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Succede tutto per caso
Succede tutto per caso
Succede tutto per caso
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Succede tutto per caso

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L’omicidio di un ragazzo perbene, pur lasciando nell’indifferenza assoluta i suoi concittadini, scuote la coscienza di un freddo e spietato assassino che, guidato da una propria morale e da una particolare visione della giustizia terrena, inizia un lungo viaggio nei più reconditi meandri della psiche umana.
Una giovane donna, alle prese con la sua prima esperienza di rilievo da pubblico ministero, è costretta a combattere contro i pregiudizi maschilisti prima ancora che contro gli autori di una lunga scia di sangue.
L’indagine penale sarà quindi il pretesto per esplorare la vera essenza della società moderna che, dietro una facciata perbenista, nasconde, tra i gangli delle istituzioni piuttosto che nel sottobosco della criminalità organizzata, la sua vera anima corrotta e malata.
Alla fine uscirà trionfatore soltanto colui il quale avrà reso vera giustizia, non attraverso gli ipocriti schemi formali delle leggi ma grazie al perseguimento dei propri ideali e all’insegna dei veri valori che ormai tutti disconoscono.
LanguageItaliano
Release dateMay 22, 2013
ISBN9788868220488
Succede tutto per caso

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    Succede tutto per caso - Rocco Cosentino

    Poe

    PROLOGO

    Succede tutto per caso.

    È questa l’idea che mi sono fatto in questi anni. Anni passati tranquillamente. Ho giocato, ho studiato, ho lavorato, ho amato e… ho ucciso.

    Detta così sembrerebbe la cosa più semplice e naturale di questo mondo… e in effetti lo è!

    Si pensa che l’assassino nasca tale e muoia tale. Nel senso che chi arriva a commettere abominevoli azioni non può che farlo perché questa è la sua natura, perché questa è la sua sorte, perché questo è quello che il fato ha voluto per lui.

    La realtà però è diversa, molto diversa.

    Non voglio certo dire che dall’oggi al domani ci s’improvvisa serial killer, quello che intendo è che la vita ti forma, ti plasma, ti condiziona fino al punto che arrivi a credere che l’unico modo per farsi strada sia quello di accelerare l’evento naturale funesto di chi fa del male a te o agli altri.

    Con queste poche parole intendo solo rappresentare ciò che accade a ognuno di noi in una fase della propria vita. Può capitare da bambini, nell’adolescenza, in età adulta oppure nella vecchiaia. Non importa quando, l’importante è che ci facciamo trovare pronti.

    A un certo punto, ci troviamo di fronte a un bivio o, comunque, siamo costretti a fare una scelta importante che sicuramente condizionerà il nostro futuro.

    È capitato a tutti… è capitato anche a me.

    Può trattarsi di una scelta nel campo lavorativo, dello studio, in quello sentimentale. Tutti ci siamo trovati a fronteggiare un tale enigma, nessuno lo può negare!

    Alle volte, la scelta che ci viene chiesto di fare è tra il cuore e la ragione, tra la convenienza e il sacrificio, tra il denaro e gli affetti, tra la salute e il vizio… oppure, molto più semplicemente, tra la vita e la morte!

    Quanti amici ho visto arrivare al culmine del proprio progetto di vita e poi cadere rovinosamente nella desolazione e nella depressione!

    Quanti ho visto amare follemente e poi ritrovarsi a passare il resto dei propri giorni in solitudine!

    Quanti ho visto toccare il cielo con un dito e poi mangiare la polvere dell’umiliazione e della vergogna!

    La cosa più grave, però, è che sono stati loro stessi gli artefici del proprio destino, responsabili del proprio declino, assassini della propria anima.

    Non lo sanno, ma devono cercare esclusivamente in se stessi la causa dei propri mali.

    Non importa che fine abbiano fatto… disperati, illusi, falliti, suicidi… quel che conta è che erano a un passo dalla felicità eterna per poi ritrovarsi a un metro dal baratro.

    Quello che mi dà più fastidio è il fatto che si lamentano sempre di tutto: del destino avverso, della sfortuna che li perseguita, delle cose che vanno storte, dell’ingiustizia del mondo, della malvagità del prossimo.

    Qualcuno, prima o poi, dovrà pur farglielo capire che il mondo non vuole il loro male, che il mondo non è malvagio!

    Ed ecco che entra in gioco l’evento naturale funesto. Il mio compito, in fin dei conti, è molto più semplice di quanto si possa immaginare: fare in modo che per certe persone questo evento avvenga prima del dovuto. Io, quindi, non compio nulla che modifichi il naturale susseguirsi delle cose umane, mi limito soltanto a far sì che lo spazio temporale, che li separa dall’ineluttabile accadimento della vita che è la morte, si riduca a quel minimo indispensabile che non gli consenta più di fare danni agli altri… e a se stessi.

    Tecnicamente posso essere definito un assassino, ma tale non sono.

    I veri assassini sono le mie vittime.

    Le uniche vittime sono i loro cari, che avrebbero potuto avere una vita tranquilla e che invece saranno costretti a piangere una fredda lapide per il resto dei loro giorni.

    Naturalmente, questo non è un modo semplicistico di lavarsi la coscienza, è semplicemente una constatazione, anzi la mera constatazione di una vita fallita. Il mio intervento non ha un effetto costitutivo, ma meramente dichiarativo di una vita ormai spezzata.

    Il perché io lo faccia non ha importanza, l’unica cosa che conta è capire perché le mie vittime non abbiano fatto quel minimo che gli era stato richiesto per avere la felicità eterna. Un minimo impegno che gli avrebbe consentito di diventare i veri padroni della loro esistenza.

    Contenti loro… mi verrebbe da dire; un nuovo omicidio… mi verrebbe da compiere.

    L’altra notte stavo pedinando una delle mie future vittime. In macchina avevo tutti i ferri del mestiere, tutto procedeva liscio, quando a un tratto vedo in lontananza un lampeggiante avvicinarsi nel buio di quell’isolata zona di campagna. Rallento. Mi fermo. Una macchina nera con alcune bande rosse si accosta alla mia. Uno zelante maresciallo abbassa il finestrino della sua autovettura di servizio. Mi guarda, scende e mi chiede un documento che io gli consegno prontamente.

    Massimo Di Dio legge ad alta voce, dando contemporaneamente un timido sguardo al brigadiere che stava alla guida della Punto con i colori dell’Arma.

    Vada, vada pure sono le uniche fredde parole destinate alla mia persona.

    Per proteggervi e per servirvi è l’unica frase che riesco a rivolgergli in un misto di sarcasmo e di derisione.

    La Giustizia è morta… evviva la giustizia!

    I

    Roberto era un ragazzo come tanti.

    Faceva l’elettricista e non aveva mai creato problemi a nessuno.

    A un certo punto della vita, però, capisce che deve fare qualcosa per dare un senso alla sua esistenza.

    Aveva trent’anni, portati bene, ma ne dimostrava al massimo venticinque. Amava le donne mature. Il suo ristretto target femminile arrivava fino alle cinquantenni.

    La situazione di eterno scapolone era anche il frutto di alcuni perenni problemi di salute che non gli consentivano una normale deambulazione e, quindi, una regolare vita sociale. Il suo ginocchio destro gli aveva dato sempre molte preoccupazioni da quella volta in cui, mentre stava sistemando un impianto elettrico, cadde rovinosamente da una scala di alluminio. I più grandi luminari della medicina avevano visitato il suo malandato ginocchio, ma nessuno era mai riuscito a risolvere completamente il problema. Era stato sottoposto a numerosi interventi chirurgici, ma alla fine il responso era sempre lo stesso: – Ringrazi il cielo di poter ancora camminare, una leggera zoppia non è certo la fine del mondo!

    Non aveva mai creduto alla storiella del dover rimanere zoppo per il resto dei suoi giorni. Non aveva mai smesso di cercare colui il quale sarebbe stato finalmente in grado di ridargli la gioia di fare una lunga passeggiata senza problemi, nella piena convinzione che i problemi di salute e sentimentali avrebbero trovato quanto prima una rapida soluzione. Era ammirevole sotto questo punto di vista, non si rassegnava al suo stato fisico e ogni alba che sorgeva rappresentava una nuova possibilità che il buon Dio gli concedeva. Era questa la sua filosofia di vita da quell’infausto giorno in cui da quella ripida scala caddero il suo corpo e anche la speranza di poter vivere normalmente.

    E così trascorrevano i suoi giorni… lavoro, lavoro, ginocchio, donne… lavoro, lavoro, donne, ginocchio.

    L’astinenza da vizi e sperperi aveva consentito a Roberto di mettere da parte un discreto gruzzoletto niente male. La diffidenza per le banche, però, era tale che non aveva mai messo piede in un istituto di credito. Il vecchio metodo della mattonella, a suo dire, era il più collaudato per mettere i propri risparmi al riparo da speculazioni di sorta e dai soliti ficcanaso di uno Stato parassita, che si approfitta dell’onesto lavoro dei più deboli per consentire a pochi ricchi di continuare a vivere nel lusso e nella lussuria.

    Quel giorno, quindi, sembrava come ogni altro degli ultimi anni.

    Roberto era tornato a casa per pranzare alle 12.30 in punto.

    Sua madre gli aveva fatto trovare un piatto di spaghetti fumanti e una bistecca al sangue. Una ricca macedonia avrebbe dato la degna conclusione al suo lauto pranzo.

    Suo padre stava seduto ad aspettarlo su una poltrona davanti a un televisore acceso.

    Appena fece ingresso in cucina, era tanta la voglia di dare la buona notizia ai suoi genitori che nemmeno li salutò e subito esordì, guardandoli dritti negli occhi: – Papà… mamma… mi sono fidanzato!

    I suoi genitori non si erano ancora ripresi dalla scossa che quella inaspettata notizia aveva dato alla loro stanca esistenza, quando l’amato figlio aggiunse: – … e ho trovato la persona giusta che risolverà i miei problemi al ginocchio!

    I suoi cari si guardarono sbigottiti, indecisi se credere o no a quello che le loro orecchie avevano appena ascoltato.

    Nessuno dei due però avrebbe potuto immaginare che quel giorno non sarebbe passato alla storia come quello in cui il loro figlio aveva finalmente trovato la soluzione dei suoi problemi, ma come il giorno dell’ultimo pranzo di Roberto… barbaramente ucciso la notte successiva.

    II

    Il corpo era riverso a terra in una pozza di sangue.

    Il primo ad accorgersene era stato il padre. Si era svegliato nel cuore della notte, era andato in bagno e si era sciacquato la faccia. Mentre stava per spegnere la luce, aveva notato dalla finestra le luci abbaglianti accese di un’autovettura. Si era affacciato e si era reso conto che era la macchina di Roberto con il motore acceso. Pensando che la stesse parcheggiando in garage, era tornato tranquillamente a letto. Dopo circa dieci minuti, sentendo ancora il rumore del motore, si insospettì e si precipitò fuori di casa. Quello che vide lo segnò per il resto dei suoi giorni.

    – Capitano, il suo nome era Roberto Maffei. Aveva trent’anni ed era un elettricista. Un ragazzo senza grilli per la testa, secondo l’opinione di tutti quelli che lo hanno conosciuto – il maresciallo Carrà così esordì al cospetto del suo superiore.

    – Controlliamo subito se aveva precedenti penali o di polizia.

    – Già fatto. Nulla di rilevante. Era un giovane tranquillo, da tutti considerato una persona onesta.

    – Questo rende le cose ancora più complicate. Comunque, verificate cosa ha fatto nella giornata di ieri e poi ne riparliamo. Non vorrei che si trattasse di quel solito ragazzo perbene che poi di notte va alla ricerca di qualche spacciatore per la quotidiana dose di cocaina.

    – Sarà fatto. Volevo inoltre segnalarle che il cadavere è stato spostato prima del nostro intervento. A quanto pare è stato il padre che ha cercato di caricarlo in macchina per trasportarlo in ospedale. Per fortuna un vicino, che è subito accorso sul posto, l’ha convinto a desistere, visto che era palesemente privo di vita.

    – Allora interrogate subito il padre e fatevi descrivere per filo e per segno l’esatta posizione del cadavere. Speriamo solo che con questa sua iniziativa avventata non abbia pregiudicato irrimediabilmente il buon esito delle indagini.

    Il maresciallo Carrà si diresse subito verso l’abitazione della famiglia Maffei, alla ricerca dei genitori del ragazzo.

    Nel frattempo, era intervenuto sul posto, per la ricognizione cadaverica di rito, anche il primo medico disponibile a quell’ora di notte.

    – Mi auguro che l’intervento del personale del 118 non abbia fatto danni! – così esordì il dottor Falvo appena arrivato.

    Il capitano De Angelis lo rassicurò sul fatto che si erano limitati soltanto a constatare a occhio il decesso e lo invitò a iniziare il suo lavoro, chiamando sul posto, per la redazione del relativo verbale, un maresciallo in forza al nucleo operativo.

    A quasi metà della ricognizione cadaverica, intervenne il maresciallo Carrà, il quale umilmente rappresentò al suo superiore che forse sarebbe stato opportuno aspettare che arrivassero i colleghi del RIS per i rilievi e il pm di turno.

    Il capitano De Angelis dimostrò subito di avere la situazione sotto controllo, o perlomeno fece di tutto per dare questa impressione a chi gli stava davanti: – Come puoi pensare che io possa commettere degli errori da dilettante! Quelli del RIS non arriveranno prima di un paio d’ore e per questo il nostro nucleo operativo ha carta bianca per i rilievi sul cadavere. Il pm di turno, la dottoressa Vinci, mi ha appena comunicato telefonicamente che non potrà intervenire perché è al quarto mese di gravidanza e sembra che il procuratore stia facendo un giro di telefonate tra i sostituti per trovare uno reperibile. In ogni caso, ha dato disposizione di iniziare, in attesa che si faccia vivo il pubblico ministero che sarà designato.

    Il maresciallo Carrà non disse una parola e si fece da parte.

    Il dottor Falvo, prima di continuare la sua opera, esclamò: – Certo che la macchina della giustizia è messa proprio bene!

    Prontamente ribatté il capitano: – Che vuole che le dica… da quando hanno fatto quella fiction in televisione, l’Arma si preoccupa più di marketing che di qualità del servizio. Ormai far parte del RIS è un merito solo sulla carta. Spendono tanti soldi soltanto per promuovere il buon nome dell’Arma dei Carabinieri, ma non pensano minimamente a migliorare l’efficienza del servizio alla collettività. La nostra è ormai una vuota apparenza, appositamente creata, per far contento qualche generale che ha forti legami con la politica.

    Replicò il dottor Falvo: – Che mi dice del pm donna che è in stato interessante?

    – Onore alla dottoressa Vinci che ancora lavora pur essendo in attesa del suo primo bambino, tuttavia non ha senso metterla di turno esterno e poi dover chiamare qualche altro suo collega per intervenire sul posto. Comunque, le ripeto, la dottoressa va lodata, se non altro per non essere caduta nella tentazione di farsi firmare da un medico compiacente un certificato fasullo che le avrebbe consentito di starsene comodamente a casa senza fare niente.

    – Non mi dica che anche i magistrati hanno il vizio di inventarsi minacce d’aborto come un qualsiasi altro dipendente pubblico?

    – La mia non era una considerazione, ma una mera constatazione…

    Intervenne a quel punto il maresciallo Carrà, ansioso di far conoscere al capitano alcuni documenti utili che aveva trovato all’interno dell’autovettura del morto durante la perquisizione: – Capitano, guardi qui. Ho trovato questo bigliettino con l’annotazione di un volo aereo per le ore 18.00 di oggi e poi anche questo depliant di un ristorante italiano in Russia.

    – Bene, bene, sequestrateli subito. E vedete un po’ se i genitori ne sanno qualcosa. Il volo aereo e il riferimento alla Russia mi fanno sospettare che la nostra vittima non conducesse quella vita anonima che tutti ci vogliono far credere.

    Il maresciallo Carrà stava per allontanarsi, con l’unico scopo di eseguire al meglio e al più presto gli ordini del suo superiore, quando a un tratto il silenzio di quella notte fu squarciato dallo squillo di un telefono cellulare: quello della vittima, tutto insanguinato ma ancora funzionante.

    III

    Paolo Cortese era un omone di quasi due metri e 130 kg di peso.

    Tutti lo chiamavano il dottore, ma dottore non era. Nessuno ha mai saputo quali titoli avesse, tuttavia tutti riponevano massima fiducia in lui e nelle sue doti curative. Si diceva che avesse sviluppato le sue magiche qualità terapeutiche durante un periodo di meditazione trascorso in Tibet. Qualcuno aveva sentito dire che in passato era stato un frate francescano, anche se questa circostanza era stata messa fortemente in dubbio da alcune voci che circolavano sulle sue presunte tendenze sessuali molto particolari.

    La sua fama in città si era diffusa da quella volta in cui era riuscito a curare i problemi alle articolazioni delle mani di un farmacista, che aveva fatto un viaggio di oltre mille chilometri per andarlo a trovare presso il suo studio medico in uno sperduto paesino del Trentino.

    Tra i suoi clienti più assidui c’era anche colui che l’ospitava a Bellaria, il quale, per evitare di spendere ogni volta un capitale per i viaggi, offrì la sua ospitalità al dottore, dandogli la possibilità di utilizzare uno stanzino dove poter visitare anche altri pazienti. Paolo Cortese, per ricambiare, iniziò a offrire gratis i suoi servigi al padrone di casa.

    Erano quasi le cinque del mattino, stava beatamente riposando nella sua stanza, quando sentì qualcuno bussare violentemente alla porta che si affacciava su un cortile.

    – Paolo Cortese, apra subito! Non faccia storie e vedrà che nessuno si farà male!

    Fece appena in tempo a riprendersi dallo spavento e capire di non stare sognando, si alzò dal letto e si avvicinò alla porta, chiedendo timidamente all’ignoto interlocutore cosa volesse.

    Purtroppo, chi stava bussando alla porta non aveva molta pazienza e tempo da perdere, anche perché, appena un attimo dopo, la serratura fu fatta saltare con una energica spallata. La sua piccola dimora fu immediatamente invasa da uomini in divisa, armati di mitra e pistole bene in vista.

    – È lei Paolo Cortese?

    – Sì, sono io. Cosa volete da me?

    – È pregato di seguirmi in caserma, non prima però che i miei uomini abbiano finito di perquisire questa topaia! Le ordino anche di non muoversi da dove si trova in questo momento e di non toccare o spostare niente.

    – Non capisco…

    – Non ha nulla da capire al momento, le sarà spiegato tutto in seguito. Si tolga di dosso quell’orrendo pigiama fucsia e ci segua. Le assicuro che a quest’ora del mattino lei non è uno spettacolo bello da vedere.

    Il povero Cortese non sapeva se provare più vergogna per essere stato prelevato di prima mattina da un commando di carabinieri o per quell’orrendo completino da notte che gli era stato regalato da un suo paziente, quale pagamento in natura di alcune sedute.

    Su di lui circolavano tante voci, nessuno, però, è stato mai in grado di dire se corrispondessero a realtà oppure no. Tutto quello che si sapeva su Cortese era legato al vivo racconto dell’interessato. Era di certo un tipo solitario, senza vita sociale, sempre chiuso dentro il suo studio oppure nella stanza dove passava il resto della giornata quando non visitava i suoi pazienti.

    Ogni volta che arrivava a Bellaria dal suo amato Trentino, veniva preso in aeroporto da un autista, quindi accompagnato nel suo ambulatorio e poi riaccompagnato per il volo di ritorno dopo circa tre giorni.

    Ultimamente, però, era stato visto spesso in compagnia di un ragazzo del luogo, Roberto Maffei. Questa circostanza aveva destato la curiosità dei suoi pazienti e di chi aveva avuto occasione di conoscerlo. Infatti, non avendo Roberto una compagnia femminile stabile, qualcuno era stato indotto a dare ragione alle pressanti voci sulle inclinazioni omosessuali del dottore. Il fatto poi che Roberto fosse l’unica persona che frequentava fuori dal suo studio medico, e per di più in zone isolate di periferia, aveva alimentato a dismisura le maldicenze.

    Tuttavia, chi conosceva bene Paolo Cortese sosteneva che il suo interesse per Roberto fosse solo di natura professionale, nel senso che quest’ultimo rappresentava il miglior spot pubblicitario per la sua attività di bioterapeuta. Era a tutti noto, infatti, che Maffei, per anni, avesse consultato in giro per il mondo i migliori specialisti della medicina tradizionale per cercare di risolvere i suoi problemi di deambulazione, senza trovare mai la via della guarigione. Bastarono, però, alcune sedute dal dottore per fargli ritrovare il sorriso. I miglioramenti delle condizioni del ginocchio erano stati così evidenti, e peraltro rapidi, che avevano favorevolmente sorpreso anche lo stesso Cortese. Tra i due era inevitabilmente nata una forte amicizia che li aveva spinti a frequentarsi pure nel tempo libero.

    – Allora, Cortese, è pronto a seguirci dal capitano?

    – Sono stato sempre pronto ad accogliere il destino che il buon Dio ha deciso di riservarmi giorno per giorno. Sicuramente non mi farò trovare impreparato proprio oggi che il messaggio divino si è concretizzato e fatto carne nella divisa di alcuni fedeli servitori dello Stato!

    L’uomo della Benemerita cercò di capire se nella risposta del Cortese ci fosse una sottile presa per il culo, non fece in tempo però a darsi una risposta logica che il telefonino di servizio iniziò a squillare. Apprese dai suoi colleghi in caserma che il capitano chiedeva notizie sull’esito delle operazioni. Chiamò i suoi uomini a raccolta e fece il punto della situazione.

    Al termine della perquisizione, gli uomini armati portarono via soltanto un saio, una bambolina di pezza con due spilloni conficcati nella testa e alcune bustine contenenti una sostanza, non ben identificata, di colore bianco.

    Cortese ancora non aveva capito il motivo di quella visita inaspettata, ma di certo aveva compreso che avrebbe perso il volo delle 18.00.

    IV

    Il maresciallo Carrà stava tentando di fare il punto della situazione quando ancora i suoi uomini stavano eseguendo la perquisizione nella stanza di Roberto. In particolare, il suo compito era mettere in relazione quello che aveva trovato dentro l’autovettura e gli esiti degli accertamenti presso la dimora di Paolo Cortese, un personaggio enigmatico della cui esistenza aveva saputo dalla viva voce del padre di Roberto, che lo aveva definito come un medico che lavorava con le mani, diventato molto amico del figlio.

    – Maresciallo, abbiamo trovato soltanto alcuni attrezzi da lavoro, cartelle cliniche e un indefinito numero di schedine del Totocalcio! – così intervenne un brigadiere che aveva coordinato la perquisizione nella stanza del morto e in tutta l’abitazione della famiglia Maffei.

    – Nient’altro? È possibile che un trentenne, che viveva ancora con i genitori, non conservasse altri documenti?

    – Purtroppo non abbiamo trovato altro, però abbiamo rinvenuto, nascosto sotto il materasso, un pacco di preservativi ancora intatto! Per la precisione si tratta di quelli ritardanti per lui e stimolanti per lei, di quelli che di solito…

    – Basta, non mi interessano altri particolari, fate i verbali di perquisizione e sequestro e annotate tutto quello che avete rinvenuto.

    Carrà diede uno sguardo alle cartelle cliniche e notò che erano relative a ricoveri di Roberto in ospedali di tutta Italia. Notò anche che risalivano a molti anni prima, la più recente era vecchia di tre anni.

    Prese poi in mano le schedine. Erano state tutte regolarmente giocate. Carrà dedusse che, evidentemente, Roberto aveva l’abitudine di conservarle, dimostrando così una cura maniacale per quella che era evidentemente una sua passione.

    Tutti questi elementi gli diedero conferma di quanto era stato riferito dai genitori, e cioè dei problemi di salute del figlio e della sua passione per il gioco. Cercò anche di capire se dare peso al pacco di preservativi trovato nascosto nel suo letto. Nonostante fosse emerso pacificamente che Roberto non aveva vincoli sentimentali stabili, nulla escludeva che fosse comunque dedito alla consumazione di rapporti sessuali occasionali. Circostanza questa che, se verificata, avrebbe aperto scenari investigativi potenzialmente infiniti.

    Intervenne a quel punto il capitano De Angelis, il quale comunicò al maresciallo che tutte le operazioni potevano proseguire regolarmente, dato che il pm, che doveva arrivare sul posto in sostituzione della dottoressa Vinci, aveva appena fatto sapere telefonicamente al centralino della caserma che non avrebbe effettuato il sopralluogo, senza tuttavia dare alcuna valida giustificazione alla sua assenza. – Quelli della procura se ne inventano sempre una nuova. Adesso hanno preso l’abitudine di fare il sopralluogo solo se si tratta di un omicidio di mafia.

    – Meglio per noi, così possiamo agire con maggiore autonomia.

    – A proposito, siete risaliti all’intestatario dell’utenza cellulare che ha chiamato quella del morto mentre facevamo il sopralluogo?

    – Siamo stati fortunati, è di una compagnia telefonica di cui abbiamo l’accesso diretto al database. Sembra che appartenga a una certa Adele Rossetti, una cinquantenne di origini piemontesi.

    – Cosa sappiamo di questa donna?

    – È separata, con un figlio, e da anni non risiede più in Italia.

    – Come mai? – chiese il capitano.

    Il maresciallo Carrà rispose immediatamente, ostentando precisione e alta professionalità: – Lavora all’estero come cuoca!

    – Scommetto in un ristorante italiano in Russia!

    – Esattamente, signor capitano, proprio lo stesso ristorante pubblicizzato in quel depliant che abbiamo trovato nell’autovettura di Maffei!

    – Molto, molto interessante. Cerchiamo di rintracciare subito questa donna e interroghiamola! Potrebbe essere lei l’anello di congiunzione tra la vittima e il carnefice!

    Squillò a quel punto il telefono del capitano, il quale venne informato che Paolo Cortese era appena arrivato in caserma.

    – Carrà, per favore, sbrigatela tu con quel frocetto di merda! Con certa gente non voglio avere nulla a che fare!

    Il maresciallo annuì timidamente, per nulla colpito dalla caduta di stile del suo superiore. Aveva avuto però la conferma di quello che si vociferava su De Angelis negli ambienti dell’Arma, e cioè che apertamente ostentava odio e disprezzo verso coloro che avevano le sue stesse tendenze sessuali, tanto che la sua volgarità raggiungeva livelli squallidissimi quando aveva a che fare con i trans… e di questo stato di cose la moglie e i figli non erano certamente orgogliosi.

    V

    Come scelgo le mie vittime?

    In effetti, non lo so neanch’io. Di solito mi affido al mio istinto naturale.

    È difficile spiegare quali siano gli impulsi che mi spingono ad agire. È come chiedere a un fiore perché sboccia o a una zanzara che gusto prova a pungere la gente. È la natura… e basta.

    Una cosa però è certa: amo fare lunghe passeggiate il sabato sera.

    Il sabato non è un giorno come gli altri, è il giorno eletto dalla specie umana per divertirsi o, per meglio dire, fare qualcosa che la maggioranza delle persone, costituenti una società, definisce tale. Così mi è parso di capire in questi anni di esistenza sulla terra.

    Di solito prendo la macchina, scelgo un posto, mi fermo e giro un po’ a piedi per studiare il genere umano. Nessuno può immaginare quante cose si scoprano stando da soli dove nessuno ti conosce.

    Quello del sabato sera in fondo è un rito umano come tanti altri, può piacere oppure no, quello che importa è che esiste e, in quanto tale, mi sento in dovere di studiarlo, osservarlo e, se necessario, correggerlo.

    Quanti ragazzi pieni di vita affollano le macchine in giro per la città alla ricerca di un posto dove ballare e bere qualche birra! Peccato però che siano poi gli stessi che vanno alla ricerca di nuovi paradisi artificiali, sol perché, dopo un po’ di tempo, la triste vita che conducono non li soddisfa più.

    In fin dei conti, se negli angoli bui delle strade ci sono più spacciatori che lampioni, un motivo ci deve pur essere!

    Io però non me la prendo con loro, o comunque, non con tutti. Nel senso che, finché si limitano a offrire un certo prodotto a una clientela che ne fa pressante richiesta, il problema non è mio, o meglio non è soltanto mio, dato che do per presupposto che una giustizia terrena pur sempre esiste e con quella io devo convivere.

    L’altra sera, per esempio, mi trovavo comodamente seduto su una panchina di fronte a un affollato punto di ritrovo, quando a un tratto vedo arrivare due coppie di ragazzi a bordo di una potente Mercedes, una CLK per la precisione. Fisso con lo sguardo il conducente e mi accorgo di conoscerlo. Cerco di non farmi riconoscere e osservo le loro mosse. Dopo qualche minuto scorgo un tipo, vestito casual e con un paio di piercing all’orecchio destro, che si avvicina all’autovettura, dal lato del conducente. Si accosta al finestrino e consegna qualcosa che tiene dentro il pugno destro. Il ragazzo seduto al lato guida ricambia, consegnandogli del denaro. Il giovane si dilegua, felice e soddisfatto. I ragazzi si allontanano dalla parte opposta, verso una zona desolata della città. Faccio mente locale e ricordo che il ragazzo alla guida è il figlio di un ricco industriale del paese che, dopo anni passati a bighellonare da un’università all’altra, senza mai dare lo straccio di una materia, adesso siede su una comoda poltrona della ditta paterna, continuando a non fare niente e, soprattutto, guadagnando il triplo del mio misero, ma sudato, stipendio.

    Andare in giro di notte è sempre stata la mia passione.

    Di notte ti senti il padrone della città, di notte puoi dire al mondo intero che esisti senza che nessuno osi mai contraddirti.

    È anche vero però che sento sulla mia pelle questo senso di onnipotenza soltanto quando sono a contatto con il mondo notturno, fuori dalle mura domestiche.

    Mi sento forte e spregiudicato in mezzo alla giungla delle nostre città, debole e indifeso sotto il tranquillizzante tetto di casa mia.

    Sembrerà strano, ma è proprio così.

    Quando mi trovo a casa, comodamente sdraiato sul mio letto, svegliarsi nel cuore della notte e pensare alla propria vita rappresenta per me l’angoscia più grande di questo mondo. Tutte le paure si affollano nella mente, ogni più piccola azione viene vista come fonte di problemi. È proprio in situazioni come queste che mi viene voglia di lasciare tutto alle spalle e cambiare completamente vita. Per fortuna, però, arriva presto l’alba e mi sento nuovamente l’essere più forte sulla terra.

    Questo duplice effetto che ha la notte su di me, in fondo, è paradigmatico dell’essenza umana, di quella che dovrebbe essere la vera essenza umana… debole a parole, forte nei fatti!

    Dicono che i delitti vengano consumati perlopiù di notte perché le persone sono più indifese, l’oscurità copre la fuga, il buio alimenta istinti primordiali.

    Niente di più falso… e lo dico a ragion veduta!

    La notte agevola gli omicidi solo perché gli assassini sono essenzialmente persone timide. Parlo degli assassini veri, non certo di quelli occasionali.

    Il male non conosce la paura, esiste di giorno e di notte, non teme l’inferno. Noi sanguinari abituali non ne siamo pervasi. La nostra natura non conosce la differenza tra male e bene.

    Se la nostra società attuale è permeata da profonde ingiustizie e somme iniquità, è perché ancora non è riuscita a comprendere la necessità del male o comunque non ha voluto intendere la sottile linea di confine tra l’illecito punibile e l’illecito necessario. Non sono discorsi filosofici, per carità, ma soltanto l’amara constatazione di quello che appare quotidianamente agli occhi di tutti e che solo in pochi hanno il coraggio di vedere.

    Alle volte sento parlare di azioni contra legem per indicare ciò che è

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