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Danin d’Argento: Il bambino di porcellana
Danin d’Argento: Il bambino di porcellana
Danin d’Argento: Il bambino di porcellana
Ebook159 pages1 hour

Danin d’Argento: Il bambino di porcellana

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About this ebook

Il libro racconta il dramma di Daniele, bambino fragile e solo, incapace di abbandonare il bozzolo magico che lo racchiude e che lo protegge dalla realtà esterna. È uno dei tanti bambini che soffrono di autismo infantile: è un bambino di porcellana, un piccolo Rain man. L´autore ha riunito le vicende di alcuni di questi bambini e le ha unificate in un´unica storia.
È nata così questa fiaba divertente e poetica insieme, strutturata in modo da consentire ai ragazzi un particolare momento di riflessione sui problemi della diversità.
Di questa fiaba moderna ha scritto il grande critico italiano Antonio Faeti: «Il libro è di quelli che uno come me tiene e terrà sempre vicino a sé. Racconta, per i bambini, l’autismo infantile, e, di questo cupo labirinto doloroso, sa dire anche la trasparenza, l’incantata finezza. Libro pedagogicamente civile, libro necessario, libro come non si sospetta facilmente che ne esistano». (Millelibri 88)
LanguageItaliano
PublisherCondaghes
Release dateMar 26, 2015
ISBN9788873568629
Danin d’Argento: Il bambino di porcellana

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    Danin d’Argento - Francesco Enna

    Francesco Enna

    Danin d’Argento

    Il bambino di porcellana

    illustrazioni di Bruno Enna
    ISBN 978-88-7356-862-9

    Condaghes

    Indice

    Citazione

    Premessa

    Un professore di pietra pomice

    Il bambino che parlava con le galline

    Uno strano bambino

    Perché la luna sta in cielo?

    Il mondo di niente

    Fuga nell’isola galleggiante

    Il bambino-lanterna

    L’Alfabeto-Daniele

    Il cucciolo-bambino

    Il bambino-robot

    Le parole rubate

    Danin d’Argento

    Il nobilcoccodrillo e il dinosauro rock

    Non Lo So

    Il bambino sdoppiato

    Il Mondo Bambino

    La leggenda di Romolo e Remo

    La colonna dei pensieri perduti

    Il padrone del buio

    Un muro contro tutti

    Una chiave di lettura per la nostra storia

    Dall’Apologo alla Favola

    Bibliografia essenziale

    L'Autore e l'Illustratore

    La collana Trenino verde

    Colophon

    «Ogni giorno entra in un bambino

    tutto ciò che v’è di più bello e tutto ciò

    che v’è di più triste al mondo»

    CÉLINE

    Premessa

    ¹

    Questa è una fiaba ma è anche una storia vera, ed è nata in un modo curioso.

    Nella mia piccola biblioteca ci sono dei libri serissimi, scritti da grandi studiosi del comportamento umano; questi libri, però, hanno degli strani titoli: Il bambino nella luna; Il pesce bambino; La fortezza vuota; Un luogo per vivere; I bambini del confine; Non vedo, non sento, non parlo; eccetera.

    Sembrano libri di fiabe e di avventura, e invece raccontano la vita reale di bambini bellissimi e tristissimi, che hanno paura di vivere.

    Molti di loro non parlano, non ascoltano, non guardano in viso la gente, e qualche volta sembra persino che non respirino; altri parlano soltanto con gli animali o con gli oggetti; altri ancora corrono, spingono, sputano, rompono tutto; oppure stanno immobili per ore e ore, ripetendo all’infinito, come in un rito, strani gesti o movimenti: muovono le dita davanti agli occhi con rapide scosse, dondolando il capo su e giù incessantemente, o fanno ruotare su se stessi oggetti rotondi con abilità straordinaria; altri, infine, si circondano di fili e di pezzi meccanici e si muovono come se fossero delle macchine.

    Sono bambini che hanno imparato, per ragioni ancora misteriose, ad avere terrore della realtà, e perciò si sono chiusi in un loro mondo particolare e ancora inesplorato, da cui non desiderano più uscire.

    Sono bambini ammalati di autismo infantile.

    Io ho raccolto le storie di alcuni di essi, così come le raccontano gli studiosi, le ho unite in un’unica storia, adattandole a un solo protagonista, ed è nata così questa fiaba.

    Franco Enna

    1) Nel corso del racconto troverete alcune frasi scritte in corsivo. Non sono parole mie, ma le ho prese in prestito dai libri degli studiosi, che troverete citati nelle pagine finali del volume.

    Un professore di pietra pomice

    C’era una volta uno di quei vecchi professori di pietra pomice, bisbetici e antipatici, che è sempre meglio perdere che trovare.

    Questo era ispido come un riccio; con tutti bisticciava, a tutti rispondeva male, diceva le parolacce e faceva persino le boccacce. Era anche manesco in una maniera scandalosa. Se qualcuno si azzardava a fissarlo troppo a lungo o, semplicemente, a guardarlo di sbieco, il Professore era capace di saltargli subito addosso e di riempirgli la faccia di schiaffi e di graffi.

    Non si pettinava né si sbarbava mai. Per questa ragione aveva l’aspetto di un istrice barbuto o, se si preferisce, di un barbone canuto. E poi sputava. Era diventato così abile nel lancio dello sputo che riusciva a centrare a venti metri di distanza l’occhio di chiunque gli fosse antipatico. Era il campione mondiale di sputo da fermo fra tutti i vecchi professori di pietra pomice. E c’era un’altra cosa ancora: faceva la pipì nel letto.

    Un professore così insopportabile non lo si era mai conosciuto. Ma non era sempre stato così. Molto tempo prima era stato un professore come tanti altri: serio, educato, forse un po’ severo, ma giusto. Non aveva mai dato troppa confidenza agli estranei, ma era sempre stato cortese con tutti. I primi segni di squilibrio si erano manifestati subito dopo la morte di sua moglie, che era una donna molto dolce e materna (sebbene non avesse avuto dei figli e quindi non poté mai provarlo), ma anche tanto ingenua. Era morta di broncopolmonite doppia per aver tentato di salvare la moquette del suo salotto dall’allagamento di un fiume in piena.

    La poveretta, vedendo entrare in casa tutta quell’acqua di buon mattino, aveva pensato che si trattasse dei rubinetti del bagno dimenticati aperti; perciò si era subito data da fare, con stracci e secchi, per cercare di prosciugare affannosamente la sua preziosa moquette, che era stata sistemata appena una settimana prima.

    Ma più acqua raccoglieva e più ne entrava. Fu una lotta furibonda, che durò l’intera giornata.

    Quando il Professore rientrò dall’Università, dove aveva tenuto un’importante conferenza sui Parallelebipedi (una straordinaria specie di uccelli con le zampe parallele, da lui scoperta), la trovò riversa sul pavimento ancora umido, completamente distrutta dalla fatica e bagnata fino al midollo. Aveva la febbre altissima e delirava.

    Poco più tardi, chiamato dal Professore, arrivò il dottore in compagnia del sindaco del paese, il quale si complimentò vivamente con la signora per aver contribuito a scongiurare un disastro, prosciugando da sola mezza alluvione.

    La povera signora sorrise riconoscente e spirò contenta. Ma da quel giorno, il Professore non fu più lo stesso. Qualcosa gli si era rotto dentro.

    Diventò ombroso, scostante, non guardò più in faccia la gente; da allora odiò l’acqua a morte, tanto da non lavarsi più neppure le mani e la faccia, così che incominciò a puzzare come un vecchio caprone; e poi prese a comportarsi nel brutto modo che abbiamo già descritto all’inizio.

    Insomma, diventò anche lui un autentico professore di pietra pomice.

    Infine, quando il mondo gli sembrò proprio insopportabile, si ritirò in una villetta di sua proprietà, poco fuori paese, che recinse personalmente con un muro altissimo e impenetrabile.

    Poiché, però, aveva bisogno di qualcuno che si occupasse dell’andamento della casa, consentì soltanto a una persona di vivergli accanto: era la signora Emilia. Una robusta contadina dai modi burberi e sbrigativi, grossa come una mongolfiera e con un vocione da sergente di fanteria, ma anche tanto paziente e comprensiva.

    Nella sua casa-fortezza, il Professore visse in solitudine quasi completa, disprezzando il mondo intero e calpestando stizzosamente le aiuole del suo giardino.

    Finché non incontrò Daniele, il bambino di porcellana.

    Il bambino che parlava con le galline

    Prima della disgrazia, il Professore si era occupato soprattutto di Ornitologia, cioè della scienza che studia gli uccelli.

    La sua specialità erano i Gallinacei, cioè gli uccelli da cortile, come le galline, le oche, le anatre, i pavoni, eccetera. Aveva scritto persino dei libri grossi come mattoni sull’argomento. Nessuno al mondo sapeva più cose di lui sulle abitudini dei polli (tuttavia, aveva confidato una volta agli amici più intimi che anche per lui i polli più facili da capire erano quelli arrostiti allo spiedo: un metodo un po’ barbaro di studiare i polli, ma gustosissimo).

    Anche dopo la disgrazia, il Professore aveva continuato a occuparsi di galline e affini, tanto che una buona metà del suo cortile, che era grandissimo, era stata trasformata in un enorme pollaio.

    Ma questa volta, il Professore aveva buttato nel fuoco libri e trattati, per mettersi a osservare direttamente gli animali.

    Si era messo in testa, infatti, che il metodo migliore di studiare le galline era quello di viverci assieme, allo scopo di apprenderne il linguaggio per farsi raccontare dal loro vivo becco gli usi, i costumi e le ricette delle frittate.

    Non gli fu difficile entrare in contatto con le galline, giacché aveva ormai il loro stesso carattere alquanto scostante.

    Dapprima si industriò a imitarne i movimenti: le braccia strette alla vita con i palmi delle mani aperte, a mo’ di ali; le gambe piegate e in punta di piedi; il collo smollato che si muoveva a scatti; i passetti guardinghi, ora lenti ora veloci, ma sempre in difficile equilibrio.

    Le galline, dopo un’iniziale diffidenza, si abituarono ben presto a quello strano gallinaceo senza penne, pur così tanto ingombrante, e non protestarono troppo a lungo. Non altrettanto bene, però, reagì il gallo ruspante del pollaio, un certo Cantachiaro, il quale si ostinò a considerarlo un rivale e ingaggiò con lui delle furibonde baruffe che lasciarono il segno.

    Il Professore, dal canto suo, irascibile com’era, non si tirò mai indietro e ribatté sempre colpo su colpo, tanto che le sue battaglie con il gallo diventarono leggendarie anche nei pollai vicini.

    La signora Emilia aveva ogni giorno il suo bel daffare a separare i due focosi contendenti, distribuendo in giuste dosi i colpi di scopa e gli insulti: – Cantachiaro, stupido di un gallo, torna indietro! Professore, vecchio caprone, metta giù quel sasso...

    Poi, un bel giorno, il Professore decise che era giunto il momento di imparare il Gallinese.

    E fu a questo punto che incontrò Daniele.

    Una mattina, mentre faceva sbellicare dalle risate una nidiata di polli con un Coo-coo-coccodé, che avrebbe voluto significare Come sta tua madre?, ma che invece voleva dire Il pollaio di mia zia ha un occhio guercio (in Gallinese, come tutti sanno, un coo in più o in meno cambia completamente il senso della frase), il Professore notò a un certo punto uno strano assembramento di galline vicino alla rete di recinzione del pollaio.

    Erano tutte insolitamente silenziose e attente. Di tanto in tanto emettevano in coro dei coo-coo di assenso, come se rispondessero alle domande di qualcuno.

    Il Professore, incuriosito, si avvicinò quatto quatto al gruppo e scoprì una cosa straordinaria. Le galline si erano sistemate in cerchio attorno a un bambino bellissimo, che parlava con loro.

    Era gracilissimo, tutt’occhi: occhi neri e grandi, pieni di dolore, dallo sguardo vago, che non si fissava su nulla di preciso.

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