Il destino della neve
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Il destino della neve - Giulia Calligaris
GIULIA CALLIGARIS
Il destino della neve
Terapia di gruppo
Al funerale di mio marito ci sono le persone conosciute in una vita, i parenti, i compagni di università, gli amici di sempre, i colleghi di lavoro, gli amici del tennis e i vicini di casa. Tutti hanno stampato sul viso la classica espressione di circostanza, la maggior parte degli uomini indossa un completo scuro, altri sono vestiti come se dopo il funerale dovessero andare al supermercato con la moglie. Per le donne è più o meno la stessa storia.
Siamo nella camera mortuaria dell'ospedale, poi andremo in chiesa anche se lui non era credente. Quando Pierluigi è morto noi della famiglia abbiamo preferito portarlo qui piuttosto che a casa, almeno non siamo costretti a vedere tutte queste persone aggirarsi per il giardino calpestando l'erba oppure ascoltare i loro commenti sulle nostre scelte personali, del tipo questa casa è molto grande, non sarà facile per Adele viverci da sola, forse la venderà e ne comprerà una più piccola. E via di questo passo, quindi eccoci nella camera mortuaria, bianca e grigia, pavimento e muri, ad aggravare la situazione c'è un forte odore di formaldeide, ricorda a tutti noi che il corpo senza l'anima si disfa e si scioglie.
Intorno alla bara, oltre a noi famigliari, ci sono gli amici più intimi che se ne stanno a braccia conserte, cercando di respirare il meno possibile, invece tutti gli altri sono fuori dalla porta e si godono la bella giornata invernale, sono le due del pomeriggio, se Pierluigi non fosse morto, adesso probabilmente saremmo a passeggiare oppure io sarei a casa e lui in giro, è in pensione da un anno, era in pensione da un anno, ed era ancora giovane, sessantacinque anni, è stato sfortunato, la sua sfortuna viene da lontano.
Io sono circondata dai miei figli, due maschi e una femmina, tutti e tre sposati, l'ultimo si è sposato un paio di mesi fa. Sono dentro ad una fortezza d'amore con loro al mio fianco, sento l'energia vibrare nonostante il dolore per la perdita del padre, energia che io non ho più, in parte per la mia età, cinquantacinque anni, e in parte perché ho scoperto da poco tempo che la vita vissuta sino ad ora è stata un'immensa menzogna, mi sento spaesata, persa.
Nella camera mortuaria, davanti alla bara, tratteniamo il respiro per non inghiottire troppe molecole di formaldeide, non mi stupirei se ci sentissimo tutti male per averla respirata troppo a lungo, già immagino l'articolo sul giornale: ad un funerale, un centinaio di persone, finiscono in ospedale per intossicazione da formaldeide. Così il funerale diventa una specie di farsa di cui la città si ricorderà per molto tempo, e noi, gli intossicati, ce ne ricorderemo per sempre.
Finalmente arriva il carro funebre, dove diavolo era finito? A questo punto, visto la velocità con cui usciamo dalla camera maledetta capisco che il pensiero dell'intossicazione era condiviso anche dai presenti e non posso fare a meno di chiedermi se condividiamo altri pensieri visto che siamo tutti qui a fissare ciò che resta di Pierluigi.
Dai rumori che provengono dall'interno della camera mortuaria capisco che gli addetti stanno sigillando la bara, i miei figli mi stringono, ci stringiamo tutti e quattro, adesso la nostra famiglia è composta da quattro persone, io stringo sopratutto Luca, il più giovane, sembra il più disperato, nel vedere il suo dolore dimentico il mio e mi concentro su di lui, con una mano gli alzo il mento, sorrido e gli trasmetto il mio amore e una sicurezza che non ho, non sei solo, ci sono ancora io, la tua mamma. Intanto la bara viene messa dentro al carro funebre e parte il corteo. Mentre camminiamo immagino mio marito steso lì dentro, su un lenzuolo di raso marrone, al buio. La chiesa è vicina e andiamo a piedi, camminiamo lentamente lungo il viale alberato e percorriamo tutto il tragitto all'ombra dei rami spogli dei platani, è una giornata straordinariamente limpida, luminosa.
Mentre camminiamo ascolto il rumore dei tacchi di tutti quelli che ci seguono e sento anche il rumore sordo del motore del carro funebre che ci sta davanti, purtroppo oltre al dolore che dobbiamo sopportare, stiamo anche respirando i fumi di scarico della marmitta, ci mancava solo questa, penso ricominciando a respirare il meno possibile. Finalmente arriviamo in chiesa. Nessuno di noi è credente, se fosse stato per me non avrei fatto la cerimonia ma so che i miei figli tengono ancora alla forma e poi c'è un aspetto pratico da non sottovalutare, se non avessimo fatto celebrare la messa, che ne avrei fatto di tutte le persone che sono venute a dargli l'estremo saluto? Le avrei rispedite a casa dopo la visita all'obitorio? Le avrei dovute invitare a casa mia? Senza contare i pettegolezzi che sarebbero seguiti. Quindi eccoci qui, finalmente lontani dallo scarico della marmitta, seduti in prima fila, non entravo in questa chiesa da una vita.
La bara è di fianco a noi al centro tra le due file di banchi, un ragazzino arriva con l'incenso fumante e lo spande generosamente, penso a come i nostri polmoni siano sottoposti a stress continui. Abbasso il viso e ancora una volta trattengo il respiro sino a quando il fumo e l'odore vengono assorbiti dallo spazio sacro.
Ecco che il parroco sale sul pulpito, sono sicura che Don Marcello in questo momento sta combattendo una battaglia interiore, tanto per stare in argomento di pensieri condivisi. Noi abbiamo battezzato qui i nostri figli e dopo quel giorno non ci siamo più fatti vedere. I miei figli si sono sposati altrove, per scelta loro. La femmina e il maschio più grande hanno scelto una chiesetta vista mare sulle colline liguri e il più piccolo si è sposato in cima ad una montagna, abbiamo dovuto portare i nonni con l'elicottero. Poco tempo fa qualcuno mi informò che Don Marcello era molto offeso dal nostro disinteresse nei suoi confronti. Però quest'astio cozzava con la gratitudine che provava, suo malgrado, nei confronti di Pierluigi che alcuni anni prima lo aveva operato di un tumore salvandogli la vita, mio marito era un bravissimo chirurgo. Quindi sto aspettando di sentire cosa dirà durante la messa, non che me ne preoccupi, sono solo curiosa.
Per fortuna la funzione religiosa non dura molto, alla fine Don Marcello ha preferito stare sulle generali, quindi ci siamo annoiati un po' tutti. Fuori il sole ci acceca e picchia sulle nostre teste, sul carro funebre e sul selciato, è una giornata insolitamente calda per la stagione, il cappotto mi pesa sulle spalle, il foulard mi scalda il collo in modo insopportabile. Un ultimo saluto a mio marito padre dei miei figli e poi ognuno verso il proprio destino, Pierluigi verso la cremazione, io e i miei figli a casa e tutti gli altri non so dove. I più intimi mi stringono la mano e dicono frasi di circostanza. Mi viene in mente che se fossimo meno formali e più espansivi potremmo andare tutti nella canonica e iniziare una specie di terapia di gruppo, l'argomento sarebbe Pierluigi, ognuno di noi dovrebbe o potrebbe dire ciò che veramente sente per lui, rancore, amore, fiducia, antipatia, simpatica, dubbi. E dopo aver esternato una volta per tutte ciò che abbiamo dentro da anni, potremmo salutarci e andare in pace. Ovviamente io me ne guarderei bene dal dire come tutto è finito tra noi.
Quando arriviamo a casa prima di tutto mi tolgo le scarpe con tacco e vado in giro scalza, abbiamo il riscaldamento a pavimento, è stata una mia idea, intanto le due nuore e il genero si siedono sul divano mentre i miei figli in cucina aprono e chiudono il frigo, cercano un vassoio, prendono i bicchieri, tutto questo senza dire una parola, nell'aria gira il rumore metallico delle posate smosse e delle ante della credenza che vengono chiuse, io li osservo e cerco di capire chi di loro ne uscirà prima. Li conosco bene, so chi è più forte o più coraggioso ma so anche che davanti ad un lutto tutto può cambiare, il più debole potrebbe trovare dentro di sé risorse inimmaginabili mentre il più forte scopre di esserlo solo davanti a problemi risolvibili e trovarsi invece totalmente impreparato ad affrontare un lutto. Quando finalmente siamo tutti seduti sui divani e sulle poltrone foderate di fiori rossi e viola su sfondo bianco, io mi lancio in una specie di discorso, dico che nonostante la bruttissima settimana appena vissuta, io mi sento bene perché ho tutti loro, ho sentito il loro amore per tutto il giorno e non mi sono mai sentita sola e non mi sentirò sola nemmeno in futuro. Nessuno si deve preoccupare per me, nessuno di loro deve modificare la vita che si è scelto per starmi vicino, voglio che siano felici e liberi, così come ho sempre cercato di farli sentire. Questo non significa che devono sparire dalla mia vita, significa solo che non devono sacrificarla per me perché adesso non ho più mio marito, il loro padre. Sono più forte di quello che sembro.
E se fino ad un momento prima dell'ultima frase che ho pronunciato, erano stupiti delle mie parole ma sembrava si sentissero anche meglio, nel momento in cui dico che sono più forte di quello che sembro, ecco apparire nei loro visi un'espressione compassionevole e capisco che non mi vedono come una donna forte. Li capisco ovviamente, ma ci resto male. A questo punto decido di dire altro, non mi va di lasciarli andar via con la loro preoccupazione per me. Quindi con un accenno di sorriso amorevole e pacato, riprendo il discorso. Voi pensate che senza papà io non sia forte per il fatto che ho passato la vita ad occuparmi della famiglia, come se non avessi mai saputo fare altro e come se adesso non potessi fare altro, ma vi sbagliate, credetemi sulla fiducia e poi vedrete. In sostanza non voglio essere la vostra preoccupazione principale. Vivete la vostra vita, io vi amo e so che voi mi amate.
A questo punto nei loro occhi vedo riconoscenza e orgoglio e capisco di aver raggiunto lo scopo, adesso devo solo mantenerli in questo stato. Ceniamo insieme e poi se ne vanno, quando richiudo la porta cerco di non ascoltare il silenzio che mi avvolge, ho la strana impressione che la mia casa adesso sia una cosa a sé, come se avesse una sua anima e quindi siamo in due, io e lei, al momento sembra un'estranea, sono dentro ad un luogo sconosciuto, cerco di non guardarmi intorno perché non riconoscerei i mobili e i soprammobili, i tappeti e i lampadari, così cammino verso il bagno guardandomi i piedi scalzi, le unghie senza smalto, mi chiedo se i miei piedi sembrino vecchi, intendo più vecchi di me, dei miei cinquantacinque anni, mi chiedo che ne sarà della mia vita ora che sono senza passato. Ho un sacco di tempo per ragionare su questo, mi dico. Prima di tutto devo riappropriarmi della casa. In fin dei conti l'ho creata a mia immagine e somiglianza, tanto per stare in tema di sacralità. Mio marito non c'era mai, stava mettendo solide basi alla sua carriera di chirurgo e io volevo, che alla sera, quando rincasava stanco ma soddisfatto, fosse felice di tornare da noi che lo accoglievamo con amore in uno spazio luminoso e confortevole.
Conobbi Pierluigi in ospedale, mi ero appena laureata in biologia e stavo lavorando in laboratorio analisi, mi avevano assunta con un contratto di tre mesi, a quel tempo lui era un giovane chirurgo che lavorava venti ore al giorno per farsi un nome. Entrambi provenivamo da famiglie modeste che avevano fatto molti sacrifici per permetterci di studiare e laurearci, quindi lavoravamo sodo e credo che la situazione famigliare fosse la nostra più grande motivazione oltre alla passione per la professione che avevamo scelto. A dire il vero io avrei voluto fare ricerca anche se sapevo bene che lo stipendio di un ricercatore alle prime armi non è sufficiente per mantenersi, a quel punto i miei genitori mi avrebbero cacciata di casa, già non capivano cosa potevo fare con una laurea in biologia e quando gli dissi che avevo vinto un concorso in ospedale, della durata di tre soli mesi, e che il mio lavoro consisteva nell'analizzare sangue, urina e feci, si ritrassero d'istinto con un'espressione disgustata, ma che laurea hai preso? Chiese mio padre deluso. Allora gli dissi che io avrei voluto fare ricerca, quella vera. Quante possibilità ci sono che tu ci riesca? Pochissime. Lo stipendio sarebbe buono? No. Quindi ritorno alla domanda di prima, ma che laurea ti sei presa? Ecco questa era la situazione a casa mia.
Pierluigi dopo la laurea era diventato l'eroe della famiglia e di conseguenza le aspettative erano altissime e lui da buon figlio quale era, ne sentiva tutto il peso, solo anni dopo scoprii perché si portasse dentro profondi sensi di colpa e la disperata necessità di essere l'orgoglio dei suoi genitori. Tanto per cominciare lasciava a sua madre quasi tutto lo stipendio e non era un bel vivere. Quando lo conobbi era tutto casa e lavoro, il tempo libero non esisteva. Noi due ci conoscemmo in mensa, solita storia, ci sedemmo allo stesso tavolo e iniziammo a parlare. Ci fu subito una certa attrazione fisica ma anche la consapevolezza di somigliarci, le nostre vite si somigliavano, le nostre famiglie sopratutto. Diventammo prima amici e poi amanti, tutto nel giro di un paio di mesi e tutto in segreto.
Pierluigi si comportava bene con tutti ed era molto stimato, quindi veniva spesso invitato dai colleghi a cene e a uscite domenicali ma con la scusa del lavoro e dello studio rifiutava gli inviti, la vera causa era la mancanza di denaro, invece i suoi colleghi spendevano metà dello stipendio per divertirsi e farsi pubbliche relazioni nell'ambiente, io gli consigliai di accettare un invito ogni tanto, giusto per non farsi dimenticare o per non sembrare un asociale. Spiega a tua madre che è per il tuo futuro, dio non voglia che ti distrai cinque minuti dal lavoro e dalla riconoscenza che devi provare per loro ogni secondo della tua vita, conclusi sorridendo.
Considerando che l'assunzione in ospedale era temporanea, non lasciai il lavoro di lavapiatti serale in un ristorante in città, così non mi ritrovai disoccupata allo scadere dei tre mesi. Nella cucina in cui lavoravo c'erano due Adele, io e un'altra ragazza, per distinguerci io venivo chiamata Adele-bio. Bio da biologa, appunto. Era un ambiente allegro e lo stipendio abbastanza buono.
Quando smisi di andare in ospedale le occasioni di vedere Pierluigi si ridussero a poche ore dopo la mezzanotte. Dopo un anno decidemmo che non si poteva andare avanti così e mi chiese di vivere con lui, avremmo unito le nostre forze economiche e soddisfatto l'esigenza di stare insieme. Usò proprio queste parole.
Con grande delusione delle rispettive famiglie, trovammo un monolocale vicino all'ospedale e ci trasferimmo. Mia madre disse che avevo studiato tanto per niente, farai dei figli e smetterai di lavorare, come fanno in tante. Concluse. La madre di Pierluigi mi guardava come se fossi il cane che le aveva morso la caviglia e a cui lei non era riuscita a dare un calcio sui denti, ma tanto aveva tempo e avrebbe aspettato il momento giusto per vendicarsi.
I primi anni di convivenza furono il periodo migliore della mia vita, il futuro ci aspettava, pronto ad accoglierci ed era bellissimo, dovevamo solo essere tenaci, e noi lo eravamo. Intanto si liberò un posto di ricercatrice all'università e fui assunta io, ovviamente lo stipendio era penoso ma io avevo sempre il secondo lavoro.
Dopo cinque anni di convivenza a Pierluigi venne offerto un posto in un ospedale in un'altra città, primario di chirurgia, finalmente le sue capacità venivamo pienamente riconosciute. Impossibile rifiutare. A quel punto il nostro rapporto si era trasformato in una vera storia d'amore, almeno così credevo io, e l'idea di dividerci non venne presa in considerazione, valutammo invece cosa fosse più conveniente fare per la nostra famiglia, cioè io e lui. La risposta era scontata, con la sua nuova posizione prestigiosa, i nostri problemi economici erano finiti, quindi io potevo mollare tutto. Non fu facile però perché mi piacevano entrambi i miei lavori, il primo soddisfaceva la mente e il secondo mi rendeva indipendente. Ma per amore si fa anche questo e lo