. Si infilò il bastone tra l’anello alla cintura e la tracolla del sacco, spiccò un salto e si aggrappò alla vite. Si arrampicò agile sul muro sino alla sommità. Attese un momento per vedere che non ci fossero guerrieri di guardia e si calò dall’altra parte.

    I ragazzini del villaggio dentro il nurak non potevano entrare, lei sì; questo però non l’autorizzava a scorrazzarci come se fosse la capanna di Lianda.

    Così, con il labbro tra i denti, attraversò furtiva il cortile interno e si infilò dentro i corridoi della torre. La pietra era fredda sotto i piedi e l’aria sapeva di muschio. Trottò ancora per una dozzina di passi nel cunicolo scuro e si sedette spalle al muro, a riprendere fiato.

    Per oggi non l’avrebbero più seccata. Sospirò.

    Fu allora che sentì delle voci.

    IV

    – Sarebbe la più grande assemblea dai Giorni della Caduta...

    Iskìda si sforzò di trattenere il fiato. La voce sembrò pensierosa. Era voce di uomo, la voce di Eron, il capoclan.

    – Tutti i Clan riuniti, Terre Basse quanto Terre Montane. I capi pastori di Lò hanno mandato dispacci sino al Massiccio di Gòr, ad Ahi, da Boscoalto sino alle Valli di Lùn. Questo ci dà da pensare... forse abbiamo ignorato troppo a lungo...

    Al sentir nominare la sua terra natia Iskìda sussultò. Pensò però che se si trattava di una riunione importante, stava rischiando grosso. Se l’avessero scovata l’avrebbero punita.

    Rimase indecisa con in testa l’immagine di lei legata a un palo insieme a Ino, per tre giorni e senza acqua e, nonostante l’idea di tornare a tiro dei ragazzini non le piacesse per niente, mosse un passo verso l’uscita. Fu un’altra voce a farla voltare.

    – Pensare infatti dobbiamo, Eron. Se è vero che i Mercanti dalle Vele Gialle si son fatti vedere a terra sin nella Catena di Bàr, come tanto sbraita il Clan del Cinghiale, la situazione sta precipitando.

    Era stata Lianda, la sua tutrice, a parlare. Iskìda non si trattenne. Camminò gattoni per il cunicolo in direzione delle voci e giunse a un’apertura di lato.

    Si fermò spalle al muro. Prese coraggio e sbirciò.

    Era la sala grande. La luce della mattina filtrava a fasci dalle feritoie tra le mura e sulla parete dominava una statua, un busto ligneo e impennato di un cavallo selvaggio. Il pavimento era rosso scuro. Non si sapeva bene perché tutti i nurak Antichi avessero il pavimento rosso. Si ricordò che tra le tante leggende una diceva che la terra si fosse tinta per il sangue versato nella Guerra dei Clan, quando i nurak erano stati usati non più come templi, ma come fortezze. Assorta la toccò con la mano e il terriccio rosso le rimase sulle dita. Rabbrividì e lo sfregò via contro la coscia.

    Si sporse un po’ di più. Il capoclan stava seduto su uno scranno di curvi rami di salice, al centro della sala; la barba corta e curata, i lunghi capelli neri raccolti nell’acconciatura dei guerrieri. Accanto sedeva quella che Iskìda riconobbe come Lienna, la sua consorte. Lianda stava in piedi a qualche passo di distanza. Fissava immobile i sovrani. Portava abiti di lino color edera, il bastone e il largo cappello a punta di vimini che indossava per i rituali. Là vicino, scostata di poco, si trovava poi una figura che Iskìda non aveva mai visto prima ma che riconobbe dalle storie che circolavano sul suo conto. Era una donna matura di molte lune, con il fisico asciutto, muscoloso e brunito dal sole. Una lunga treccia di capelli bianchi le pendeva sino alla fusciacca in vita e aveva un arco a tracolla. Occhi vigili, in volto un’espressione fiera. Era Talestri, la Matriarca delle Amazzoni di Jàr.

    – Mercanti dalle Vele Gialle? – proruppe Eron. – È così che ora li chiamiamo? E da dove verrebbero questi mercanti? Non c’è niente oltre il Nulla Salato, Lianda; solo il regno delle stelle e il Vuoto. Demoni, Demoni-dal-Nulla, questo sono.

    Lianda non si scompose: – Eron, non parlarmi come se fossi una nata-da-poco. Sono la Strega del tuo Clan, e quando io verrò a dirti come comandare allora tu forse potrai venirmi a insegnare le vie di Akasha. Proprio perché credo nello Spirito Creatore ti dico che niente può venire dal Nulla Salato. Quindi Mercanti li chiamo, perché mercanteggiare è quello che fanno. Questo è il nostro problema, non da dove vengono.

    Iskìda non trattenne un tremito. Allora le voci che si sentivano in giro erano vere, quelle dei Demoni Gialli venuti dal mare. Si ricordò di quando per la prima volta ne aveva sentito parlare, durante una conversazione bisbigliata tra i cacciatori che da Lùn l’avevano scortata a Jàr.

    – Vorrei che avessi ragione, Lianda. Forse però nei Giorni della Caduta, quella notte, è successo qualcosa che non siamo in grado di comprendere... qualcosa che è serpeggiato invisibile agli occhi e ora viene a braccarci... – il capoclan sembrò perdersi a lungo nei ricordi. – Tutta colpa di Sàa! – esclamò. – Se il Clan dell’Oro Rosso avesse incendiato le loro navi appena apparse all’orizzonte, ora non avremmo di che angustiarci. Sàrgan ha fatto un errore ad accoglierli.

    – Eron… – fu Lienna a parlare. Portava una lunga veste di lino e i neri capelli come le donne del Clan, due lunghe trecce a destra e due a sinistra del volto che era preoccupato, ma calmo. – Sarebbe nostro l’errore se rimuginassimo su cose che non possiamo conoscere, e ancor più su cose che non possiamo cambiare. Se poi Sàrgan li avesse scacciati, a quest’ora il suo Clan non si chiamerebbe Oro Rosso, ma ancora Clan delle Pianure. Lianda ha ragione. Mercanti o Demoni, quel metallo giallo che portano, quell’Auro, sta facendo impazzire le persone. A Sàa ormai una manciata di pezzi viene valutata quanto un cavallo! Talestri, al limitare di Nuur, ha visto le tribù più vicine alla pianura dare via due tori per un singolo medaglione.

    L’Amazzone annuì greve.

    – Questa è pazzia! – continuò Lienna. – Gli arerà forse i campi? Come se non bastasse, ora anche lo zafferano è valutato come l’Auro, perché l’oro rosso è l’unica cosa che questi Mercanti vogliono in cambio da Sàa. Una luna fa, le nostre donne hanno dovuto barattare tre interi rotoli di pelli per una sola zucchetta di spezia!

    Iskìda annuì tra sé. Ricordava quando le conciatrici avevano passato giorni interi a lamentarsi di un baratto andato male. Ora si sentì in colpa per averle chiamate giumente-lamentose.

    – Lo so... ed è proprio per questo che il Clan dell’Ariete ha indetto la Grande Assemblea... – disse Eron. – L’Auro sembra aver contagiato anche le Terre dei Fiumi, e a Lò le tribù più vicine a quelle hanno iniziato a dare via ai Mangia Rane di Flù pecore e montoni, e a combattere tra loro per il ricavato.

    – E il Clan del Cervo? – fu Lianda a parlare. – Non posso credere che Kèrnunos e la sua gente stiano soccombendo a questa sciocchezza.

    Eron la guardò più serio che mai: – La Foresta di Arkos è stata tagliata fuori, Lianda.

    La strega si accigliò. – Cosa vorrebbe mai dire?

    – Vuol dire che Sàrgan ha aperto una breccia tra la Foresta e Boscoalto. Si è insinuato a Sìr e ha fondato un

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