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Camminatrice di Sogni: Iskìda della Terra di Nurak - Seconda Stagione
Camminatrice di Sogni: Iskìda della Terra di Nurak - Seconda Stagione
Camminatrice di Sogni: Iskìda della Terra di Nurak - Seconda Stagione
Ebook437 pages5 hours

Camminatrice di Sogni: Iskìda della Terra di Nurak - Seconda Stagione

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About this ebook

«- Donnola, un Errante non è un sognatore come gli altri. - Uaela fece un passo avanti, il labbro increspato appena sotto la maschera. - Una Camminatrice di Sogni potrebbe essere qui, ora; potremmo sussistere in una sua visione, una realtà preparata da lei per noi sognatori incauti; potrei ritrovarmi a parlare con la sua voce, ora, e tu staresti ascoltando lei; potrebbe essere il fuoco che ci balugina davanti, gli alberi da cui ti credi protetta, e potremmo lasciare questo luogo senza avere la minima idea della sua presenza. Hai tu questo potere, Namèle? [...]
- È soltanto una ragazzina - disse Elifas. Abbassò il bastone e spense il fuoco.»
LanguageItaliano
PublisherCondaghes
Release dateJan 30, 2014
ISBN9788873568247
Camminatrice di Sogni: Iskìda della Terra di Nurak - Seconda Stagione

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    Camminatrice di Sogni - Andrea Atzori

    a Cormac, Iano, Taoke,

    Jorael, Azzurra, Shredder,

    Bansaku e Federico

    Andrea Atzori

    Iskìda della Terra di Nurak

    Seconda Stagione

    Camminatrice di Sogni

    illustrazioni di Dany & Dany

    www.terradinurak.net

    ISBN 978-88-7356-824-7

    Condaghes

    Indice

    Libro Primo - Prove

    Capitolo I

    Capitolo II

    Capitolo III

    Capitolo IV

    Capitolo V

    Capitolo VI

    Capitolo VII

    Capitolo VIII

    Capitolo IX

    Capitolo X

    Capitolo XI

    Capitolo XII

    Capitolo XIII

    Capitolo XIV

    Capitolo XV

    Capitolo XVI

    Capitolo XVII

    Capitolo XVIII

    Capitolo XIX

    Capitolo XX

    Capitolo XXI

    Capitolo XXII

    Libro Secondo - Lùn

    Capitolo I

    Capitolo II

    Capitolo III

    Capitolo IV

    Capitolo V

    Capitolo VI

    Capitolo VII

    Capitolo VIII

    Capitolo IX

    Capitolo X

    Capitolo XI

    Capitolo XII

    Capitolo XIII

    Capitolo XIV

    Capitolo XV

    Capitolo XVI

    Capitolo XVII

    Capitolo XVIII

    Capitolo XIX

    Capitolo XX

    Capitolo XXI

    Capitolo XXII

    Libro Terzo - Gojana

    Capitolo I

    Capitolo II

    Capitolo III

    Capitolo IV

    Capitolo V

    Capitolo VI

    Capitolo VII

    Capitolo VIII

    Capitolo IX

    Capitolo X

    Capitolo XI

    Capitolo XII

    Capitolo XIII

    Capitolo XIV

    Capitolo XV

    Capitolo XVI

    Capitolo XVII

    Capitolo XVIII

    Capitolo XIX

    Capitolo XX

    Capitolo XXI

    I Personaggi

    Mappa della Terra di Nurak

    L'Autore

    Ringraziamenti

    La collana Kìndhalos

    Colophon

    Libro I

    Prove

    I

    La lepre saltò fuori dal cespuglio di asparagina e rimase immobile. Annusò, facendo scattare gli occhietti, arricciando il muso.

    Pancia a terra, Jaku trattenne il respiro col timore che il battito del cuore facesse troppo rumore. La foschia mattutina ammantava di grigio il sottobosco e l’aria era umida e pungente.

    La guancia destra premuta contro il muschio pizzicava e la mano sinistra, con cui reggeva il laccio, aveva perso sensibilità.

    Se anziché fare la talpa fossi salito sull’albero, non mi sarei addormentato né congelato. Si era imbattuto nella traccia la sera prima. Da un cespuglio di cisto cresciuto nella crepa di un masso questa scendeva per cinquanta passi a valle verso il rivolo di una sorgente. Stanco, aveva pensato di aspettare il nuovo sole, ma la fame aveva iniziato a farsi sentire. Tre trappole erano già andate a vuoto e non aveva incontrato una preda da giavellotto nell’arco di una luna intera.

    Ripercorsa la traccia e trovato un arbusto flessuoso, aveva legato il laccio di tendine, piegato il legno e fissato tutto al piolo nel terreno, poggiando in vista una radice rinsecchita di carota selvatica. Al luccichio delle prime stelle della Civetta, si era appostato in attesa calandosi il berretto e coprendosi con il manto di lana.

    Resisti, sei un Battipista del Muflone, potresti sopravvivere da solo nelle Terre Montane per anni. Cercò di aggrapparsi a quel pensiero, ma lo sentì vacillare sotto il peso del freddo, della fame, della verità. Sei un Mancino, Jaku, non sarai mai Pugilatore perché gli Dèi hanno voluto che usassi il braccio sinistro meglio del destro; invece sei Battipista, e i Battipista Mancini non diventeranno mai Primi Cacciatori, mai Guerrieri, mai Capi, mai Uomini...

    Strinse il laccio, le unghie contro la pelle. A Noddke non avevano una mansione per te e ti hanno gettato Figlio di Clan dai Cinghiali, come se loro ne avessero una; e i Cinghiali ti hanno mandato a morire di fame da solo nelle Terre Brulle, per provare il tuo valore e liberarsene al più presto.

    La lepre fece due balzi in avanti, annusò il terreno e si rimise ritta. Jaku deglutì, stringendosi il labbro tra i denti e maledicendosi. Quella lepre era la sua vita, ora, l’aveva aspettata tutta la notte e non l’avrebbe persa per colpa dei pensieri.

    Avanti, bella, ancora due salti. Dai, bellissima...

    Se fosse stato ancora al villaggio del Muflone, avrebbe cacciato in gruppo, pensò. Avrebbe trovato le tane, e non solo di lepri, ma di volpi, faine e cinghiali. Da soli invece, per le prede piccole, o si aveva un arco o era meglio cuocere i lacci come si deve e saper fare i nodi giusti. L’arco però era un’arma disonorevole. "È roba da Terre Basse, da donnicciole a cavallo, che ti colpiscono alle spalle da trecento passi senza avere il coraggio di guardare negli occhi la vita che stanno prendendo!"

    Ripeté la frase con tutte le cento voci che gliel’avevano da sempre recitata come uno scongiuro. Invece, roba da Catena di Bàr è mandare un ragazzo a perdersi per le Terre Brulle nella Stagione delle Nebbie soltanto perché porti indietro i sassi rossi di una spiaggia e si faccia una bisaccia di volpe!

    Jaku ripensò alla boria di Gramau, il Capo del Cinghiale, all’ottusa spavalderia dei Pugilatori crestuti, alla loro orribile vecchia fattucchiera, e quasi ringraziò di essere solo e in fin di vita piuttosto che al villaggio di Sirb, stazzo lezzoso di porci selvaggi. Forse, se non fosse crollato prima, giunto al mare avrebbe potuto pescare. Dicevano che il Nulla Salato fosse come un lago di montagna, ma senza confini; che dentro ci nuotassero pesci mostruosi e grassi e che, nonostante l’acqua imbevibile, i Clan di costa li arrostissero e affumicassero. Veleno! Bel Battipista di Bàr che sei, Jaku, che pensi ai mostri del mare anziché alle prede di tana!

    La lepre saltò, dritta dentro il laccio.

    Il velo dei pensieri fu come nebbia troppo lenta a dissiparsi, la mano intorpidita un moncherino inservibile, e Jaku tirò. Il piolo si scostò e l’arbusto schizzò in cielo insieme al laccio, vuoto.

    La lepre volò via nel sottobosco. Jaku afferrò la borsa e la faretra e si ritrovò a correre, correre e correre, ignorando i crampi e gli arti intirizziti e urlando come un ossesso. – Torna qui! Maledetta!

    La lepre s’infilava tra i cespugli, balzava a destra e sinistra. Jaku la seguiva e più quella correva più lui urlava, contro se stesso, contro la fame, contro Nurak. Si frugò nella cinta, prese dal sacchetto un sasso per la frombola e glielo tirò addosso. La lepre scartò veloce di lato e si precipitò in discesa tra le radici dissotterrate di un leccio. Jaku fece perno con la mano e le saltò a piè pari, scaraventandosi all’inseguimento.

    La lepre correva a zig-zag e Jaku le teneva testa balzando tra massi e alberi con la forza della rabbia. Quando si rese conto della pendenza del declivio, i suoi piedi erano già aggrovigliati l’uno sull’altro.

    Cadde, rotolò, si cinse la nuca con le mani e rotolò ancora, cercando di divaricare le gambe per rallentare l’impeto. Quando si fermò, saltò in piedi, si pulì il sangue dal naso col dorso della mano e, girandosi, urlò con tutto se stesso.

    Di fronte, il monte cadeva a picco in una scarpata.

    Il pensiero di non essere precipitato nel vuoto però non lo sfiorò nemmeno, né quello della lepre, libera e perduta: di fronte stava ciò che fino ad allora aveva immaginato soltanto nei sogni... l’immensità blu del Nulla Salato. Tra un dedalo d’insenature e isole rocciose navigavano zattere, canoe e una barca, slanciata, con le vele gonfie dal vento; vele gialle.

    II

    Il buio tremava, come se il tessuto di Akasha si stesse sfaldando. Sulla sommità dello ziggurat un’ombra si scostò dal fuoco, camminò sino all’orlo dei gradoni coperti di radici e contemplò l’orizzonte di stelle fisse, alberi morti e terra desolata.

    – Il Tempio di Ak... un faro sul nulla. Non avresti potuto scegliere luogo più esposto, Elifas.

    La donna ripiegò una ciocca di capelli bianchi dietro l’orecchio e il silenzio fu rotto dal tintinnare dei bracciali d’osso sui suoi stracci neri.

    – Namèle cara, un faro sulle tenebre del Vuoto? Nessuno ci vedrà, a parte i demoni. O hai forse paura di loro?

    Elifas non batté ciglio. In piedi vicino al fuoco, le sue orbite peste fissavano le fiamme dai riflessi bluastri, la mano a carezzare il becco del macilento corvo sulla sua spalla. Namèle rise e la donnola ai suoi piedi saltò sul bastone, arrampicandosi sino a fare capolino dal collo.

    L’uomo acquattato dall’altra parte del fuoco disegnava sulla terra con un pugnale di selce. Aveva il cranio pelato coperto da tatuaggi a lingua di serpente gialli e viola, che gli arrivavano sin sul viso liscio, il torace e le braccia. – Questo è il luogo di convergenza onirica più sicuro di tutta Nurak. Qua sopra, ad Ak, ora ci sono soltanto io, e nessuno del mio Clan oserebbe avvicinarsi. Siete nelle mie mani.

    L’uomo guardò Namèle in tralice, protese la mano sulle fiamme blu e la tenne tesa. Lei si lasciò cadere seduta e ridacchiò: – Schlanga, non è della Biscia che non mi fido, sei sempre stato il mio preferito, lo sai. È di un Errante però che abbiamo scatenato l’ira, bisogna stare attenti. A quanto mi dicono, la ragazzina-cane morde. A proposito, dov’è quell’imbecille di Moso?

    – Al tuo servisssio.

    Le tenebre tremolarono e dal nulla apparve un sorriso arricciato, seguito dal corpo flaccido di un rospo grande come un agnello. Namèle scoppiò a ridere. Schlanga sibilò di disgusto.

    – Sei ripugnante, oltre che incapace – disse un’altra voce.

    Una donna dalle vesti logore e i capelli crespi fece un passo alla luce, occhi rossi e fronte tatuata di macchie, la sua ombra ondeggiante in otto zampe di ragno. Un menhir nero prese forma umana accanto a lei e, per ultima, dal buio una stria planò e toccò terra sotto forma di donna con una maschera a becco e un copricapo di piume grigie.

    Il rospo si passò la lingua sulle labbra e fece scattare la membrana sugli occhi gialli. – Che gioia, ci siamo tutti! Arza, perdonami. Sai che gli Ammutatori fiutano le ferite, se un Molosso di Lùn ti avesse quasi staccato una mano a morsi, anche tu saresti prudente nell’usare il tuo vero Corpo Astrale. Riguardo a darmi dell’incapace...

    Elifas alzò gli occhi dalle fiamme e fissò il gruppo sino a quando anche il fruscio delle vesti fu spento. – Cominciamo.

    Fece un cenno distratto con la mano unghiata e gli alberi morti attorno allo ziggurat crebbero e si curvarono sulla sommità. Schlanga scoccò allo stregone un’occhiata torva, Namèle gli fece un sorrisetto. Elifas protese le mani al fuoco e iniziò a ruotarle. Le fiamme seguirono il movimento, avvamparono rosse e un grumo di fuoco si separò ed esplose, proiettando un cerchio di simboli ardenti che si stagliarono sospesi nel buio: simboli di animali.

    Il Magi incrociò le braccia sul petto. – Moso, parla.

    Senza smettere di sorridere, il rospo si leccò un occhio. – Sono scappati, lo sapete già. Cos’altro volete da me?

    – Il perché li hai fatti scappare, stolto! – L’uomo ammantato di nero si levò il cappuccio e puntò a terra il bastone. L’ossidiana sulla sommità non rifletté le fiamme.

    – E tu perché hai fatto scappare il bamboccio di Sàrgan quando ce l’avevi nel sacco ad Ar? Eh, Eraki?

    – Perché non sapevo chi fosse... – La voce fu un sibilo. Eraki affilò gli occhi e fissò Elifas con un tremolio al labbro. – Perché nessuno si è preso il disturbo di avvisarci della sua fuga da Sàa!

    Elifas sostenne il suo sguardo. – Non volevo angustiarvi inutilmente. I miei Mercenari l’avrebbero potuto recuperare presto, così come, a quanto pare, hanno fatto con la sorella Alise. E comunque, Karel è sfuggito a loro, ma perché anche a te, Moso?

    – Perché il cane demonio della ragazzina di Lùn mi ha quasi sbranato vivo, ecco perché! Avrei voluto vedere te al mio posto. – Le pupille verticali del rospo si serrarono. – Quando l’ho messo fuori combattimento e sono uscito dalla capanna, l’Assemblea era già un’arena e Arieti e Cinghiali a un tiro di fionda di distanza pronti a catturare i ragazzini. Avevo perso troppo sangue, pur riuscendo a tramortirli non sarei stato in grado di trasportarli via. Li ho lasciati a loro, così ansiosi di metterci le mani sopra per avere la loro guerra. Tanto meglio per noi, il tradimento del Toro era comunque già stato consumato...

    Elifas annuì, Arza sogghignò.

    Eraki li guardò torvo. – Di cosa state parlando?

    – Ma come, non lo sai? – Namèle rise, il rospo increspò il labbro: – Eraki, sono addolorato nel dirti che il Clan del Toro è caduto di nuovo. Alla Grande Assemblea, mentre i Capi parlavano, gli emissari dei Signori di Nuur si sono introdotti nelle capanne e hanno ucciso guardie, accompagnatori, figli e anche una strega. Lianda di Jàr, sgozzata, poverina. Hanno trovato un pugnale d’Auro con la foggia del Toro sul luogo della crudeltà.

    La mascella di Eraki iniziò a tremare, la mano si strinse al bastone e la sua figura fu avvolta da fiamme nere. – Tu... Voi... Lianda doveva essere mia, era il mio compenso... Come avete...

    – Ti ho detto come: con un pugnale!

    Namèle scoppiò a ridere. – Eraki, non credo che Moso si sia preoccupato di tracciarle il Segno Funebre, la sua anima a quest’ora sarà già un demone. Verrà a cercare il tuo amore, non temere. – La Bruja mimò tre baci e l’aura di Eraki, più nera del buio, crebbe verso il cielo. Schlanga si alzò, spazientito guardò le stelle e con un gesto le coprì con una coltre di nubi. Elifas puntò l’indice al cerchio di simboli e si mise a farli ruotare.

    – Eraki, controllati. Era necessario. Ora nulla fermerà più Nurak dall’incolpare per ogni cosa il nemico di sempre... Non avrei mai creduto che la fuga del piccolo Karel potesse giocare a nostro favore. Arieti, Cinghiali e tutti gli altri credano pure a quanto lui e la ragazzina-cane hanno detto: Kinganna sta tornando... colpevole di aver corrotto Sàrgan di Sàa e tutto il Clan dell’Oro Rosso, di averli convinti ad accogliere i Mercanti dalle Vele Gialle e dell’assassinio delle Jane. Che i Clan riuniti assedino di nuovo la terra del Toro come nei Giorni della Caduta, ci sarà una sorpresa per loro...

    Fiamme nere vorticarono su Eraki.

    – Bene, molto efferato, sfruttare anni di rancore per annebbiare il giudizio dei Clan. Alla fine di tutto però, in nome di Akasha, pagherete...

    In nome di Akasha? – Elifas si voltò piano, il corvo putrefatto inclinò la testa e batté le palpebre. – Quel nome non avrà più potere, Eraki. La legge dell’Equilibrio cesserà, inizierà quella degli Uomini. Le trame della Rete della Vita si sfalderanno e ci sarà libertà sino a esserne satolli e vomitarla. Potrai allora avere indietro quello che pensi ti sia dovuto, ma in nome tuo e tuo soltanto.

    Arza si arricciò i capelli tra le dita adunche. – Elifas, e le altre Jane?

    Il Magi indugiò su Eraki, poi con un gesto fulmineo dissipò i simboli dei Clan e accese nell’aria sette fiammelle verdi. – Sette ne crearono gli Dèi, cinque ne restano, presto nessuna. Un’anima sola in più corpi per spiare il Popolo degli Uomini...

    – Gli Dèi non si fidarono mai di noi... – disse la donna con la maschera a becco spegnendo due fiammelle con un distratto colpo di bastone.

    – Hanno temuto ciò che non potevano controllare. L’Ultimogenito fu il nostro Dio, per questo lo odiarono. Schlanga, Uaela, spero che abbiate approfittato del diversivo dell’Assemblea per prepararvi a braccare le Terre dei Laghi.

    L’uomo serpe e la donna con la maschera annuirono.

    – La Jana Kerku sarà inerme per il dolore; con Norna di Lùn però, nonostante l’aiuto di Namèle per scoraggiare le tribù del Cane, potrebbe essere più difficile.

    La Bruja grattò la donnola sotto il mento. Elifas annuì: – Noialtri a levante ci preoccuperemo di finire Lèula la Lepre, scovare Aùne di Ahi nelle Terre Montane e catturare Ilee di Lìs... Le Stelle convergeranno nella notte più lunga. Il Solstizio del Freddo è soltanto tra sei lune, non dobbiamo esitare...

    Arza tamburellò le unghie sul bastone. – Uccidere le Jane e catturarne le anime nelle bambole sarà fatto. Se però, come Talea, anche le altre non ci rivelassero i nomi?

    Elifas spazzò l’aria con il palmo aperto. – Conoscere i nomi degli Dèi e consegnarli a Lui sarebbe un vantaggio, ma se le Jane si ostinassero a tenerseli, che muoiano con loro.

    Il Magi strinse il pugno e le fiammelle si estinsero. Arza gli scagliò uno sguardo di sfida: – E il Canto delle Stelle, grande Stregone dell’Oro Rosso?

    Uaela sbuffò, Namèle fece un sorrisetto malizioso, Schlanga ed Eraki si guardarono senza battere ciglio e Moso ridacchiò. Elifas resse lo sguardo della Madre del Ragno. – Insinua con più chiarezza, Arza, o taci.

    Arza si aprì in un sorriso malvagio e chinò la testa, bisbigliando. – Sai a cosa alludo... l’Eremita dell’Usignolo. Il Canto delle Stelle potrebbe essere custodito da lui come ultimo del suo Clan. Come la preghiera di Nùr funzionò nel Crepuscolo degli Dèi, potrebbe funzionare di nuovo e mandare in fumo ogni tuo complotto. Oh, perdonami, ogni nostro.

    Elifas sorrise, un’increspatura sul volto smunto sfigurato dalla bruciatura. – Arza, da quand’è che credi alle leggende? La preghiera di Nùr ricordata per tutto questo tempo? E da chi, poi? Da un Clan estinto?

    – Eppure il Ratto non si è estinto. – Eraki sorrise compiaciuto. – È lui che accompagnava i tuoi marmocchi fuggiaschi, lui che me li ha fatti scomparire da sotto il naso. Non volevo crederci, sino a quando, la notte, metà del mio villaggio si è svegliata coperta di roditori...

    – Quel Ratto schifoso è ancora in vita? – gracidò Moso.

    – Vivo quanto lo sei tu, Eremita del Rospo – ghignò Eraki.

    – Non siete altro che dei pavidi stolti! – Elifas puntò il bastone di noce bruciata a terra e il fuoco esplose nel cielo, sollevandogli i capelli come un’onda. – L’Usignolo sopravvissuto alla Guerra dei Clan? Custode del Canto? Fu Nùr che fece il miracolo, non il miagolio che salmodiò! E Nùr è morto.

    La nera chioma di Elifas ricadde pesante e il crepitio del fuoco divenne silenzio.

    – Parla chi per paura ha fatto distruggere tutti i Ligun sulla faccia di Sàa – ghignò Arza. Il sopracciglio di Elifas tremò, ma lo stregone non ribatté.

    – E la ragazzina-cane? – mormorò Uaela. – I giorni prima dell’Assemblea mi è passata davanti senza che neanche sapessi chi fosse... Se è riuscita da sola a intuire cotanto, forse potrebbe essere davvero una Camminatrice di Sogni...

    Moso si agitò sulle zampe verdi e si leccò la bocca. – Uaela ha ragione, l’abbiamo sentita parlare. La ragazzina-cane non sembrava una fattucchiera visionaria, era ferma nelle sue parole. Inoltre... – gli occhi del rospo si assottigliarono – giurerei di averla già vista, tempo fa. Nei Giorni della Caduta, stretto l’assedio a Nuur, poco prima che fosse convocata la Grande Assemblea e i graandi eroi si lanciassero all’inseguimento di Kinganna... Lei, o una goccia d’acqua, una donna di Lùn. Sua madre, forse? Al collo aveva lo stesso medaglione, il medesimo Amuleto del Sonno. Nella capanna di Lianda le ho mentito, le ho detto della morte dei suoi genitori, e lei ha reagito come se fosse vero. Interessante, non trovate? Eppure io non ricordo chi fossero...

    – Un Amuleto del Sonno? – Eraki si voltò. – Di che fattezze?

    – Un medaglione di cuoio con sopra incisa la spirale del Kaelion – disse Moso.

    Il volto di Eraki impallidì, soltanto per tingersi di rosso. – Quell’Amuleto? Jasme! – La sua mano si serrò sul bastone tanto forte che sembrò poterlo spezzare.

    – Jasme? La tua servetta muta? – Moso inclinò il capo. – No, non dirmelo... Ecco perché a Flù la ragazzina-cane non lo aveva, le è stato portato dopo... e dal marmocchio di Sàa! Eraki, li avevi entrambi su un piatto d’argento e ti sono sfuggiti?!

    – Al tempo non sapevo neanche che la ragazzina esistesse! Mi aspettavo da Jasme un artefatto del Clan del Cavallo, qualcosa che mi permettesse di controllare Lianda, non un feticcio di Lùn!

    Moso rise, rotolandosi sulla schiena con le zampette premute sulla pancia rotonda.

    Namèle puntò il braccio sull’anca e si sgranchì il collo. – Non siate sciocchi, cosa dovrebbe importarci di questa ragazza-cane? Non penserà forse di essere l’unica a poter compiere un Viaggio Astrale. Se sì, potrebbe rimanere molto delusa...

    – Donnola, un Errante non è un sognatore come gli altri. – Uaela fece un passo avanti, il labbro livido increspato appena sotto la maschera. – Una Camminatrice di Sogni potrebbe essere qui, ora; potremmo sussistere in una sua visione, una realtà preparata da lei per noi sognatori incauti; potrei ritrovarmi a parlare con la sua voce, ora, e tu staresti ascoltando lei; potrebbe essere il fuoco che ci balugina davanti, gli alberi da cui ti credi protetta, e potremmo lasciare questo luogo senza avere la minima idea della sua presenza. Hai tu questo potere, Namèle?

    La Bruja fece un sorriso stizzito. Arza sputò a terra. – Uaela dice il vero. È successo così quando ho ucciso Talea. In qualche modo lei era là, una presenza tra gli alberi, l’ho vista e lei ha visto me. Le ho tessuto una trappola, l’ho fatta annusare da un Ammutatore, seguire, ma a quanto pare è riuscita a tornare nel suo corpo prima che la possedesse...

    – È soltanto una ragazzina – disse Elifas. Abbassò il bastone e spense il fuoco. Le nuvole si dissolsero e una luna color cenere illuminò i volti dei Magi.

    – Il tempo sta giungendo al termine, il tempo inizierà di nuovo. La Tomba del Mare sarà riaperta. I quattro Venti del Caos soffieranno ancora, Kinganna si risveglierà nel cuore di ognuno e la paura gli darà forza. I Clan non potranno che chinarsi e spezzarsi – Elifas ghignò. – Sino ad allora, cautela... Proteggete la vostra anima nel sonno come fareste con il corpo nella veglia. Non è una ragazzina che temo, cinque Jane sono ancora vive...

    Il corvo batté le palpebre sugli occhietti rossi. Elifas si girò, la veste rosso cupo si torse in una spirale e il Magi scomparve.

    Eraki batté il bastone sulla pietra del tempio, si avvolse nel mantello e divenne un masso di ossidiana, prima di sgretolarsi come fuliggine e svanire. Arza sprofondò nella sua ombra e quella trottò via sulle zampe da ragno. Namèle si cucì le labbra con le dita e sparì in uno sbuffo di fumo, e Moso sbadigliò, sgonfiandosi e lasciando sulla pietra soltanto una viscida pelle slabbrata.

    Schlanga scoccò un’occhiata a Uaela: – Faresti bene ad andartene.

    Il Magi della Biscia fece un passo là dove era bruciato il fuoco, estrasse due pugnali, si chinò e tracciò in terra cerchi congiunti e rapidi solchi. Un passo dentro il cerchio, un sibilo, e il suo corpo scomparve.

    Un istante dopo, la piramide, la foresta morta, il cielo stesso iniziarono a screpolarsi, portati via dal vento.

    Uaela di Mòhr fece un passo indietro e si voltò con indugio. Dai rami protesi di un larice secco, il falco spiccò il volo e sparì nella notte. Un sorriso si aprì sotto il becco della maschera di legno della Bruja. Uaela si avvolse nel mantello di piume; una stria prese il volo nel Vuoto dei Mondi delle Stelle.

    III

    Lianda è morta, ed è colpa mia.

    Iskìda spostò col bastone un ramo che pendeva sul sentiero tra gli alberi e ci passò sotto. Li ho lasciati indietro e sono scappata via! Un altro ramo ostruiva la via, calò il bastone e lo spezzò a metà. Come ho fatto a non accorgermi di un maleficio sotto il mio naso? Come ho potuto lasciar entrare Moso a violare la nostra capanna? Un Magi! Ino l’aveva annusato, Ino aveva ringhiato contro l’uscio, e io l’ho costretto a star buono!

    Al ricordo del compagno gli occhi le bruciarono, ma non pianse. Ino aveva sussultato, steso a terra di fronte alla soglia fumante, lo ricordava. Doveva essere vivo. Vivo e ferito, e solo. E tu Iskìda dovresti farti schifo, perché vorresti vederlo spuntare dal sentiero e venirti incontro come se fosse lui a doverti ritrovare!

    Falciò un altro ramo col bastone soltanto per vederlo rompersi. Nel Clan del Cane i discendenti dei Nèfili Lupo correvano insieme, due zampe e quattro, inseparabili. Hai rotto il legame, Iskìda; l’hai rotto e hai gettato via i pezzi... Si strinse nel mantello, cercando nella morbida pelliccia la forza e il perdono del suo Clan, che non arrivarono.

    La nebbia avvolgeva il pomeriggio, le fronde degli olmi erano scheletri neri nel grigio fitto. Incespicò su una radice. Maledetta nebbia!

    Strinse il pugno sul bastone, il Brebus le tremò sulle labbra senza che avesse neanche pensato a formularlo. Lo ricacciò indietro, spaventata. "La Magia va usata soltanto per necessità, Iskìda. Non la tua, non quella degli altri, ma quella di Akasha... Si morse il labbro e si sentì in colpa senza capire il perché. È questa la natura della colpa, ragazzina. Essa dimentica le motivazioni delle azioni, vive di ciò che sarebbe potuto e invece non è stato... Oh, Radu, basta!"

    Diede un calcio a un cumulo di foglie marce. "L’intenzione... l’intenzione di colui che ne fa uso... La volontà è sufficiente a giustificare un’azione? Potevo soltanto scappare! Dovevo scappare! Ci avrebbero visti, ci avrebbero catturati, e con noi la verità che portiamo! Sisiné, perdonami! Se soltanto ti avessi messa al corrente dei miei sogni, se soltanto mi fossi fidata di te come tu ti sei fidata di me! Mi avresti salvata, ti avrei salvata..."

    Iskìda si aggrappò al pensiero delle Amazzoni, la sua vera famiglia, che la raccoglievano e la rimettevano in sesto. Si passò il dorso della mano sull’occhio e tirò su col naso, ma piano, perché quell’altro, lo sconosciuto, non potesse pensare che piangesse. Eppure hai pianto, hai già pianto e lui era lì, quando Lianda...

    Fu scossa da un brivido, con il ricordo vivido del sangue scuro della strega che si allargava in una pozza, e vacillò, stritolata da un terrore sordo, il medesimo da quando erano fuggiti: un sentore, un pizzicore sul collo, qualcosa che la faceva girare di scatto a fissare la nebbia, come se qualcosa fosse là, in agguato, pronto a braccarla.

    La colpa di non aver potuto evitare la morte di Lianda era un macigno, ma l’ombra di questo era peggiore, perché sul corpo bianco e freddo della strega nessuno aveva tracciato il Segno Funebre. Ricordava i vecchi di Lùn in procinto di morire. Venivano preparati con le pitture, la runa del Clan dipinta sul petto dentro un cerchio incompiuto, il Vincolo finalmente spezzato per far rifluire in pace il Soffio in Akasha. I cacciatori più temerari si dipingevano il Segno prima di ogni caccia, perché il cervo o il cinghiale avrebbero potuto ucciderli in ogni momento e l’anima doveva essere pronta in bilico tra la vita e la morte.

    Se una persona moriva senza il Segno Funebre, bisognava tracciarlo il più presto possibile, e forse il Vincolo si sarebbe allentato. Iskìda comprendeva l’orrore soltanto ora che l’aveva subìto una persona cara, non come quando lei stessa a Flù aveva ucciso. Che una persona fosse di un Clan o di un altro, senza Clan o pazza, uccidere a tradimento imponeva la propria volontà su quella di un’altra anima e così facendo la incatenava all’odio in morte. "Iskìda, i demoni generano sempre altri demoni..."

    Chiuse gli occhi e pregò lo Spirito Creatore che il fuoco del pagliericcio non avesse raggiunto le vesti di Lianda; pregò che qualcuno l’avesse trovata in tempo, pulita, distesa e accompagnata nel suo viaggio.

    – Iskìda, rallenta, ti prego. Non possiamo continuare così!

    Tornò in sé. Si rese conto dei suoi piedi nudi, sporchi e veloci sul fango del sottobosco; dei passi e degli affanni dietro di lei, sempre gli stessi come ogni giorno dalla fuga dall’Assemblea. Un tremito di rabbia le passò lungo la schiena. Strinse il pugno sul bastone, accelerò.

    – Iskìda, piano! Dovunque stiamo andando, moriremo di fatica prima di arrivarci!

    Iskìda fece perno sul piede e invertì il senso di marcia. Karel si arrestò con passo incerto e lei puntò dritta su di lui senza rallentare.

    Tu... Tu cosa sai della fatica, Oro Rosso?

    Bisbigliò, come si parla in un bosco, come lui non aveva ancora capito di dover fare. I suoi occhi grandi di sorpresa si serrarono come dopo una sberla. Era sporco, aveva graffi sulla fronte, sulle braccia e sulle gambe, e zoppicava come chi non ha mai camminato scalzo in vita sua. L’intero suo corpo era circondato da un alone di debolezza.

    – Ancora Oro Rosso? Il mio nome è Karel, Iskìda di Lùn, e lo sai. Camminiamo a nord verso la Stella dei Mondi e a ponente da quasi una luna ormai. Dovremmo essere nelle Grandi Terre dei Laghi ma la nebbia è fitta come se fossimo ancora a Mòhr. Dove siamo? Dici che andiamo a Lùn, ma a Lùn dove? Ti ho seguita, dannazione, continuo a seguirti e tu ti comporti come se fossi l’unica a...

    – Come se fossi l’unica a cosa? Continua, se hai il coraggio.

    Lo sguardo di Karel tornò affilato e un lampo lo attraversò. Strinse i pugni. – L’unica ad aver perso qualcuno!

    Iskìda non vide più nulla attorno a sé, né alberi, né terra, né nebbia. Si chinò, giunse le mani sul bastone e attaccò dall’alto al basso.

    Per un momento i loro respiri furono nuvole di vapore nell’aria fredda. Gli occhi neri di lui erano lì, fissi nei suoi, a un palmo di distanza là dove il bastone premeva contro la spada di legno, estratta con prontezza. Il piede d’appoggio di Karel strisciò sulla terra umida e Iskìda sentì il peso inaspettato della sua forza spingerla via. I due legni scivolarono in basso e si separarono d’inerzia.

    Iskìda rimase là, con il fiato corto, il bastone ancora impugnato a due mani. Karel si rimise ritto e con un gesto fluido ripose la spada al fianco, senza mai abbassare gli occhi.

    – Iskìda, dobbiamo cercare di...

    Qualcosa si mosse nella nebbia. Si girarono assieme. Un’ombra scura la attraversò, lenta, come una razza che fluttua con le pinne aperte nell’acqua. Fu solo un attimo e scomparve, seguita da un lamento lontano. "Nèula, Spiriti

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