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Archivio Storico della Calabria - Nuova Serie - Numero 5
Archivio Storico della Calabria - Nuova Serie - Numero 5
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Archivio Storico della Calabria - Nuova Serie - Numero 5

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ARCHIVIO STORICO DELLA CALABRIA
NUOVA SERIE
A CURA DI GIOVANNI PITITTO

Direttori
Giovanni Pititto
Saverio Di Bella
Walter Pellegrini

Continuazione dell’Archivio Storico della Calabria,
fondato e diretto da Francesco Pititto e da Hettore Capialbi;
già edito in Mileto (1912 - 1918)

ANNO II
(2013)

Numero doppio (1-2)


SOMMARIO PER PIATTAFORME WEB

SEZIONE I – NAPOLEONICA.
SEZIONE II - REGNO DI NAPOLI E DELLE DUE SICILIE.
SEZIONE III - CALABRIA.
SEZIONE IV - MILETO.
SEZIONE V - MEDITERRANEA.
- ITALIA E SPAGNA
- ITALIA. REPUBBLICA DI GENOVA.
SEZIONE VI - LE ARTI.
SEZIONE VII - CEFALONIA – Divisione “Acqui”.
SEZIONE VIII - I.M.I. (Internati Militari Italiani).
SEZIONE IX - FONTI E BIBLIOGRAFIA.
LanguageItaliano
Release dateApr 15, 2015
ISBN9788868221300
Archivio Storico della Calabria - Nuova Serie - Numero 5

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    Archivio Storico della Calabria - Nuova Serie - Numero 5 - Giovanni Pititto

    ARCHIVIO STORICO DELLA CALABRIA

    NUOVA SERIE

    A CURA DI GIOVANNI PITITTO

    Direttori

    Giovanni Pititto

    Saverio Di Bella

    Walter Pellegrini

    Continuazione dell’Archivio Storico della Calabria,

    fondato e diretto da Francesco Pititto e da Hettore Capialbi;

    già edito in Mileto (1912 - 1918)

    ANNO II

    (2013)

    Numero doppio (1-2)

    Proprietà letteraria riservata

    © by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy

    Pubblicato in forma di Epub in Italia per conto di Pellegrini Editore

    Via De Rada, 67/c - 87100 Cosenza - Tel. 0984 795065 - Fax 0984 792672

    Sito internet: www.pellegrinieditore.com

    E-mail: info@pellegrinieditore.it

    Progetto E-book a cura di Giovanni Pititto.

    Realizzazione E-book / E-pub a cura di Simona Pescatore – supervisione Marta Pellegrini.

    Registrazione C.N.R. - ISSN: 2281-1109

    ISBN: 978-88-6822-130-0

    I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo sono riservati per tutti i Paesi.

    Copertina: Ideazione, progetto grafico e realizzazione di Giovanni Pititto con la collaborazione di Simona Pescatore web designer.

    Dall’alto verso il basso in senso orario:

    B. F. Moll, Sarcofago di Cristina di Brunswick-Wolfenbüttel. Particolare d’angolo, con divinità tutelare dolente1

    A. Comerio, Ritratto di Maria Teresa, imperatrice d’Austria2.

    B. F. Moll, Sarcofago di Cristina di Brunswick-Wolfenbüttel. Particolare d’angolo, con divinità tutelare dolente.

    J. E. Liotard, Maria Antonietta, arciduchessa d’Austria3.

    Napoleone, miniatura4.

    E. Liotard, Maria Carolina, arciduchessa d’Austria5.

    Al centro: G. A. Cacciatore, Orazione Funerale in onore dei Caduti a Mileto nella Battaglia del 1807, pag. 5.

    Referenze fotografiche:

    • Biblioteca Nazionale Braidense, Milano.

    • FMR; rispettivamente: 1996/116: Johann Kräftner; 1993/101: Cabinet des dessins – Musée d’Art et d’Histoire di Ginevra; 1992/90: Danila Garavaglia.

    • Wien, Kirke der Kapuziner am Neuen-Markt, KaiserGruft (KapuzinerGruft).

    1 Balthasar Ferdinand Moll (1717 – 1785), Intervento sul sarcofago di Cristina di Brunswick-Wolfenbüttel (1691-1750), moglie di Carlo VI. Particolare d’angolo, con divinità tutelare dolente. (Wien, Kirke der Kapuziner am Neuen-Markt, KaiserGruft (KapuzinerGruft). (GP)

    2 Agostino Comerio (1784 – 1829), Ritratto di Maria Teresa (1717-1780), imperatrice d’Austria, olio su tela, cm. 206 x 156, Milano, Biblioteca Nazionale Braidense. Si ringrazia la Direzione della Biblioteca Nazionale Braidense per la cortese autorizzazione. (GP)

    Agostino Comerio, nato a Locate (od. Locate Varesino, provincia di Como) il 12 maggio del 1784. Morto il 5 agosto 1834 a Recoaro. Note biografiche a cura di Fernando Mazzocca, in: Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 27 (1982). Ivi: "La sua ultima tela fu il ritratto più grande del vero dell’imperatrice Maria Teresa, per la Biblioteca di Brera, dove è ancora conservato".

    ( http://www.treccani.it/enciclopedia/agostino-comerio_%28Dizionario-Biografico%29/ ) (GP)

    3 Jean-Étienne Liotard, Ritratto di Maria Antonietta, arciduchessa d’Austria; futura regina di Francia (n. Wien, 02.11.1755 – m. Paris, ghigliottinata, 1793), 1762, sanguigna, lavis, matita di grafite, acquarello rosa, velatura rosa su carta vergatina bianca finissima, cm. 31,1 x 24,9. L’assassinio a mero motivo simbolico-ideologico della sorella (non costituiva minaccia militare e neanche politica), apportò in Maria Carolina ancestrali pulsioni così profonde, di odio verso la Francia, i cui esiti sono ben noti. L’improvvida decisione del governo rivoluzionario francese, di inviare quale proprio rappresentante diplomatico alla corte di Napoli proprio chi aveva partecipato attivamente alle deliberazioni di ghigliottinare i reali capetingi-asburgici, non poteva, né può, essere inteso che quale deliberato e consapevole oltraggio, o deliberata e consapevole aperta provocazione. Anche qui, esiti noti.

    J.-É. Liotard, nato a Ginevra il 22 dicembre 1702, ivi morto il 12 giugno 1789. Pittore e miniaturista svizzero. Note biografiche a cura di Jean Jacques Gruber, in: Enciclopedia Italiana (1934) (http://www.treccani.it/enciclopedia/jean-etienne-liotard_(Enciclopedia_Italiana)/) (GP)

    4 "Miniatura donata dall’Imperatore Napoleone al conte Antonio Aldini, ministro del Regno italico ed ambasciatore d’Italia a Parigi. (Cfr. Zanolini, Antonio Aldini e i suoi tempi, Firenze, Le Monnier ). Non è firmata. Fa parte della «Raccolta napoleonica Lumbroso» e proviene dall’antiquario prof. «Tiziano Pagan de Paganis, di Bologna, che l’aveva comperata dagli eredi del conte L. F. Valdrighi, noto raccoglitore modenese". (In Lumbroso, op. cit.).

    5 J.-E. Liotard, Ritratto di Maria Carolina, arciduchessa d’Austria (n. Wien, 1752 – m. ivi, castello di Hetzendorf, 1814), 1762, sanguigna, lavis, matita di grafite, velatura blu pallido sul vestito e grigio sulla tavola; su carta vergatina bianca finissima, cm. 32,3 x 24,8. Ragion di Stato impose ne divenga sposa di Ferdinando IV, re di Napoli. Un particolare protocollo, in capitoli matrimoniali, steso dall’imperatrice Maria Teresa, sottoposto al re di Spagna Carlo, genitore di Ferdinando IV di Napoli, ratificato da tutte le potenze, addiveniva a ben particolare status per la novella sposa Maria Carolina. Regina, sino alla nascita dell’erede maschio; sovrana – con parità di diritti e doveri nella conduzione del Regno – da quella in avanti. Fu sovrana, a pieno titolo, del Regno delle Due Sicilie. Particolari circostanze storiche, come anche personali, comportarono ella si dovesse caricare del pieno e totale e per vari aspetti quasi esclusivo esercizio della regalità. Su come lo esercitò, e per decenni, da decenni vi è ampio dibattito e pubblicistica. Tesi se mai a capire, non già a demonizzare. A tale tendenza, puramente storiografica, se ne sottrae – e da decenni al pari – ben altra pubblicistica; specializzata se mai nella ben nota tendenza delle demonizzazioni a priori , del discorso a tesi precostituite, del giudizio meramente ideologico e non storico. Maria Carolina, sovrana di Napoli, ma ancor prima figlia di tutta una tradizione tedesca, poiché così ella si sentiva, non va né assolta, né demonizzata. Va conosciuta. (GP)

    Sommario

    SEZIONE I - NAPOLEONICA

    MARABELLO. Gaetano Marabello, Quell’uom dal fiero aspetto.

    MASCILLI MIGLIORINI. Luigi Mascilli Migliorini, La battaglia di Maida nella storiografia europea.

    MINERVINO. Mauro F. Minervino, Le mie Esperidi. Gissing e la Calabria tra storia, mito e letteratura.

    NAYMO. Vincenzo Naymo, Appartenenza e senso di fedeltà alla corona nel Regno di Napoli in età spagnola.

    NISTICO’. Ulderico Nisticò, Il regno e il re.

    PELLEGRINO. Carmelo Pellegrino, Gli abusi feudali e le radici popolari della rivoluzione in Calabria.

    PICCOLI. Salvatore Piccoli, La battaglia di Maida del 1806 nel panorama storico e sociale della Calabria.

    PORTA. Adriana Porta, Vecchie e nuove fedeltà. Alla ricerca di un ordine legittimante dopo la Rivoluzione di maggio del 1810.

    RAMONDINO. Filippo Ramondino, Il governo episcopale di Mons. Enrico Capece Minutolo durante il Decennio Francese.

    TRISCHITTA. Domenico Trischitta, La cartografia, il territorio e la battaglia di Maida. (1806).

    APPENDICE I

    NAPOLEONE: Epistolari. (1796, giugno 20 - 1796, luglio 22).

    APPENDICE II

    1896. DAYOT. Armand Dayot, Napoleone nelle opere de’ pittori, degli scultori, degli incisori. - Capitolo I.

    1935. LUMBROSO. Alberto Lumbroso, Napoleone e la sua Corte.- Premessa

    1946. ROBERTI. Melchiorre Roberti, Milano napoleonica (1796 -1814).- Presentazione.

    1971. CIUFFOLETTI. Zeffiro Ciuffoletti, Regno Italico.

    1974. ACCHIAPPATI. Gianfranco Acchiappati, Foscolo a Milano. - Presentazione e Cap. I.

    SEZIONE II: REGNO DI NAPOLI E DELLE DUE SICILIE.

    1454-1494. Fonti Aragonesi.

    1757. Roma. Alberico cardinale Archinto, a Bernardo Tanucci. Su Antonio Raffaello Mengs. E risposta non datata.

    1757. Roma. Antonio Raffael Mengs a Bernardo Tanucci.

    1757. Napoli. Bernardo Tanucci alla Tesoreria di Stato. Antonio Raffaello Mengs.

    1761. Roma. Johan Joachim Winckelmann a Bernardo Tanucci. E risposta non datata.

    1763. Roma. Johan Joachim Winckelmann a Bernardo Tanucci.

    1777. Napoli. Ferdinando IV. Carlo De Marco. Dispaccio reale.

    1799. Napoli. Generale francese, Championnet. Corrispondenza ed atti di governo.

    1802. Napoli. Francesco Seratti, a Leopoldo Salerno, direttore reale armeria.

    1802. Napoli. Marchese del Vasto, maggiordomo maggiore del re, al direttore dell’armeria reale di Salerno.

    1812. Palermo. Ferdinando, re. Potestà vicario generale Regno di Sicilia figlio Francesco, erede e successore. Atti e carteggi.

    1950. FILANGIERI. Riccardo Filangieri, Relazione su acquisto Archivio di Casa Borbone.

    1963. MAZZOLENI. Jole Mazzoleni, ASN. Quinternioni.

    1970. BARLOZZINI. Guido Barlozzini, Vita civile a Napoli alla fine del ‘700.

    1973. Il complesso architettonico S. Leucio-Vaccheria: alcune note urbanistiche e di lettura ambientale.

    1974. DELOGU. 1974. Paolo Delogu. Centro Archeologia Medievale Università Salerno. Statuto.

    1979. SPINOZA. Nicola Spinosa, Ricerca archivistica e studi arti figurative a Napoli nel Settecento.

    1993. MARTULLO APPAGO. Maria Antonietta Martullo Arpago, Principato Citeriore tra Antico Regime e Conquista Francese.

    1994. Messina. Restauro pergamene Fondo Messina.

    1995. DELLE DONNE. Fulvio delle Donne, Pietro da Eboli, Liber ad honorem Augusti.

    2000. ENZENSBERGER. Horst Enzensberger, Greci nel Regno di Sicilia.

    2001. DELL’ACQUA. Francesca Dell’Acqua, Vetro nell’Architettura Italiana Meridionale (VIII-XII sec.)

    2002. SPADACCINI. Rossana Spadaccini. Museo storico Grande Archivio di Napoli.

    2003. SPACCUCCI – CURCI. Felice Spaccucci, Giuseppe Curci, Arcidiocesi di Trani.

    2008. VERDILE. Nadia Verdile, Ferdinando IV di Borbone. Lettere da Caserta a Maria Carolina (1788-1789). Serie 2 (Da 12 ottobre a 18 ottobre 1788).

    SEZIONE III: CALABRIA.

    1659. Terremoto 1659.

    1902. TACCONE-GALLUCCI. Domenico Taccone-Gallucci, Calabria. Regesti romani pontefici.

    Prefazione

    1974. RUSSO. Francesco Russo, Calabri. Regesto Vaticano.

    Introduzione. Fonti. Repertori.

    1999. MONTESANTI. Antonio Montesanti, Tra Mare e Terra.

    Cap. V. Porto di Bivona.

    2007. TRIPODI. Antonio Tripodi, Monteleonese. Arte.

    2012. CARACCIOLO. Antonio Caracciolo, Seminara.

    2012. ROMANO. Corrado Romano(a cura di), Parlamenti Terre San Calogero e Calimera.

    SEZIONE IV: MILETO.

    1581-1795. Abbazia SS.ma Trinità di Mileto. Documenti. Schede trascrittive a cura di Giovanni Pititto.

    1588. DEL TUFO. Marc’Antonio Del Tufo, SINODO DIOCESANA… - II. Del Sacramento della confirmazione. - § Capitoli I-IX

    1762. CIMAGLIA. Natale Maria Cimaglia, Della natura e sorte della badia della SS. Trinità e S. Angelo di Mileto, Napoli, 1762. - PARTE I – CAP. III. Si dimostra contenervi nel diploma errori di dritto, e di fatto, i quali dal conte Ruggieri commetter per alcun patto mai si potevano.

    1769. CARAFA. Giuseppe Maria Carafa (vescovo di Mileto), Difesa del vescovo di Mileto… - CAP. V. In cui dal silenzio de’ scrittori contemporanei si rileva non aver il conte fondato alcun monastero in Mileto… - § I-XXI.

    1898. Nicola Tavella, Beni e rendite parrocchia SS.Trinità.

    1902. TACCONE. Domenico Taccone-Gallucci, Episcopato di Mileto.

    1950. LAURENT. M. H. Laurent. Per un bollario dell’abbazia di Mileto. - Regesti I-X.

    1959. MENAGER. L. R. Menager, L’abbaye bènèdectine de la Trinitè de Mileto, in Calabre, à l’èpoque normande.

    1995. PITITTO. Giovanni Pititto (a cura di), Materiali per uno Stato Civile Antico di Mileto. 1596 - 1783. - Serie 2: Demografia. Nascite: 1603-1674.

    1998. TACCHELLA. Lorenzo Tacchella, Visite Ad Limina Apostolorum Diocesi di Mileto.

    2001. FRANCOLINI - PITITTO - GIAMPAGLIA. Abbazia di San Michele Arcangelo e della SS.ma Trinità di Mileto. Fonti. Diplomatico. Regesti. Baldassarre Francolini (S.I.), Pontificio Collegio Greco di Sant’Atanasio, Roma, Archivio, Sezione Mileto, ms. 046 (1763). Index diplomatum seu monumentorum quae asservantur in tabulario Collegii Graecorum de Urbe. (Prima parte) Schede trascrittive ed elaborazioni dati a cura di Giovanni Pititto. Traduzione e revisione dei testi latini a cura di Amedeo Giampaglia. 2001.

    Pubblicati in questo Numero:

    • 1216. Roberto di Say. Giudicato e donazione.

    • 1221. Transunti di vari atti donativi.

    • 1250. Beni in territorio di Vibona; idem (1251) in territorio di Milazzo.

    • 1257. Chiesa di S. Croce presso Gerace.

    • 1255. Monastero S. Nicodemo di Mammola.

    • 1255. Borghi di Castellaro, Larzona, S. Gregorio, Vibona. Giurisdizione.

    • 1267. Monastero S. Nicodemo di Gruttaria.

    2007. ROMANO. Corrado Romano, Protocolli curiali.

    LABORATORIO - Appendice filologica.

    2003. MAZZEO. Mimmo Mazzeo, Parola Mia.

    SEZIONE V: MEDITERRANEA

    Italia e Spagna

    CAMPANELLA. Tommaso Campanella, La Monarchia di Spagna.

    ITALIA. REPUBBLICA DI GENOVA.

    1548. Li grandissimi Apparati Triomfi (et) Feste fatti nella Città di Genova per la Entrata del Serenissimo Principe di Spagna.

    1589, aprile 22. Genova. La sontuosissima e pomposa entrata della serenissima granduchessa di Toscana, nell’inclita città di Genova.

    1862. Oneglia, Comune di. Riedizione Vincenzo Canepa opera di Lorenzo Capelloni su Andrea Doria.

    2002. STAGNO. Laura Stagno, Sovrani spagnoli a Genova: entrate trionfali ed hospitaggi in casa Doria.

    2004. FARINELLA. Calogero Farinella, Il «genio della libertà». Società e politica a Genova dalla Repubblica Ligure alla fine dell’impero napoleonico

    SEZIONE VI: LE ARTI.

    1921. ANNONI. Ambrogio Annoni, Cappella de’ Polentani nella chiesa di S. Francesco di Ravenna.

    1935. ROSSI DE PAOLI. Paolo Rossi De Paoli, Isolamento Augustéo - Roma.

    1952. DUCATI. Pericle Ducati, Arte Classica – Cronistoria Archeologica. - Prima parte: 1401-1899.

    1956. CAMESASCA. Ettore Camesasca (a cura di), Raffaello Sanzio. Scritti.

    1973. INSOLERA. Italo Insolera, Ventennio dei grandi sventramenti.

    1976. BOTTARI. M. G. Bottari, Lettere su pittura, scultura ed architettura scritte da’ celebri personaggi. - Il Tipografo e gli Editori.

    1984. GINESI. Armando Ginesi. XLI Biennale Internazionale d’Arte - Venezia - Padiglione San Marino.

    1995. THEA. Paolo Thea, Sigilli.

    1999. NOCENTINI. Giovanni Nocentini, L’Amore proibito di Cosima Liszt.

    APPENDICE I - LABORATORIO

    2011. Parzifal. Omaggio a Ruth Orkin. Foto di Andreina Baj, Giovanni Pititto, Gabriele Zucchella.

    APPENDICE II – NARRATIVA

    2011. VENTURINI. Francesco Venturini, Il Fiume (Racconto). § IV La strada - § V La spiaggia - § VI La foresta.

    APPENDICE III - APPARATI FILOLOGICI

    2003. PITITTO. Giovanni Pititto (a cura di), Beni Culturali. Politica e Legislazione in materia di Tutela nell’Italia Pre-Unitaria.

    SEZIONE VII: CEFALONIA – Divisione Acqui.

    1945. TRIARIUS, Settembre 43. La Tragedia di Cefalonia.

    2003. PAOLETTI. Paolo Paoletti, La vicenda della Divisione Acqui 1943-1944.

    2003. SARDI. Giulio Sardi, Anche Cefalonia - come la Resistenza.

    2005. BATTIFORA. Paolo Battifora. Cefalonia ’43: una tragedia che fa ancora discutere.

    2005. SCHREIBER. Gerhard Schreiber, "Prigionieri non se ne fecero".

    2006. CARUSO. Alfio Caruso, Cefalonia un anno dopo.

    2007. CARIOTI. Antonio Carioti, Cefalonia, gli italiani non tradirono.

    2009. DE DONNO. Luciano De Donno, Spedizione Subacquea Italiana a Cefalonia.

    2009. Cefalonia, i 720 morti della nave Ardena.

    2012. LOCATELLI. Angelo Locatelli, Naufragio nave Ardèna.

    2012. Roma (19 ottobre 2012). Rinvio a giudizio Stork.

    Italia. 1943 - 1945. Cefalonia. Divisione Acqui.

    SEZIONE VIII: I.M.I. (Internati Militari Italiani)

    2003. DE CARO. Marcello De Caro, Internati Militari Italiani tra Memoria, Rimozione, Oblio.

    2012. MANDARANO – ZAMBONI. Davide Mandarano – Roberto Zamboni (a cura di). Gli I.M.I. della Basilicata deceduti e sepolti nei territori del Reich. Elaborazione dati da R. Zamboni (Dimenticati di Stato)e schede introduttive a cura di D. Mandarano.

    BASILICATA

    2012. ZAMBONI. Roberto Zamboni, Dimenticati di Stato. Elenchi onomastici I.M.I. d’Italia: Gli I.M.I. della Basilicata deceduti e sepolti nei territori del Reich.

    BASILICATA

    SEZIONE IX: FONTI E BIBLIOGRAFIA

    ***

    INDICE

    SEZIONE I - NAPOLEONICA

    MARABELLO. Gaetano Marabello, Quell’uom dal fiero aspetto. (Maida, 153-155).

    ||153|| Se c’è un personaggio del nostro Sud che gode addirittura di una fama mondiale a duecento anni dalla morte, questi è il colonnello Michele Pezza meglio noto come Fra’ Diavolo. Probabilmente la leggenda nera, che accompagna nell’immaginario collettivo le sue imprese, è legata proprio a quello strano soprannome di battaglia che suonò come un incubo alle orecchie di ogni soldato francese calato in Italia tra la fine del Settecento e i primi anni dell’Ottocento. Hanno tuttavia contribuito a distorcere la sua figura anche altri elementi. Uno è che, nel tempo, si sono impossessate di lui una miriade di artisti e musicisti e in ultimo la cinematografia, con la conseguenza di farne una specie di avventuriero dedito a circuire qualche avvenente viaggiatrice tra una rapina e l’altra. Un’altra ragione può rinvenirsi in una storiografia faziosa, erede della propaganda filo-giacobina interessata a dipingerlo a fosche tinte: essa ce l’ha tramandato come un brigante sanguinario reo dei peggiori misfatti. La sua vicenda umana ci racconta invece ben altra verità. Ed è giusto qui ricordarla, approssimandosi il bicentenario dell’ingiusta impiccagione che a soli 35 anni pose fine alla sua carriera d’indomito guerrigliero legittimista. Nacque ad Itri il 7 aprile 1771, come secondogenito di una nidiata di dodici figli. Il suo nome di battesimo Michele Arcangelo si arricchì presto, divenendo Fra’ Michele per via del saio francescano che gli fecero indossare da piccolo, secondo l’usanza di una volta che in tal modo voleva proteggere i miracolati da qualche malattia grave. In seguito, anche questo nomignolo subì una trasformazione in quello con cui è passato alla storia, perché venne definito per celia Fra’ Diavolo dal canonico Nicola De Fabritiis, che non ne poteva più delle sue marachelle. Aveva un carattere generosissimo, ma irascibile, sicché possono essere verisimili le versioni che lo dipingono come responsabile di un duplice omicidio, commesso per legittima difesa in una rissa o per salvare l’onore di una fanciulla oltraggiata. Dovette darsi alla latitanza e probabilmente trovò rifugio presso il barone di Roccaguglielmina o da alcuni amici a Sonnino. Il 20 gennaio 1798, la grazia sovrana gli commutò in 13 anni di servizio nel corpo dei fucilieri di montagna la pena che gli era stata inflitta. In tale veste, allorché ||154|| scoppiarono le ostilità con la Francia, egli si trovò coinvolto nella ritirata delle truppe napoletane giunte in un primo momento a Roma. Però, mentre tutti fuggivano, questo indomito fegataccio decise di trincerarsi con un gruppo di volontari nel fortino di S. Andrea, nel bel mezzo di una stretta gola nei pressi del suo paese natale. Tra quei monti si muoveva a meraviglia e ben presto gli invasori si trovarono esposti alla sua micidiale ed inedita tattica che era fatta di fulminei colpi di mano e di altrettanto subitanee scomparse. Logorato da una guerriglia cui non era avvezzo ed infuriato per gli smacchi continui, alla fine il nemico si sfogò saccheggiando Itri. Tra le decine di innocenti massacrati finì anche il padre di Fra’ Diavolo, il quale sembra abbia giurato sulla sua tomba di non dare più quartiere ai responsabili. Sobillò allora tutti i paesi intorno a Gaeta, tagliando di fatto le comunicazioni nemiche da Terracina a Capua. Emulando la mitica Primula Rossa, riusciva a comparire all’improvviso dove meno lo si aspettava. Distruggeva distaccamenti isolati, catturava corrieri, tagliava ponti, occupava paesi e poi spariva, alimentando così le più svariate voci sulla sua inafferrabilità. L’eco delle sue gesta preoccupò la Francia ed entusiasmò non solo la corte borbonica rifugiatasi in Sicilia, ma gli stessi inglesi, Nelson in testa. Nella successiva marcia del cardinale Ruffo verso Napoli, Fra’ Diavolo passò prima sotto il comando del duca di Roccaromana e guidò poi l’ala sinistra dell’esercito nel successivo inseguimento dei francesi fino a Roma. Liberò Velletri dall’incubo del sacco nemico ed evitò la stessa sorte a Marino ed Albano. Inevitabilmente, nell’avanzata alcuni dei suoi si lasciarono andare a qualche eccesso, del quale egli fu chiamato a rispondere come loro comandante. Finito addirittura a Castel S. Angelo per aver sottoposto ad un’asserita ingiusta confisca i beni di alcuni paesani in beneficio della truppa, evase dopo un paio di giorni. Comunque, le accuse, già di per sé gonfiate in vista di un risarcimento più pingue, erano state alimentate dalle gelosie di qualche alto ufficiale, sicché in seguito caddero per l’intervento reale. Pur avendo ottenuto la nomina a colonnello, egli visse gli anni seguenti angustiato dai creditori, coi quali s’era impegnato personalmente per le forniture ai suoi uomini durante la guerriglia, e finì per rimetterci gran parte del suo patrimonio per non venir meno alla parola data. Quando di lì a poco si verificò la seconda invasione napoleonica del Regno di Napoli, Fra’ Diavolo fu tra i primi capimassa a rispondere all’appello del suo sovrano. Lasciata la giovane moglie, tornò a combattere come sapeva tormentando ai fianchi i francesi impegnati nell’estenuante assedio di Gaeta. Richiamato poi a Palermo, partecipò alla spedizione della flotta inglese nel golfo di S. Eufemia del luglio 1806. Mentre risulta che galvanizzò i difensori di Amantea, non trova riscontro la versione che, dandolo presente pure a Maida, gli attribuisce il merito di aver spinto l’incerto generale Stuart ad attaccare vittoriosamente battaglia. Nel successivo intento di colpire le retrovie del Massena, che scendeva in forze sitibondo di vendetta, provò a collegarsi con la resistenza delle Marche e degli Abruzzi, armando le ||155|| masse di Terra di Lavoro. Il tentativo fallì perché alcuni capimassa erano stati intanto indotti a saltare il fosso dai francesi. Costretto a tornare ad Itri, venne attaccato dalle truppe transalpine e dopo strenua lotta dovette ritirarsi tra i monti. Da allora la sua Legione della vendetta venne braccata da ogni parte, perdendo gradualmente i suoi effettivi. La fortuna ormai aveva voltato decisamente pagina perché Fra’ Diavolo non riuscì a difendere neanche Sora, che aveva fortificato e che dovette cedere dopo tre furiosi assalti nemici. Da ultimo, essendogli stato messo alle calcagna il trentatreene maggiore Sigisbert Hugo, padre del famoso Victor, che non gli dette tregua pur essendo stato più volte da lui beffato, egli rimase del tutto isolato dai compagni. Sul suo capo fu pure messa una fortissima taglia. Provò allora ad imbarcarsi ad Amalfi, ma non vi riuscì essendo ormai braccato come un lupo. Costretto ad allontanarsi sempre più dai luoghi a lui noti, vagò per giorni nelle zone più impervie finché, ormai disarmato e scalzo, venne arrestato a Baronissi per la delazione del farmacista cui s’era rivolto per una ferita. Condotto trionfalmente a Napoli, subì un processo sommario, che in due ore lo condannò a morte negandogli vergognosamente la qualifica di combattente assicuratagli dal grado di colonnello. La sete di rivincita dei fratelli Bonaparte non poteva infatti perdonargli i tanti scacchi subiti. E così, alle ore 13 dell’11 novembre 1806, il più grande guerrigliero del Regno di Napoli dovette subire a piazza Mercato addirittura l’oltraggio della forca, che si riservava ai comuni criminali. Orgogliosamente poco prima aveva respinto l’offensiva proposta di vendersi al nemico.

    MASCILLI MIGLIORINI. Luigi Mascilli Migliorini, La battaglia di Maida nella storiografia europea. (Maida, 295-296).

    ||295|| In un tempo nel quale le immagini rovesciano quotidianamente su spettatori perplessi o assuefatti i drammi della democrazia esportata, può persino tornare d’attualità la lontana battaglia di Maida nella quale, duecento anni fa, giusto il 6 luglio 1806, l’impero trionfante di allora (quello di Napoleone) si trovò di fronte l’inattesa e vittoriosa resistenza delle popolazioni locali (ed allora si trattava dei contadini calabresi). Le montagne che circondano Maida non apparivano del resto ai soldati napoleonici meno minacciose di quanto possano oggi apparire le vette dell’Afghanistan, e la solitudine bruciante di quei luoghi può, a due secoli di distanza, facilmente accostarsi alle poco ospitali regioni dell’Iraq odierno. Persino il meccanismo degli equilibri internazionali aiuta il gioco, certamente un po’ facile ma non infondato, delle comparazioni. Perché se è vero che l’ostilità delle popolazioni fu un fattore decisivo nell’infliggere una umiliante sconfitta ad armate che fino a quel momento avevano spadroneggiato in mezza Europa, è altrettanto vero che senza l’appoggio che l’Inghilterra, acerrima nemica della Francia napoleonica, si affrettò a prestare agli insorti delle Calabrie non ci troveremmo qui oggi a concordare con chi, tra gli storici di questi due secoli, ha visto nella battaglia di Maida un tornante decisivo della storia dell’Europa napoleonica e della parte che in essa recitò l’Italia meridionale. Fu, anzi, la nuova strategia adottata dagli inglesi a decidere le sorti della battaglia. Mentre le truppe francesi avanzavano in ordine serrato, pronte a sferrare le linee avversarie quasi per l’effetto stesso del loro procedere compatto, gli inglesi usarono la precisione del tiro di fanteria per seminare il panico e mettere rapidamente in fuga il nemico. Lo scontro fu brevissimo: si cominciò a combattere alle nove del mattino e alle undici tutto era già finito, ma quel modello di comportamento sperimentato per la prima volta a Maida divenne poi a Waterloo la chiave di volta del successo di Wellinghton. L’ombra gigantesca di Waterloo si allunga, dunque, sulla piccola Maida, così come su di essa si proietta l’ombra della Spagna, della resistenza accanita ||296|| che gli spagnoli opposero qualche anno dopo a quello stesso Giuseppe Bonaparte che dal trono di Napoli si trasferiva su quello di Madrid e che ad essi, come già ai calabresi, apparve nelle vesti dell’invasore piuttosto che in quelle del liberatore. A Maida, d’altronde, è ancora solo il dubbio di una periferia lontana quello che in Spagna diventa un interrogativo conclamato e drammatico: che rapporto c’è tra la libertà e la democrazia, nate dalla Grande Rivoluzione di Francia e la loro esportazione sulla punta delle baionette della Repubblica e dell’Impero?

    Il fronte mediterraneo nell’età napoleonica, che è il titolo del convegno in programma oggi e domani a Maida per ricordare il bicentenario di quell’episodio militare, vuol dire esattamente questo, e forse anche di più. L’incontro con lo spazio mediterraneo, con le sue stratificazioni antropologiche e sociali, fa esplodere in maniera inattesa quel legame libertà-modernità che l’Illuminismo e la Rivoluzione avevano stretto con fedele, forse ingenua, sicurezza. Chi, tra i liberatori (o conquistatori) si aggira tra le vie del Cairo nei giorni della campagna d’Egitto, nelle campagna calabresi, nei giorni di Maida, tra i villaggi spagnoli più tardi ancora, racconta tutto lo smarrimento, l’orrore talvolta, della scoperta di un mondo in cui libertà e modernità si declinano, se mai si declinano, con parole estranee ed ostili. E nello stesso tempo questo spazio mediterraneo si sta trasformando sotto i loro occhi nel centro di un mondo nuovo che non è più quello della scoperta dell’America ma è già quello che ha al proprio orizzonte l’apertura del canale di Suez. Lo sanno bene gli inglesi che, inseguendo Napoleone, conquistano l’Egitto, occupano Malta, sbarcano nel luglio 1806 in Calabria, per ricordare all’Imperatore che il Mediterraneo non potrà mai essere un lago francese e per ricordare a noi, duecento anni dopo, quanto il nostro Mezzogiorno sia figlio di quelle antiche resistenze e di quei modernissimi contesti internazionali.

    MINERVINO. Mauro F. Minervino, Le mie Esperidi. Gissing e la Calabria tra storia, mito e letteratura. (Maida, 62-80).

    Notizie e origine storica della toponomastica di Maida Vale e Maida Hill, Maida Avenue (vicino Abbey Road)

    The origin of the name Maida is bizarre. The British fought a victorious battle in Maida, Italy in 1806, a pub called The Hero of Maida Vale opened on the Edgware Road, and the name caught on in a big way. Maida Vale is a road in north-west London, and a district surrounding it. The road starts in Kilburn, near Kilburn High Road station as a continuation of Kilburn High Road. It goes south-east, past Maida Vale tube station, through the district known as Maida Vale. To the east is St John’s Wood and Lord’s Cricket Ground. When it meets St. John’s Wood Road, Maida Vale becomes the Edgware Road. The district acquired its name from the Hero of Maida, a public house which opened on the Edgware Road soon after the Battle of Maida, 1806. The area is mostly residential, consisting of many large Edwardian Mansion Houses. It encompasses the Paddington basin, a junction of three canals with many houseboats. This area is also known as Little Venice. In the late 19th and early 20th centuries, Maida Vale was a predominantly Jewish district, and the area contains the 1896 Spanish & Portuguese Synagogue (a Grade 2 listed building). Maida Vale is also home to a BBC Recording and Broadcast Studio, used primarily by BBC Radio 1. The studio was also home to John Peel’s Peel Sessions, a regular slot in which a current popular band would play a set exclusively for the show. The BBC Radiophonic Workshop was based here from 1958 until the Workshop was shut down in 1998. Their pioneering Delaware synthesiser took its name from the studio’s Delaware Road address.

    ||63|| Maida Vale tube station was opened on 1915 June 06, on the Bakerloo Line History - A background W9 has always been a postcode that was set out to impress the rest of London. It covers West Kilburn, Little Venice, Maida Hill and Maida Vale. The name ‘Maida’ has its origins in Italy, as apparently the British won a battle in Maida, Italy in 1806 and a pub opened shortly after on the Edgware Road called The Hero of Maida Vale. The name caught the public’s imagination at the time and the area was soon to be called Maida Vale, although whether after the battle or after a good ale house is anyone’s guess! In the 1840’s, the developers of the time cast their eye towards where Warwick Avenue crosses the Grand Union Canal. They continued the Italian theme by naming the area Little Venice, where the canal dictated the mood of the houses and waterways that this area is now famous for. Picturesque houseboats and grand Victorian properties compliment this area, and the exclusive restaurants, boutiques and bars are only to be expected. The Church Comissioners, who owned all the land, and rented the properties, preserved W9 in its air of genteel respectability. Indeed it was only in the 1980’s that properties started coming onto the market and being broken down into flats and apartments. You can tell the Commissioners did not extend their protection to West Kilburn, which has a completely different style from Maida Vale. It used to be a haven for squatters, but now has come a long way from its murky reputation in the 1970’s. As was considered such an affluent area with each house having ample garden space or access to a communal square - there never was felt a need to create an open air park. The closest is Paddington Recreation Ground to the North.

    Memoria delle Esperidi. Alcune ricorrenze calabresi nella letteratura di George Gissing

    Citazioni da opere (ingl.)

    New Grub Street, cap IV

    Nell’appartamento sottostante risiedeva un musicista di successo la cui carrozza tirata da una pariglia giungeva puntuale ogni pomeriggio per portare lui e la moglie a fare una rispettabile passeggiata… E in quanto al fatto di vivere ||64|| re all’ultímo piano, c’erano dei grandi vantaggi, come molte persone di scarsi mezzi si affrettano oggigiorno a scoprire. A quell’altezza, il rumore della strada diminuiva; nessuno poteva camminarti sulla testa; l’aria era sicuramente più pura che ai piani inferiori; infine, sopra, c’era il tetto piatto sul quale sedersi o spaziare con lo sguardo quando c’era il sole. Era vero che là all’aperto una gentile pioggerella di sudiciume era solita interferire con il benessere, ma tali minuzie si dimenticano facilmente nel fervore della descrizione dell’appartamento. Necessariamente, Edwin Reardon usava come studio la stanza in facciata. La scrivania era posizionata sotto la finestra; ciascuna parete aveva mensole affollate di letteratura. Era innegabile che nelle belle giornate fosse piacevole godersi da lassù i vasti panorami della grande Londra. Il crinale verde da Hampstead a Highgate, con Primrose Hill e le fronde degli alberi di Regent’s Park in primo piano; poi gli spazi periferici di St John’s Wood e Maida Vale, Kilburn; l’abbazia di Westminster e il Parlamento, bassi accanto al fiume invisibile, e un bagliore vitreo sulle distanti colline a indicare il Crystal Palace; poi la maestà confusa dei quartieri orientali, incoronati dalla cupola di Sant Paul… Il tramonto spesso offriva grandi effetti…"

    Vino di Calabria

    Nel 1901, George Gissing in By the Jonian sea scrive: Ricordo solo come cosa in pieno degna dell’antica Sibari un vino bianco, gradevole al palato, chiamato moscato di Saracena.

    The Emancipated cap I

    Melancholy brooded upon land and sea; the hills of Calabria, yesterday so blue and clear, had vanished like a sunny hope. The morrow revealed them again. But again for Mallard there had passed a night of much misery. …

    The Emancipated cap 3

    Also the vino di Calabria, which is villanously sweet. Show us what point of view you chose." For an hour they walked and talked. Miriam alone was almost silent, but she paid constant attention to the ruins. …

    In Three Letters to November 6th

    great hurry to get into Calabria, before much snow falls on the mountains. I stop at. Naples, to see, if possible, Marion Crawford, who may be able to give me useful advice. The only safe address for the next few weeks will be Poste…

    Experiment in Autobiography: Discoveries and Conclusions of a Very …

    This poor vexed brain – so competent for learning and aesthetic reception, so

    ||65|| incompetent, so impulsive and weakly yielding under the real stresses of life – went on from us into Calabria and produced there By the Ionian Sea and …

    By the Ionian Sea

    The views are magnificent, whether one looks down the valley to the leafy shore, or, in an opposite direction, up to the grand heights which, at this narrowest point of Calabria, separate the Ionian from the Tyrrhene Sea. …

    The Private Papers of Henry Ryecroft (Autumn)

    Vino di Calabria, he answered, and what a glow in the name! There I drank it, seated against the column of Poseidon’s temple. There I drank it, my feet resting on acanthus, my eyes wandering from sea to mountain, or peering at little…

    Sleeping Fires

    By sunny-golden sands of Calabria, where yet linger the Hellenic names; northward through rugged mountains, to Salerno throned above her azure bay; by the vine-clad slopes of Vesuvius, by the dead city of the menaced shore…

    Un maledetto inglese

    «Hai mai letto qualcosa di George Gissing?, chiese Mifflin. Titania si volse con un gesto patetico verso la signora Mifflin. – È terribilmente imbarazzante sentirsi fare certe domande! No, non l’ho mai sentito nominare. – Ebbene, siccome la strada in cui abitiamo prende il nome da lui, penso che lei dovrebbe conoscerlo, disse Roger. Mifflin estrasse la sua copia di La casa delle ragnatele. Le leggerò un racconto breve, che è fra i più deliziosi che io conosca». Christopher Morley, La Libreria stregata, 1948

    Mr. Paparazzo, I presume

    Prologo. Certe volte un destino curioso e imprevedibile riesce a legare insieme un giro di figure. Personaggi improbabili eppure fatidicamente veri. C’entra la letteratura, ma c’entra anche la vita. Il tempo poi rimette in fila i personaggi, scrive per loro un copione segnato da fatalità minime, eppure eccezionali. Così un arcano minore fatto solo di parole prende forma dal mazzo delle coincidenze. Rigirati in vita dalle dita di una chiromante, le carte figurate si ritrovano così una dietro l’altra: prima il ritratto ingiallito di un romanziere vittoriano; segue un comico e ossequioso albergatore di Catanzaro. Due figure di un lontano fine secolo, entrambe ferme alla Calabria del 1897.

    Poi dentro questa sciarada, dopo ||66|| un salto in avanti di oltre mezzo secolo, compare il nostro regista più immaginifico e stralunato, Federico Fellini. Accanto a lui Ennio Flaiano, suo sodale e sceneggiatore in uno dei film più famosi del secolo, La dolce vita. Non basta. Ci sono altri comprimari e comparse, personaggi minori, in questa stramba enigmistica. Faremo altri nomi più avanti. Le scene principali si girano tra Roma e la Calabria. Il set è tutto il mondo, il finale a Parigi, durante la notte fra il 30 e il 31 agosto del 1997. Sotto i lampi dei fotografi e gli scatti più glamour e sventurati di questo fine millennio si conclude l’infelice favola moderna di una principessa da copertina, Lady D, che sempre sotto i flash dei fotografi aveva vissuto e bruciato ogni istante della sua vita controversa. Inglese e ribelle, si era detto di Lady D, la principessa del Galles, all’indomani della sua epica morte mediatica; un’icona di fine millennio. Ripartiamo da quest’ultima istantanea. Cent’anni e un filo rosso tengono uniti i fatti, le figure e i personaggi che abbiamo qui ricapitolati. Nelle immagini degli ultimi istanti ci sono loro, proprio loro, i paparazzi, osservatori partecipanti della fine di Lady D. Ancora un passo indietro, verso il punto d’origine di questo rebus che unisce personaggi incatenati a un disegno di figure, a trame di parole. Tutto comincia da uno scrittore e da un libro, dal racconto di un viaggio, dall’Italia del Sud, dalla Calabria di fine ’800. O ggi Gissing è un narratore ritrovato, uno che ha ispirato la cupa saga di K.W. Jeter, l’autore di Blade Runner e uno straordinario scrittore di atmosfere londinesi come Peter Ackroyd (London, The Biography).

    Negli abissi di Londra per cominciare.

    Inglese e ribelle era pure George Gissing, romanziere di scarsa fama vissuto cent’anni fa (1857-1903). Chi era? «Uno scrittore nato. Davanti ai suoi romanzi proviamo una sensazione di sgomento e di commozione». Così una giovanissima Virginia Woolf, che per pura ammirazione e senza ottenere molto ascolto, per prima ne tentò in patria la riabilitazione postuma già a partire dal 1912. Non esagerava, e non era l’unica a pensarla così. Il suo amico E. M. Forster si ispirò proprio a una novella di Gissing, di ambientazione italiana, The Emancipated, copiandone il plot e il carattere panico dei due giovani protagonisti, ‘resuscitati’ dalla metamorfosi erotico- amorosa di un vivificante viaggio nel golfo di Sorrento, per scrivere il suo ben più celebre Camera con vista. George O rwell a sua volta affermava che «l’Inghilterra ha avuto pochissimi romanzieri migliori di George Gissing», aggiungendo anche che «uno scrittore come lui non può essere giudicato per gli errori della sua vita». La biografia di Gissing è infatti già romanzo. Il romanzo di un maledetto inglese. Genio letterario precocissimo, già a 19 anni Gorge rovina irreparabilmente carriera e reputazione vivendo da dandy. «Pazzo per le donne» e «innamorato cronico», frequentatore di bordelli e di ragazze da caffèconcerto, finisce in carcere dopo aver rubato denaro dagli armadi dell’Owens College, di cui era l’allievo più brillante, per mantenere una giovanissima prostituta, che diventerà la prima delle sue tre mogli. Sconterà una condanna ai lavori forzati e l’ignominia dell’espulsione dal college. E’ l’inizio di tutti suoi ||67|| guai. Più tardi il nome di Gissing, abituale frequentatore di prostitute, rientra nel giro torbido dei delitti di Withechapel, tra i figuri sospettati di essere Jack lo Squartatore. Decisamente non aveva buona fama George Gissing a casa sua. Protosocialista e anarcoide, disprezzato in vita per i suoi romanzi di un realismo scandaloso e «grandiosamente nichilista», autore di una scrittura intessuta di «una tristezza lucida, fredda e selvaggia», Gissing fu tra i pochissimi testimoni dal vero di quell’Inghilterra che si nascondeva a se stessa. Nella reputazione dei suoi connazionali ebbe il torto, sottolineato dalla Woolf, di essere «un uomo che sapeva come dire la verità». In un’epoca di ipocrisie colossali la penna di Gissing violò ben tre tabù: sex, money and class. Fu un critico spietato del capitalismo, della gretta mediocrità sessuofoba e piccolo borghese che accompagnava i trionfi dell’impero e i rigori del convenzionalismo vittoriano nella sua patria britannica. La gran parte dei suoi romanzi racconta le miserie dello sfruttamento e lo squallore che affligge il sottomondo di un’umanità che vive allo sbando, nei recessi più oscuri delle periferie e nei sordidi bassifondi dell’East End londinese. I suoi personaggi sono spesso giovani scrittori e intellettuali marginali che nella grande metropoli lottano disperatamente contro la miseria che ne avvilisce l’ingegno con avversità esorbitanti, costringendoli a logorare le loro qualità migliori in una fatica oscura e irredenta. La sua grande Londra è una Babilonia moderna, metropoli mefitica e abissale, nebbiosa e intrisa di amarezze, «un’enorme bestia ruggente, sorta di mostro oceanico, città compendio di tutti i mali dei tempi moderni». Un enorme labirinto nei cui meandri oscuri lo stesso Gissing sprofondò e malvisse nei suoi anni più bui in compagnia di una folla di vinti, «uomini e donne reietti e deviati dalle contrarietà ». Grande e antipatico Gissing, personalità anarcoide e unclassed. Gissing era troppo snob e sfigato per piacere al pubblico di bocca buona delle gazzette popolari e al common reader del romanzo di buoni sentimenti in tre tomi in voga ai suoi tempi: «Se oggi la carta non fosse un articolo tanto diffuso, la gente non sarebbe così tentata di scribacchiare. L’istruzione, i vostri collegi, la vostra stampa popolare, la vostra diffusione della cultura. Tutto un maledetto imbroglio», fa dire a uno dei suoi sgradevoli personaggi in New Grub Street, il romanzo più immerso nella sua sofferta autobiografia letteraria. New Grub Street, uscito nel 1891 (ora pubblicato dall’editore Fazi in una datata e non impeccabile traduzione italiana di Chiara Vatteroni, introduzione di Benedetta Bini, pp. 617, E. 22), subisce le suggestioni di quella prosa spesso fluviale, che Gissing come pochi altri seppe però rivolgere con un realismo urticante alle urgenze del proprio tempo. In New Grub Street c’è la spietata descrizione della nascente industria culturale. Le repulsive fattezze della vita ordinaria di giovani scrittori, forzati della penna presi nell’ingranaggio oscuro del lavoro editoriale, tra tuguri e soffitte malsane dell’East End. Storie materiali di matrimoni e di scrittori in carriera. Uomini e donne che fanno i conti con i soldi, il sesso e la conquista di uno status attraverso la letteratura. All’opposto di questo bruto ||68|| realismo sta la visionarietà febbrile di Gissing. Scrittore del Nord, giovane colto e spiantato che, oltre gli slums del East End, proietta il sogno impossibile di una fuga da quella realtà sordida e opprimente. Un viaggio felice verso la bellezza, il tuffo in una classicità mediterranea e antimoderna, ormai inattingibile. Sarà questo il tono inimitabile di Gissing in un capolavoro della letteratura del viaggio al Sud a noi più vicino, quel Sulle rive dello Ionio che fu letto e amato in Italia da gente come Fellini, Flaiano e Tomasi di Lampedusa. Ribelle e girovago, Gissing trovò spesso rifugio lontano dall’Inghilterra. Ammalato di tisi muore nel 1903, a soli 46 anni, finendo il suo esilio a St. Jean de Luz, uno sperduto villaggio dei Bassi Pirenei affacciato sul Golfo di Biscaglia. Con lui c’era solo la sua giovane traduttrice francese, Gabrielle Fleury, divenuta nel frattempo la sua terza moglie. Quando morì Gissing era alla fine di una febbrile quanto disperata attività di scrittore di mestiere, un vero forzato della penna: lasciava ben 27 romanzi e più di 100 short stories.

    Un viaggiatore fuori rotta.

    Oltre che scrivere, per tutta la vita aveva viaggiato a lungo e avventurosamente Gissing, cercando altrove una patria che non era la sua. Negli Stati Uniti ventenne visse di stenti e da esiliato per qualche anno facendo il giornalista e il professore di letteratura; fu poi a più riprese in Francia, in Svizzera e in Germania, dove studiò il tedesco e la filosofia di Schopenhauer. Innamorato del Mediterraneo viaggiò anche in Spagna, in Grecia, in Albania e tornò per ben tre volte in Italia. Il Sud della penisola fu per lui la sua seconda patria. Qui cercò a più riprese di ritrovare se stesso, guardando ogni cosa con un acume di passione («una sorta di angina pectoris») che rende credibile il suo giornale di viaggio, sospinto ora per ora dall’illusione di poter ricominciare altrove an other new life. Fu così che Gissing, povero e malfermo di salute, si recò per ben tre volte in viaggio nell’Italia post-unificata, prediligendo alle grandi città d’arte e alle mete dorate del Grand Tour, le più amate e «modestamente avventurose» contrade che appartennero alla oramai opaca e remota geografia storica della Magna Grecia. A differenza di altri letterati, fu lui che scoprì per primo, ultimo dei grandi viaggiatori britanici, il Sud più vero e antiretorico, quello povero e anticlassico. Si spostava in treno, in battello, in diligenza e a dorso di mulo, ma, soprattutto, a piedi. Prima Napoli, «il luogo più meraviglioso e più terribile d’Europa» e i suoi magnifici e decadenti dintorni, Cuma, Paestum, Pompei, e poi il Cilento. Più a sud percorre la maestosa dorsale tirrenica, dove «i monti di un azzurro pervinca sembrano emergere direttamente dal mare della Calabria». Più di tutto lo attrasse la lontananza della Calabria, con le «piccole marine dai colori scialbi e giallastri» e i piccoli paesini aggrappati ai costoni di tufo di fronte all’immenso arco luminoso dell’orizzonte, dove tra mare e cielo, «simile a uno specchio capovolto» si riflette l’omerica fatamorgana delle Eolie. Poi sbarca sul versante opposto, in vista del profilo basso e collinoso delle coste ioniche «su cui sembra aleggiare il pathos di un’antichissima desolazione». Terre abbandonate e malariche, costeggiate ||69|| sul confine lambito dal treno tra Squillace e il golfo di Taranto. A quel tempo sotto le sabbie glauche, tra i canneti umidi di una grande palude inondata periodicamente dal Crati, giacciono non ancora dissepolte dagli archeologi le spoglie dell’antica Sibari. Ma davanti agli occhi di questo viaggiatore lucido e incantato appaiono anche i primi avamposti traballanti e incompiuti della nuova civiltà. «Alla Magna Grecia. Stabilimento Idroelettropatico»: giunto dopo un giro a piedi al confine della città nuova di Taranto, Gissing si imbatteva in questa curiosa epigrafe che annuciava pomposamente l’ingresso in costruzione di un nuovo bagno termale. «Tutto bene. Nel ricordo della Magna Grecia da queste parti si è disposti a tollerare anche idroelettropatico come una tarda eco della lingua ellenica», sottolinea Gissing con ironia distonica. E poi, ecco uscire dai suoi diari di viaggio, in una serie di effetti scenici già quasi felliniani, un catalogo indimenticabile di situazioni e immagini che anticipano il festival metastorico dell’eclettismo e il post-moderno dei giorni nostri. L’immagine surreale dei «grandi silos vuoti e sbarrati» costruiti vicino al molo del porto nuovo di una misera Crotone ancora «attraversata da greggi di capre », spettrale nel caldo della controra e avvolta dai miasmi di «una malaria endemica». Taranto, in cui già si costruisce davanti al Mare Piccolo il tetro fabbricato del grande arsenale militare, icona preindustriale che anticipa lo scempio chimico dell’Italsider. Sobborghi e marine imbruttite dai primi segni di un’incipiente disordine edilizio, costellate dai primi palazzoni abusivi «tra strade che si perdono nella campagna e mucchi di rifiuti polverosi». Gli «orribili ponti di ferro della ferrovia» che scavalcano il Crati e il Busento alla confluenza che preannuncia l’arrivo a Cosenza. Reggio Calabria dove il nuovo mattatoio comunale è «un edificio grottescamente decorato che pareva piuttosto qualche interessante istituto, museo o galleria d’arte». In vista dell’ultima colonna del grandioso tempio di Era Lacinia, si imbatte nel surreale cimitero di Crotone ancora isolato in mezzo alla campagna (oggi quasi incistato dentro i casermoni della periferia). Un luogo di memorie visitato con la stessa trepidante disposizione d’animo di un museo, «poiché mi piace vedere come un popolo ricorda i suoi morti, e qui in questo cimitero-giardino, in mezzo alle aiuole fiorite sotto il sole, la morte sembra ancora nutrirsi di una festosa energia, di una grazia pagana». Si inoltra tra plaghe deserte e campagne già spopolate. Visita piccole città provinciali e villaggi remoti, dove Gissing fu «il primo straniero arrivato dopo più di cent’anni». L’inglese sarà capace di cogliere i segni caotici del cambiamento, luoghi, situazioni e figure che appartengono già al moderno. I suoi compagni di strada sono militari e viaggiatori di commercio, procuratori legali e affaristi che sciamano tra caserme e bordelli, sale d’aspetto e tribunali. Lo ritroviamo in mezzo alla gente che già si affretta agli imbarchi e nelle stazioni ferroviarie, tra gli avventori vocianti che si incontrano per il pranzo nelle sale di ristoranti e alberghi moderni aperti da poco per la clientela di passaggio nei centri di provincia, assieme al popolo che frequenta i banchi ||70|| del Lotto e alla piccola borghesia che indugia ai tavolini dei caffè e nei circoli cittadini. E dopo i musei l’inglese non manca mai di visitare case chiuse e sale da concerto, teatrini di canzonetta dove si esibiscono sciantose e ballerine. Un mondo destinato al tramonto. Nei ricordi di viaggio dello scrittore vittoriano va in scena in forma comica e grottesca quella rappresentazione della vita quotidiana che dalle soglie dell’epoca moderna è durata nelle province del Sud, salvo poche eccezioni, quasi per tutto il XX secolo, con lasciti di memoria che arrivano quasi sino ai giorni nostri. Un’altra Italia. Così Gissing incontra, a Cosenza, un genovese viaggiatore di commercio, tale Questa, che già divide l’Italia in «Nordici e Sudici». Questo antesignano di Leo Longanesi e del senatore Borghezio gli racconta come durante ogni viaggio per idiosincrasia verso il sud e i suoi abitanti egli venga afflitto da violenti attacchi di febbre: «cercai di mostrare un pò di comprensione per questo infelice venditore di pillole». La scena si ripete quando arriva a Crotone, di notte, su una vettura a cavalli in compagnia di due rappresentanti di commercio bolognesi. In mezzo al buio e sotto gli scrosci della pioggia, «non si vedeva ancora nulla della fisionomia di Crotone, finché dal finestrino rotto della carrozza, una malinconica e fioca illuminazione a olio non ci rivelò il lato di una piazza riparata da un portico. Bologna! Bologna! gridarono i miei compagni, ridicolizzando sfacciatamente questa debole e inaspettata reminiscenza meridionale della loro pingue cittàdel Nord». Invece Gissing, il maledetto inglese, fu davvero sentimentalmente toccato e umanamente attratto dall’incontro con la gente del Sud, piùautenticamente coinvolto nell’esperienza dal vero di altri eccentrici stranieri e di più blasonate firme britanniche del Grand Tour. Alla fine del suo viaggio, scrisse: «Per quale motivo ero venuto quaggiù se non perché sentivo di amare profondamente questa terra e questa gente, e quanto piùabbondantemente di ciòche mi meritassi ero giàstato ricompensato da loro per questo mio amore?». Non c’era degnazione in queste parole. Nell’autunno del 1897, proveniente da Napoli, dove il giorno prima aveva fatto testamento davanti al console inglese Mr. Rolfe, Gissing sbarca la mattina del 17 novembre 1897 dal vapore Florio. Scende sulla costa della Calabria tirrenica, a Paola, un «paesino dai colori stinti», attratto lìsolo da quel suggestivo nome di donna. Inizia da questa località da questo grembo di donna, il lungo détour dello scrittore che visiterà una dopo l’altra le diverse contrade della Calabria, regione considerata dai grandi viaggiatori una sorta di intervallo opaco tra Napoli e Palermo, un deserto della civiltà. Il viaggio, proseguito a piedi e con mezzi di fortuna verso le località dell’interno, lo porta poi nei giorni più umidi e piovosi di «un orribile novembre» proprio nella malarica e sperduta Crotone di fine secolo. Qui subisce un attacco di tisi e il delirio della febbre polmonare. Viene curato generosamente (solo tè e chinino) da un medico del posto, Riccardo Sculco, «il mio amico dottore », e accudito dalle querule serve di una povera locanda della città pitagorica. Si rimette miracolosamente in piedi, riparte in treno e fa tappa a Catanzaro, ||71|| la cima ventosa scelta per una breve convalescenza. Appena arrivato cerca una sistemazione in albergo; la città gli è completamente sconosciuta. I suoi manuali di viaggio borghesi, seguiti da Gissing svogliatamente e solo in caso di pura necessità, uno inglese – il Murray’s Handbook – e l’altro tedesco (la famosa guida Baedeker per l’Italia meridionale, stampata a Lipsia e aggiornata periodicamente), segnalano concordemente l’esistenza dell’unico albergo di Catanzaro «decoroso e ben situato», il «Centrale», aperto sul corso principale della città. Ed è tra le mura di questo modesto albergo di provincia che per noi si compie il salto nel tempo. Tra le pagine di un libro prende forma il gioco dei travisamenti che detta la cifra paradossale di tutta questa storia. Proprio a un ricordo di George Gissing e alla sua umanissima e sensibile passione per il Sud, il mondo deve il curioso e goffo nomignolo di «paparazzo». Un nome comune superimposto dai media che oggi designa universalmente a Parigi e a Roma come a Tokyo e a New York, i fotografi d’assalto e il loro mestiere di testimoni oculari di un mondo che vuol tutto vedere, vita e morte, tragedie e farse. Salito su questo «monte del rifugio», Gissing sostò a Catanzaro dal 7 all’11 di dicembre, alloggiando al «Centrale», nella speranza di riprendere in pochi giorni le forze infiacchite dalle febbri. Catanzaro è a quel tempo un centro di provincia piccolo e sparuto. Poco più di un paese antico, al di sopra di «una valle verde e grigio argentea di ulivi che dall’alto del monte sembra di una lunghezza smisurata». Una sorta di «castello di Drumlanrig» o città delle favole, «issata su una cima battuta da venti furiosi. Non era facile capire come si potesse arrivare alla città lassù in alto. Catanzaro sorge sulla sommità di una rupe isolata che sembra priva di tracce di strade, ai lati della montagna burroni spalancati nel vuoto a destra e a sinistra. Un vero e proprio abisso dove è impossibile non pensare ai terremoti. Le case e i muri esterni intorno corrono tutti sull’orlo del precipizio e sembrano dover cadere giù nell’orrido da un momento all’altro. I panorami ovunque si spinga lo sguardo sono magnifici, indescrivibili. Anche il giardino pubblico della città è simile a un bosco incantato sull’orlo di un precipizio che guarda a oriente». Catanzaro di cent’anni fa, senza i ponti e il casino del traffico di oggi. Squassato in passato dai terremoti, il centro – allora come ora – è fatto di un grumo di «vecchie case rachitiche e di grossi edifici nuovi non ancora finiti, pubblici e privati, costruiti con materiale scadente e di una rozza intelaiatura di cemento». Privo di qualsiasi attrattiva classica, il luogo gli diventa però ugualmente memorabile. «Fra le donne del popolo c’è profusione di grazia e di fiere bellezze. Qui le donne per fortuna sono ancora attratte dalla bellezza e dall’intelligenza, a cui rendono volentieri omaggio. Non è forse meglio della stupida finzione inglese di sacrificare tutta la bellezza della vita sull’altare di un’ipocrita moralità?». Guidato in città da un picaro locale, il vice console inglese di Catanzaro, Don Pasquale Cricelli, un anziano aristocratico del posto «che non sapeva parlare una sola parola d’inglese », scopre conversando con i borghesi del circolo Unione che anche la gente ||72|| comune per intelligenza e tradizione «mostra un rispetto innato per le cose dello spirito, che manca invece tipicamente nell’inglese medio». Trova la popolazione cittadina autenticamente ospitale, la gentilezza verso lo straniero priva di affettazione. «Anche per strada ci si comporta con dignità, in modo austero, quasi nobile. Un caffè di Catanzaro può sembrare al paragone di certi pub di Londra un’assemblea di saggi e di filosofi». Gissing in quei pochi giorni che trascorse a Catanzaro non passò inosservato. Ancora alcuni anni dopo il suo soggiorno in città, il giornale La Giostra non manca di ricordarlo tra i visitatori illustri in un articolo dell’ottobre del 1900. A sua volta, il più famoso ed eccentrico Norman Douglas, in Old Calabria del 1915 ripercorrerà il cammino sulle tracce di Gissing a Catanzaro e Crotone. Accadde così che l’episodio del foglio di Don Coriolano, carico di ingenua retorica e di umori strapaesani, legato a quel nome Paparazzo che per Gissing fa già personaggio, venne riportato con cura meticolosa nel diario di viaggio di questo vittoriano solitario. Era di mercoledì, il 7 dicembre 1897. Il proprietario dell’«Albergo Centrale» di Catanzaro, Don Coriolano Paparazzo, proprio quel mattino, preoccupato per il calo registratosi in quel periodo nei suoi affari, aveva saputo «con sommo rammarico» che certi suoi clienti andavano «a pranzare altrove». Paparazzo aveva deciso di collocare sulla porta di alcune camere occupate dagli ospiti di riguardo, un foglio di avviso con il quale veniva a lamentarsi del fatto che negli ultimi giorni i clienti presenti in albergo avevano mancato di utilizzare il servizio di cucina offerto dal ristorante interno, posto al primo piano dell’albergo. «Ciò tocca il morale di detto proprietario, così come danneggia il prestigio della Ditta», aveva scritto su quell’avviso, addolorato e un po’ risentito, il signor Paparazzo. E perciò, da quel momento, egli prendeva solennemente e per iscritto l’impegno di soddisfare la sua clientela migliore, promettendo personalmente «che farà tutto del suo meglio per mantenere alte le qualità dei cibi» offerto agli ospiti nel ristorante dell’albergo. L’avviso terminava con una buffa e cerimoniosissima formula di invito rivolta ai clienti disertori: «detto proprietario si onora dunque pregare i rispettabili Signori Clienti affinché vogliano benignarsi il ristorante al servizio della Ditta, ecc.». La firma apposta in calce al foglio era stata siglata personalmente dal proprietario, autore di quel curioso comunicato, con uno svolazzo d’inchiostro. «Firmato dal Proprietario: Don Coriolano Paparazzo». Quel tale Paparazzo, zelante proprietario del Centrale, aveva notato l’ospite straniero tra i soliti clienti del suo albergo. Un giovane distinto, alto e magro, il volto pallido, lunghi capelli alla nazarena e folti moustache. Era arrivato in albergo con l’aria sofferente, trascinandosi dietro un’enorme valigia. L’aspetto riservato e un pò misterioso, qualcosa di eccentrico e artistico nel sembiante affilato incuteva rispetto e curiosità. Certamente un ospite insolito, da trattare con riguardo. Non voleva fare brutta figura Don Coriolano, oste all’antica e gentiluomo di Catanzaro, con quello straniero sconosciuto. Anche Gissing in quegli stessi giorni aveva disertato ||73|| volentieri il pretenzioso ristorantino del signor Paparazzo – «Questo Albergo Centrale non è certo molto confortevole e si mangia molto male, nella sala da pranzo al primo piano non si fermano mai più di cinque o sei avventori » egli ci ricorda – per assaggiare in un’osteriola del centro il piatto preferito dal popolo, un sapido e piccante morsello», lo spezzatino di interiora accompagnato da un corroborante vino rosso di Cirò. Ma lo scrittore vittoriano non dimenticò mai più quel manierato e comico rimbrotto e il nome da burla del suo occasionale padrone di casa, che in suo onore si era improvvisato goffamente aulico prosatore. «Buffo e divertente», dice Gissing, che poi nel testo di By the Ionian Sea, mostrandosi più indulgente coi ricordi del tempo, corregge le sue prime impressioni e scrive a onore del suo oste catanzarese che «il vitto che mi provvedeva il signor Paparazzo mi andava bene, e il vino era così buono che avrebbe fatto perdonare molti dei suoi errori di cucina». Nella figura di Paparazzo lo sguardo antropologico di George Gissing sembra raccogliere tacitamente un profondo riverbero simbolico, un genius loci ridotto a sopravvivere nella contraddizione nominale di un icastico frammento del passato. Un nome che suona come un rintocco minimo della memoria, documento esemplare di una vita minore che si svolge nel crepuscolo anticlassico di una piccola città immersa nell’orizzonte sonnolento del profondo milieu calabrese: la Catanzaro di cent’anni fa, con le sue goffe ambizioni e velleità di grandeur, con i suoi riti provinciali e la sua lingua maccheronica fatta di gerghi avvocatizi e manierismi desueti, con i suoi personaggi fantasiosi e grotteschi, specchio del più tardo e prosaico Mezzogiorno ottocentesco. Tuttavia il ricordo di luoghi e persone chiamate a raccolta da questa piccola e stralunata cronachetta, all’insaputa degli stessi interessati, imprimerà col mutare dei tempi un segno postumo e indelebile nella storia del costume del secolo successivo. Il secolo xx. Il secolo della fotografia e dei divi del cinema, il secolo del gossip e dei reporter. Il secolo dei fotografi d’assalto: i paparazzi, appunto. Sono loro l’antonomasia della vita spiata, dell’immagine continua, della «morte al lavoro» che tutto mostra e rivela per bello o brutto che sia, gli orrori della guerra come il glamour della moda, gli scandali e le stravaganze dei vip che sorridenti o agonizzanti riempiono i rotocalchi di tutto il mondo. Sono loro che additano a tutto il mondo il mestiere del fotografo indiscreto che ruba con l’occhio freddo della sua fotocamera le immagini che tutti il giorno dopo corrono a vedere. Tutto ciò è divenuto inseparabile da questo ironico nome d’arte che suona strapaesano e nemmeno tanto concerned: «paparazzo». Insospettabilmente, è proprio un grande fotoreporter, Ivan Kroscenko, in un’intervista al Guardian del 23 luglio 1983, forse unico o uno tra pochissimi altri suoi colleghi al mondo, mostra di conoscere l’origine letteraria del nome paparazzo universalmente affibbiata al suo mestiere di fotogiornalista: «Lo scrittore Ennio Flaiano l’ha suggerito a Fellini come il nome migliore per il fotoreporter del film La dolce vita, dopo aver letto il libro di George Gissing By the Ionian Sea.

    ||74|| Il signor Paparazzo era un proprietario d’albergo che si è dimostrato buon amico dello scrittore», e perciò, aggiunge infine Kroscenko con riguardo a se stesso e alla categoria, «personalmente non ho mai pensato che essere chiamati paparazzi fosse da considerarsi un insulto». Per dare un nome universale a questi lavoratori conto terzi di una società di guardoni, dunque qualcuno, un altro scrittore, Ennio Flaiano, ha affibbiato loro il comico nomignolo di un incredibile e balzachiano trattore catanzarese che un giorno di cent’anni fa, sfidando inconsapevolmete il ridicolo firmò di suo pugno un fantasioso foglietto commerciale. Come accadde? E quando, caduto sotto gli occhi e la penna di Flaiano, questo bislacco avviso di cucina conservato da uno straniero di passaggio all’albergo centrale di una prudente città di provincia calabrese, testimone uno scrittore inglese ammalato di tisi e di malinconia, si trasforma in un’altra cosa? Un nome in una sceneggiatura, un personaggio nuovo in un film che segnerà per tutti la percezione di un’epoca, un altro mondo. E perché proprio quel nome in mezzo a tutti gli altri possibili diventerà quello del fotografo della Dolce vita di Fellini e Flaiano? L’albergatore Coriolano Paparazzo non è forse un personaggio felliniano ante litteram? Aspettava solo un altro curioso, un esegeta del secolo successivo, quel nome buffo lasciato sopravvivere come un simbolo a futura memoria tra le pagine del diario di Gissing: per via di quel ridondante e comico dispaccio commerciale e per quella incredibile mescola di Coriolano, un nome altisonante e classico, che allo scrittore vittoriano non poteva che ricordare, oltre al famoso generale romano che espugnò la città di Corioli, l’omonima tragedia scritta nel 1610 dal suo amato Shakespeare. Gli stranieri notano il nome di battesimo. A don Coriolano la sorte aveva però affibbiato, nella persona e nel nome dell’ineffabile ospite catanzarese di Gissing, l’eco lutulenta e plebea del

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